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Autore: Sophie Isabella Nikolaevna    20/09/2013    1 recensioni
[Fandom: Iliade, Omero]
Atena Glaucopide, la dea dagli occhi azzurri. Il Pelide Achille, eroe fra gli eroi. Un incontro avvenuto per caso e un legame che ben presto, nonostante i divieti e le insidie della guerra, diventerà indispensabile per entrambi, tessendo dietro all'Iliade che tutti conosciamo una rete di segreti. Il cuore solitario di una dea racconterà ciò che per anni ha tenuto segreto: la storia di un amore sofferto, di una guerra in bilico, di un eroe spietato e insieme magnanimo, una seconda Iliade che nessuno ha mai letto.
Genere: Drammatico, Guerra, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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CAPITOLO 4

Gli raccontai quello che era successo. La testa mi girava ancora per la caduta, e, pur cercando di mantenere la calma, non ero sicura di stare parlando in maniera comprensibile. Tuttavia, lui sembrava capire.
"Evidentemente, oggi non è stata una buona giornata per nessuno dei due", commentò, potevo leggere l'ira nei suoi occhi. Cieli tempestosi.
"Esattamente, Pelide. Ora sei tu a dovermi spiegare il tuo comportamento con Agamennone".
Si passò una mano sugli occhi e, forse per la prima volta, non mi guardò in faccia mentre mi parlava.
"Quel cane. Ha...".
"Lo so che cosa ha fatto, Pelide. Voglio che tu mi dia una spiegazione per le tue parole. Ti avevo detto di ferirlo con il discorso e non con la spada, ma non volevo, non avrei mai voluto, che tu ti ritirassi dalla guerra. Dimmi perché l'hai fatto".
"L'ho fatto, dea, perché quell'uomo ha ferito il mio onore", rispose voltandosi di scatto. Non lo diedi a vedere, ma fui pervasa da un moto di paura. Per un breve attimo, vidi nel suo volto la furia dell'assassino, del guerriero sterminatore. Se non avessi saputo di stare parlando con l'eroe Achille, avrei detto che chi avevo davanti era un guerriero pervaso dalla furia violenta di Ares, e non dalla mia Guerra. Tuttavia, sapevo che non era così.
Speravo che non fosse così.
"Non posso tornare a combattere, mia signora", mi spiegò, i denti stretti. "Calpesterei il mio onore più di quanto non sia già stato calpestato".
"Ma così facendo assicurerai al tuo esercito la sconfitta, Achille".
"No. Loro hanno Aiace Telamonio, hanno Diomede, hanno Odisseo e il suo arco. Se la caveranno".
"Non è così, lo sai bene. Li metterai in grosse difficoltà".
Di nuovo, Achille abbassò gli occhi:
"Lo so, Pallade". Sospirò. "Ma non posso fare altrimenti". Fece una pausa. "
Briseide ora è con Patroclo. Entro breve andranno a prenderla".
"Ti importa davvero così tanto di quella ragazza, Pelide?", non potei fare a meno di chiedere. "Tanto da spingerti a non combattere?".

"No, mia signora. Avrebbe potuto essere un'altra donna: non vi sarebbe stata alcuna differenza. Certo, quella ragazza ha un valore, ma non è questo il punto. Agamennone ha preteso da noi un dono in cambio della sua schiava, un dono che non potevamo offrirgli, non lì, non in quel momento. Non ne avevamo i mezzi, ci sono rimaste poche ricchezze, da gestire come ognuno di noi meglio crede. Di certo, io non avevo alcuna intenzione di sprecare il mio bottino, che mi sono guadagnato in dieci anni di guerra, per ripagarlo di Criseide. Lui ha perso la schiava per via della sua arroganza, ed è giusto che chi è causa dei propri stessi mali sappia risolversi i problemi da solo. Quel cane non si è quasi mai esposto in battaglia, non l'ho mai visto affrontare i nemici come li affrontiamo sempre io, Aiace e Odisseo. Chi è lui per pretendere dei doni da noi? E ora che, dopo avermi insultato, dopo avermi detto che la mia forza non vale nulla, si è preso la mia schiava con la forza, il mio onore non mi permette di combattere sotto il suo comando. No. Ha detto, prima che arrivasti tu, Pallade, che potrebbe tranquillamente fare a meno di me. Lo accontento".
