Film > The Avengers
Segui la storia  |       
Autore: Hagne    21/09/2013    1 recensioni
Tratto dal primo capitolo:
"I fantasmi del passato erano mostri difficili da addomesticare, creature d’ombra che mal tolleravano le catene alle quali venivano costrette, ed i suoi, di fantasmi, non avrebbero potuto essere imbrigliati neanche se avesse avuto le catene più spesse, pesanti e dure con le quali vincolarli"
[ Seguito di " A Demon's Fate"]
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Loki, Nuovo personaggio
Note: Cross-over, Movieverse, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
 <<    >>
- Questa storia fa parte della serie 'The Heart Of Everything '
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Capitolo 11
“Burning desire to live and roam free
It shines in the dark and it grows within me
I'm dreaming in colours of getting the chance
I'm searching for answers not given for free
They live inside as they lie within me  “
[…]

I'm dreaming in colours, no boundaries again
Dreaming the dream we all seem to share
The search of the door to open your mind
The search of the cure of mankind “
[ Utopia – Within Temptation]




La speranza non aveva forma in sè.
Non aveva un volume, un’unità di misura, e per quel motivo nessuno aveva un’idea precisa di cosa fosse,  a  cosa assomigliasse, se davvero esistesse. Ciononostante, se qualcuno lo avessero domandato, molti  avrebbe potuto affermare con sicurezza di averla vista almeno una volta nel corso della propria esistenza.
E che una forma alla fine ce l’aveva, in realtà.
Alcuni dicevano che assomigliasse ad una bambina dalle trecce bionde e il viso spruzzato di lentiggini.
Altri giuravano di averla vista sotto le mentite spoglie di  un vecchio anziano dal bastone nodoso e occhi tanto chiari da sembrare trasparenti come specchi.
Altri ancora parlavano di entità astratte, angeli, credevano in molti,  esseri soprannaturali che se si era abbastanza accorti, se si era abbastanza fortunati, si potevano percepire accanto a sé come un soffio di vento caldo, di quelli che convincono i fiori a schiudere i petali e mostrare al mondo la propria bellezza.
Ma nonostante l’esistenza di tutte quelle voci, di tutte quei racconti,  nessuno era ancora riuscito  a dargli una forma definita,  anche se secondo quelle storie la speranza ce l’aveva, una forma definita, solo che decideva di non mostrarsi sempre con lo stesso aspetto,  per non annunciare una venuta che sarebbe dovuta risultare casuale e non premeditata.
Perciò,  quando ti veniva a cercare, quando la speranza decideva che era il momento giusto per farti sentire il suo alito di vita contro la guancia, sulle cigli bagnate di lacrime, allora questa  assumeva le sembianze di chi meglio in quel momento di sconforto, di dolore, avrebbe incarnato la nostra idea di aiuto.
Perché ciò che si sperava di ricevere non erano miracoli, o magie, o un deus ex machina che avrebbe avuto il compito di salvarci dalla crudeltà del mondo, da noi stessi.
No.
La speranza non era neanche  la bambina che ti chiedeva curiosa,  se stessi bene, e neanche il vecchio anziano che sembrava fissarti ma che in realtà, non ci vedeva bene.
La speranza, quella vera, quella che non aveva forma, quella che giungeva inaspettata, era la caramella sciolta dal caldo che la bambina avrebbe tirato fuori dalla tasca del suo vecchio abito scolorito per convincerti a farle un sorriso.
Era il bastone nodoso del vecchio che ti avrebbe colpito duramente alle ginocchia per convincerti a buttare a terra la prima sigaretta che gli amici ti avevano consigliato come sfogo per la tua rabbia.
Era l’angolo di un appunto divertente che avresti trovato nascosto in quel vecchio e pesante libro che non avevi voglia di leggere  ma che forse, una volta aperto sul piccolo tavolo sgangherato della biblioteca, ti avrebbe strappato una risata sincera.
La speranza non aveva un aspetto preciso perché era  multiforme, eclettica, e soprattutto, capace sempre, in qualsiasi tempo, in qualsiasi angolo dell’universo, di sorprenderci con l’insospettabile forma che avrebbe assunto per noi.
E per loro, per i militari che erano costretti a tendere il collo per scrutare da sopra le spalle dorate dei guerrieri divini, per i non-morti che negli angoli bui della sala faticavano a mantenere il contatto con tutta quella luce, per i Giganti di Ghiaccio che dal fondo scrutavano con malcelato nervosismo di fronte a sé, per i leader, regnanti di ogni specie, la speranza aveva preso un’unica forma.
Quella che nessuno si sarebbe aspettato di fissare con tanta intensità, o sospetto, perché era solo una mano, e le mani non erano capaci di salvare, non erano capaci di concedere un desiderio o di vincere una guerra, eppure, quell’organo tattile di cui tutti in quella stanza erano stati dotati dalla madre terra, dalla vita, in quel caso appariva davvero, così diverso.
E non perché fosse blu, o piccolo, o cosparso da brina e cristalli di ghiaccio, no.
Non era il colore né la forma a lasciarsi combattuti, così confusi sul perché ora quella stessa mano risultasse così fondamentale, necessaria da stringere.
Ma sapevano di doverlo fare,  chiunque, in quella stanza, di fronte al corpo nodoso e fecondo di Yssgradill e alla piccola figura che la guardava in silenzio, con le mani tese in avanti, voleva raggiungere quei palmi e stringerli nei propri con forza, lasciando che la saggezza e il coraggio fluisse in loro.
Il coraggio di combattere per la salvezza del proprio pianeta, delle propria gente, della propria famiglia.
La risolutezza con la quale Nicholas Jack Fury allungò il braccio, afferrando la mano della donna che fissava fiducioso, e grato, fu netta e repentina  mentre il cuore tremava e lo sguardo veniva attirato dall’albero che parve divenire un po’ più luminoso, a quel contatto.
E quando il nero del suo palmo venne racchiuso nella mano gelida e putrefatta di Zenas l’umano non battè ciglio,ma rimase immobile, le pupille dilatate su qualcosa che nessuno oltre lui, ed ora, oltre il non- morto, poteva vedere.
Ma rimaneva ancora una mano da afferrare, e stringere, una mano che Odino fissò in silenzio, facendo scivolare lo sguardo sul profilo regale del Tessaract che non lo guardava, né lo costringeva ad stringerle la mano come le altre due creature avevano fatto con la sinistra.
Perché era una loro scelta se accettare o meno ciò che lei gli avrebbe concesso.
E non sarebbe stata la vittoria, un lieto fine, e neanche l’immunità da un destino di morte e sangue oramai prossimo, no.
Ciò che Astrid stava offrendo loro, ciò che la Regina di  Jotunheim stava concedendo  era una possibilità.
Possibilità di vincere.
Non una certezza, non una sicurezza, ma una possibilità.