Volli rispondere, ma rimasi in silenzio. L'onore. Perché? Perché l'effimero parere altrui aveva tanta importanza per i mortali? Le loro vite duravano un soffio, perché sprecavano energie a concentrarsi su quello che altri mortali, caduci quanto loro, potevano pensare? Achille aveva volutamente scelto per sé una vita più breve di quella di chiunque altro, perché non voleva più viverla combattendo?
Perché voleva sprecare i suoi pochi giorni?

Quel pomeriggio i soldati di Agamennone si portarono via Briseide. Osservai la scena da lontano, in riva al mare. Achille non li fermò, non li ostacolò. Non li guardò nemmeno in faccia. Ma quando se ne furono andati portandosi dietro la schiava, il Pelide si allontanò dalla propria tenda senza dire una parola. Si diresse verso il mare, ma non nella mia direzione. Lo osservai da lontano mentre camminava lungo il litorale e si faceva sempre più piccolo. Socchiudendo gli occhi, potevo ancora distinguere i dettagli della sua veste. Nessun umano avrebbe potuto notarli, a quella distanza, né avrebbe potuto udire il rumore dei passi di Achille sulla sabbia come lo udivo io. Quando fu giunto in un punto sufficientemente lontano da qualunque tenda, accanto ad un'altura su cui sorgeva un tempio di Apollo, si fermò. Un'idea mi salì alla mente, tanto improvvisa quanto terrificante: si era recato al tempio di Apollo per ottenere favori dal figlio di Latona, tradendo il suo intero esercito. Ma era un pensiero sciocco, e inverosimile. Achille, infatti, non si voltò verso il tempio del dio, bensì rimase a guardare il mare.
All'inizio dubitai della mia vista. Pensai di aver scambiato una semplice onda per uno straordinario prodigio, un essere vivente... una donna.
Le ninfe erano sempre capaci di sorprendermi, nonostante persino il mio
più debole potere fosse in grado di contrastare senza fatica tutte le loro forze insieme. Era Teti, la madre di Achille. Emerse dalle onde come se fosse stata creata della loro stessa materia, e probabilmente lo era. Mi parve di vedere la sua pelle scintillare, o forse era la veste. Argento.
Appoggio una mano sulla spalla del figlio. Per la seconda volta non potei credere ai miei occhi: Achille si portò le mani al viso e cominciò a singhiozzare. Sbattei le ciglia, sbalordita. Era vero? Teti lo abbracciò, e lui cominciò a parlarle.
Non volli sentire.

Non è vero che una dea sa tutto. Nemmeno mio padre Zeus può affermare con certezza di conoscere ogni cosa. Una dea non sa tutto. Una dea può vedere oltre i fatti, ha l'acume per raggiungere una conoscenza successiva. Una dea ha la vista di falco e i piedi di ghepardo, è capace di scrutare dietro alle leggi fisiche e dirigerle in direzioni diverse. Ma una dea non può prendere decisioni a suo piacimento. Può modificare il corso degli eventi, ma non senza conseguenze. Ci sarà sempre, per ogni aiuto, ogni sostegno che una creatura divina darà ad un mortale, una ripercussione, da qualche parte, positiva o negativa. Tutto si conserva, e nemmeno le azioni divine passano inosservate. Per questo io, Atena, non posso smettere di pensare, e pensare, e pensare, fino a rodermi nel profondo. Aiuto gli uomini, rendo loro favorevoli le azioni di Guerra, li dirigo sulla strada della Saggezza. Ma l'energia torna indietro. Per ogni buona azione che compio, nasce un pensiero in più nella mia testa, e io non posso fare a meno di interrogarmi, di notare ogni dettaglio, di non dimenticare mai nulla, di prestare attenzione a qualsiasi cosa. Può essere un bene come può non esserlo.
Nessuna dea riconoscerebbe mai di non sapere tutto: io sì. Io posso deviare il corso del vento o la traiettoria di una lancia, ma non posso leggere nei cuori delle persone. Non posso.
Solo il Fato sa scrutare gli animi.

Passarono i giorni. Non domandai ad Achille del suo incontro con Teti, lui non me ne parlò.
Furono giornate di stasi. Achille non combatteva. Agamennone prendeva buona ogni occasione per sparlare di lui con altri soldati, e così facendo mi ricordava terribilmente Afrodite. Nonostante i dissapori spesso avuti con loro, mi mancavano le altre dee, mi mancavano Apollo e Ares, mi mancava Hera. Nessuno di loro era sceso al campo in quei giorni. Ma quello che era stato detto non poteva essere ritirato. La porta non avrebbe potuto essere riaperta.
Finché, quella mattina, lei non tornò.
Era il dodicesimo giorno dall'incontro di Achille e Teti, e camminavo in mezzo agli alberi. Mi recavo là ogni notte, nei boschi dietro Troia, per parlare con le civette. I nostri discorsi andavano oltre ogni comprensione mortale. Parlavamo come parla chi vede il mondo con occhi diversi.
In confronto all'oscurità notturna del bosco, il cielo mattutino era un diamante abbagliante.
Una mattina limpida, l'aria frizzante, il cielo luminoso tanto chiaro da sembrare bianco, un azzurro impercettibile. L'alba si era appena conclusa. Stavo tornando all'accampamento acheo. A quell'ora i guerrieri iniziavano a prepararsi per la giornata appena iniziata.
Improvvisamente scorsi poco lontano da me, sul limitare del bosco, un pavone completamente bianco che faceva la ruota. Sembrava scolpito nel marmo da quanto ogni suo dettaglio era perfetto, dalle piume ritte sopra la testa a quelle lunghe e vaporose della coda, un intarsio pregiato. Riluceva come una leggera tenda bianca alla finestra in una mattina d'estate, attraversata da luce pura. Il mio cuore fece un salto. Hera! Doveva essere vicina, ed era venuta per me! Iniziai a correre, e in poco tempo raggiunsi l'uccello.
Non appena uscii dal bosco la trovai appoggiata ad una roccia. La sabbia mista a terra aveva un color ocra rossa che richiamava quello dei suoi capelli di fiamma. Il pavone, ritirata la ruota, le si affiancò e si accovacciò a terra ai suoi piedi.
"Hera!". Ci abbracciamo. "Hera, amica mia, quanto sono felice di rivederti! Dove siete tutti? Perché non vedo più nessuno di voi in battaglia?".
"Anche io sono felice di vederti, Atena. Eravamo nel paese degli Etiopi, e ci siamo rimasti per dodici giorni".
"Nel paese degli Etiopi? E perché?".
"L'ha deciso Zeus, di punto in bianco. Penso avesse qualche affare in sospeso con un nostro parente, da quelle parti. Come al solito, non ha voluto spiegarmi nulla".
Non seppi con quali parole rispondere. Subito dopo la mia espulsione, Zeus se n'era andato portandosi dietro tutti gli dei, con il preciso intento - lo sapevo - di farmi sentire abbandonata.
E forse aveva raggiunto il suo obiettivo.
"Nessuno di noi è più lo stesso di prima, ora che tu non ci sei più".
"Davvero?". Mi allontanai di un passo da lei, confusa. "E che cosa dicono della mia scomparsa, se mi è lecito saperlo?".
Hera sospirò.
"Manchi ad Artemide, a Hermes, e penso anche ad Afrodite. E soprattutto a me. Io e Zeus litighiamo ogni giorno. Non posso perdonarlo per quello che ti ha fatto, né per quello che sta infliggendo a me".
"La colpa non è di Zeus, Hera. Sono stata io ad espormi, io a disobbedirgli. Ma mi sono presa la responsabilità delle mie azioni, e mi ritengo fiera di essermi comportata come ho fatto".
Hera sorrise:
"Questa è la dea della Saggezza".
"Dimmi di te, ora. Quali sofferenze ti sta infliggendo Zeus?".
"Come al solito, ha voluto nascondermi le sue azioni". Sospirò. "Ma questa volta sono riuscita a scoprirle. E' stato poco prima della nostra partenza per il paese degli Etiopi. Ero con Efesto alla sua fucina, e stavamo parlando di alcune armi da costruire. Avevo lasciato Zeus solo, al suo trono d'oro, nel prato in cima all'Olimpo. Quando sono tornata indietro, però, non era più solo: una donna era con lui. Potevo vederli, ma loro non vedevano me: mi ero nascosta dietro ad alcuni alberi lì vicino. Atena, quella non era una donna qualunque. Vedevo chiaramente il suo viso alla luce del Sole. Era Teti, ninfa marina, madre del Pelide Achille".
Aprii la bocca per dire qualcosa, ma non mi uscì alcun suono.
"Non so come sia iniziato il loro discorso", proseguì Hera. "Teti abbracciava le ginocchia di Zeus, evidentemente per ottenere un favore da lui. Non mi hanno sentita arrivare, e sono riuscita ad ascoltare la fine della loro conversazione. Lei gli stava chiedendo se avesse o meno deciso se fare qualcosa per lei, qualcosa che ignoravo. Lui ha acconsentito: l'avrebbe fatto, di qualsiasi cosa si trattasse". Hera fece una pausa, ma io, ancora una volta, non risposi. Troppi pensieri mi ronzavano in testa, come uno sciame di api. "Dopodiché, quella sera stessa, siamo partiti per il paese degli Etiopi. Ho continuato a fargli domande sul suo incontro con Teti per tutto il viaggio, ma egli, naturalmente, non ha voluto darmi risposte. Solo alla fine, una volta tornati all'Olimpo, sono riuscita a strappargli alcune informazioni".
"Davvero?", non potei fare a meno di chiedere. "E come ci sei riuscita? Non ho mai conosciuto nessuno più testardo di Zeus".
Hera sospirò.
"Nell'unico modo in cui avrei potuto riuscirci". Fece una pausa e capii che non voleva entrare nei dettagli. Non domandai. "Ad ogni modo, mi ha raccontato tutto. Teti gli ha parlato dello scontro fra Achille e il re Agamennone, della disperazione di suo figlio e della sua decisione di non combattere più. Lo ha pregato di fare qualcosa, qualsiasi cosa, pur di far sì che l'esercito acheo abbia bisogno di Achille, affinché egli possa combattere di nuovo, affinché non sprechi la breve vita che ha scelto di vivere...".
"...e Zeus ha accettato", finii la frase.
"Esatto".
Fui pervasa da un improvviso moto di speranza.
"Che cosa farà?".
"Invierà ad Agamennone un sogno ingannatore, un sogno che farà credere al re di Micene di avere ormai la vittoria in pugno. Agamennone schiererà così le truppe, ma andrà incontro ad una sconfitta. Così, si renderà conto dell'importanza della presenza di Achille, e lo pregherà, finalmente, di tornare all'esercito".
"Una sconfitta?", chiesi, turbata. "Quanto grande?".
Hera si strinse nelle spalle:
"Grande abbastanza da superare l'orgoglio di Agamennone. Quindi, suppongo piuttosto ingente".
"Non posso permetterlo", mormorai. "Non posso... So quello a cui il mio esercito sta andando incontro, non posso non dare loro aiuto...". Mi bloccai. "Ma se li aiuto, Achille non tornerà da loro...".
Hera mi guardava scuotendo la testa.
"Ritenevo fosse giusto avvisarti", disse, "ma so che non è facile decidere il da farsi".
"Devo avvisare Achille", risposi quasi senza pensare. "Devo per forza parlare con lui".
"Forse hai ragione. Forse è la cosa migliore da fare".
"Non è la cosa migliore, ma è semplicemente quella che causerebbe meno danni. Ma devo parlargli subito". Guardai Hera negli occhi. "Tornerai a trovarmi?".
"Certo".
Ci abbracciammo, e capii quanto preziosa era stata in quei pochi minuti la sua presenza, quanto le fossi grata. Capii che, fra gli dei e fra i mortali, solo di lei potevo fidarmi.

"Achille, ho bisogno di parlarti".
Il re dei Mirmidoni si voltò a guardarmi, sorpreso. Lo stesso fecero Patroclo e Odisseo, con cui stava parlando davanti alla propria tenda. Io stessa mi stupii di come mi ero rivolta a lui.
"Perdonami l'irruenza, Pelide. Si tratta di questioni importanti. Spero che tu voglia scusarmi per i miei modi di pochi istanti fa", mi affrettai a dire.
"Una dea non deve scusarsi con un mortale per questo", rispose Achille. "Ti ascolto, mia signora". Si voltò verso i suoi interlocutori, e fece loro un gesto con il capo che stava chiaramente a significare che avrebbero dovuto allontanarsi e tornare da lui in un secondo momento.
"No, non andatevene, guerrieri", esclamai istintivamente, senza un progetto preciso in mente. "Forse è utile che anche voi due ascoltiate".
Sì, forse non era una decisione troppo avventata. Nessuno conosceva Achille quanto Patroclo, e Odisseo era un altro suo buon amico. Entrambi erano guerrieri valorosi e intelligenti. Avevano anch'essi il diritto di essere a conoscenza delle macchinazioni di Zeus. Inoltre, se avessi parlato con Achille al loro cospetto, mi avrebbero aiutato a convincerlo.
"Entriamo nella mia tenda, allora", propose Achille. "Lì potremo parlare indisturbati".

Raccontai loro tutto. Patroclo mi ascoltò a bocca aperta e Odisseo ogni tanto, durante il mio resoconto, annuiva. Achille mi guardò negli occhi per tutto il tempo, ma capii che le mie parole non lo stavano minimamente scalfendo.
"Capite, Achei?", dissi infine, concludendo il discorso. "Il solo modo in cui è possibile evitare al vostro esercito la sconfitta è che Achille torni a combattere. Ora, e non a sconfitta subita".
Odisseo e Patroclo si voltarono a guardarlo, e lo stesso feci io. Per una decina di secondi regnò sovrano un silenzio carico d'ansia, poi Achille sospirò.
"Non posso, e lo sapete".
Chiusi gli occhi. Sarebbe stata una discussione difficile.
"Achille, stai declinando la richiesta di una dea. Te ne rendi conto?", lo ammonì Patroclo con tono timoroso.
"Non è questo il problema", risposi. "Il problema è quello che ne sarà dell'esercito acheo. Io ho abbandonato l'Olimpo, ho abbandonato mio padre Zeus per proteggere questo esercito. Non posso permettere, ora che conosco i piani di mio padre, che subisca una sconfitta".
"Una sconfitta è solo ciò che Agamennone si merita", sentenziò Achille.
"Ma pensi veramente che anche noi la meritiamo?", gli chiese Odisseo. "Io e tuo cugino Patroclo?".
Calò il silenzio.
"Odisseo, Patroclo. Potreste, per favore, lasciarmi solo con la dea?", chiese Achille a bassa voce, fissando il tappeto sotto di sé. "Ho bisogno di parlarle di alcune cose".
Sapevo già che cosa aveva intenzione di dirmi, tuttavia sentii il mio cuore accelerare il suo battito. Non volevo discutere con lui. La situazione era già abbastanza difficile.
I due guerrieri uscirono dalla tenda, dedicandomi inchini e saluti a cui risposi con un sorriso. Dopodiché mi voltai nuovamente verso il re dei Mirmidoni, preparata al peggio.
"Atena Glaucopide", iniziò, "io ho un enorme rispetto di te, e ti sono devoto come non lo sono con nessun'altra divinità. Non voglio in alcun modo sembrarti empio o sfrontato. Tuttavia, ti prego di non chiedermi più di tornare a combattere. Ti ho già spiegato le mie ragioni, giorni fa".
"Certo, Pelide, me ne ricordo", risposi. "Ora, però, la situazione è cambiata. So per certo che Zeus ha in serbo una sconfitta per il tuo esercito. Capisci? Non posso permettere che questo accada, non ora che saprei come evitarla, questa sconfitta".
"E' inutile, mia signora".
"Ma... i tuoi compagni!", esclamai, sforzandomi, in quel momento, di essere la dea della Saggezza e non quella della Guerra. "Io li proteggerò come ho sempre fatto, ma se Zeus stesso dovesse, ad esempio, disarmarli e nasconderli alla mia vista, non ci sarebbe niente che io potrei fare! Hai pensato a Patroclo?".
Un'immagine era impressa nella mia mente. Patroclo steso a terra privo dell'elmo, coperto da un'armatura non sua. Pallido e grondante di sangue.
"Mia signora, finché il comandante di quell'esercito sarà Agamennone, io non combatterò con loro. Inoltre, se fosse Zeus stesso a disarmare i miei compagni, non credo che la mia presenza potrebbe fare molto per salvarli. Chi sono io in confronto a Zeus, o a qualunque altro dio?".
Il discorso aveva una sua logica, ma non volevo, non potevo accettarlo. Quello che avevo davanti, in quel momento, non era un eroe, era un principe dai mille capricci insulsi.
"Davvero il grande Achille è così meschino ed egoista?", dissi a bassa voce. "Davvero ad un grande eroe importa tanto del parere degli altri? Se non stimi Agamennone, se non lo consideri degno di te, allora non dovrebbe essere
nemmeno
degno delle tue attenzioni. Perché sprecare energia ad arrabbiarti con lui, Achille? Perché vivere i tuoi giorni nella stasi? Perché, invece, non esci e non combatti, senza pensare a ciò che quella persona può dire di te? Sono delusa". Dovetti sforzarmi per non far sentire il tremolio della mia voce. "Sono veramente delusa. Sei un egoista". Mi alzai e mi diressi verso l'uscita della tenda. Non potevo più stare lì dentro, a meno di non voler gettare da una rupe ogni ultima traccia rimasta della mia natura divina e superiore. "I miei saluti".
Non appena fui fuori, mi resi invisibile a qualunque mortale e cominciai a piangere. Achille uscì di corsa dalla tenda e mi cercò con lo sguardo, ma inutilmente. Non sapeva certo che in quel momento ero esattamente davanti a lui. Rimase fermo a scrutare l'accampamento, e potei leggere il dispiacere nei suoi occhi, un dispiacere profondo. Quegli occhi erano due oceani tristi. Piansi nuovamente, senza che lui mi vedesse né mi udisse. Non avevo mai pianto prima d'allora, neppure nel momento più brutto della mia vita - una notte terribile di anni, secoli prima che non ricordavo mai volentieri.
Dopo qualche minuto Achille rientrò nella sua tenda. Una parte di me, la stessa che piangeva calde lacrime, volle rimanere lì finché non fosse uscito di nuovo, ma, per fortuna, almeno in parte ero ancora la dea della Saggezza.
Mi asciugai le lacrime e mi diressi verso il bosco. Avrei avuto tanto da raccontare alle civette, questa volta.



...
vi prego, non odiatemi. Ci ho messo sette mesi ad aggiornare, ma non odiatemi. Pls. Ho avuto, nell'ordine: il test di biotecnologie, la maturità, la patente, concerti vari di pianoforte/canto/chipiùnehapiùnemetta e il test di medicina. E' stato un periodo un po' pieno. Chiedo venia.
Ma passiamo alla storia. Come avrete visto, Atena non è una dea perfetta se non vista dall'esterno: in realtà nasconde molte domande, che si pone in continuazione, e molte insicurezze. In questo capitolo lascia trapelare questa sua personalità verso la fine, quando dice ad Achille di essere delusa da lui. Un'Atena dell'Iliade di Omero probabilmente non avrebbe mai fatto niente di simile, ne sono consapevole, ma io volevo, invece, soffermarmi sul lato "umano" della dea (come farò per il resto della storia), senza però mai esagerare (spero!).
Fatemi sapere la vostra opinione, anche se negativa!
Alla prossima, un beso a tutti!
Sophie




   
 
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