Una possibilità che ognuno di loro avrebbe dovuto trasformare in realtà, loro, non lei.
Perché lei non era la salvezza, lei non era il miracolo, lei era solamente la via che si poteva decidere di imboccare per raggiungere ciò per cui loro avrebbero dovuto lottare con le proprie forze.
Ed Odino, che di scelte sbagliate sapeva di averne fatte molte, decise di fare la cosa giusta, per una volta. E quando afferrò la sua mano, quando lo vide,  quando l’Albero della Vita gli mostrò quella possibilità, quando l’eco dei vecchi Re, dei grandi spiriti della terra sussurrarono nelle loro orecchie ciò che si sarebbe potuto fare per raggiungere la salvezza della propria stirpe, sentì  la mano del Tesseract scivolare tra le sue dita come  acqua mentre Yssgradrill tornava a tacere e riprendere il suo fulgore gentile e rassicurante.
- Che quanto visto non esca dalle vostre bocche.
Sentirla parlare con una voce che, in un primo momento, nessuno riuscì ad associare al suo aspetto minuto, perché troppo maestosa e suadente da appartenerle, li colse impreparati,  ma quando videro che le sue labbra colorate non si erano mosse, la consapevolezza di averla nella propria testa impedì loro di risponderle.
Le bastò  ricevere un cenno d’assenso dal capo prima di decidere che il suo compito era finito, che ora, il destino del loro popolo era nelle loro mani, non più nelle sue.
Perché Astrid non avrebbe più potuto caricarsi del loro futuro, non ora che aveva un suo popolo, da difendere, la sua gente, da schierare, e quando Knut fuoriuscì dall’ombra della colonna, quando gli umani, intimoriti dalla sua stazza e dal suo passo minaccioso si aprirono a ventaglio per lasciarlo passare, lei si concesse un ultimo sguardo ad ognuno di loro, soffermandosi su Odino.
Odino che più di tutti, più di altri,  avrebbe dovuto tenere a mente il suo comando, ricordando di non poter indugiare su pensieri che lo avrebbero potuto tradire in presenza di quel figlio che con quella stessa mente aveva imparato a giostrarsi.
Un dio che se avesse visto, se avesse capito, avrebbe compromesso la loro unica possibilità di salvezza, di vittoria, e lei non poteva permetterlo, il Padre degli dei, non poteva permetterselo.
E fu per accortezza, o per semplice desiderio di parlargli, di strappargli un’altra promessa che Astrid lo invitò con un cenno della mano ad accostarla, l’ennesimo ordine al quale Odino non potè rifiutarsi, perché glielo doveva.
Le doveva la vita, e il ritorno di un figlio che sapeva, stava cercando sul suo viso il motivo di tanto silenzio, dell’apprensione che l’umano, Nick Fury, si era lasciato sfuggire prima di tornare dai suoi uomini.
Un’apprensione che l’uomo aveva rivolto a lei, alla Regina che fin dal suo arrivo non aveva guardato nessuno, ma aveva ordinato, e chiesto di seguirla, di non rivolgere domande, perché lei non avrebbe risposto.
E lui ne aveva tante di domande da porle, ma più di tutto, più del bisogno di sapere perché ancora non lo avesse guardato, perché, una volta tornata lì, non lo avesse cercato, Loki aveva la necessità di chiederle di perdonarlo.
Di non odiarlo.
Perché sarebbe potuto morirne di quell’odio, se era lei a rivolgerglielo, e lui non poteva, non voleva lasciarla passare senza provare a parlarle.
L’avrebbe costretta ad ascoltarlo, perché era egoista, e perché aveva bisogno che lei sapesse che anche se ancora non ricordava, anche se ciò che aveva tra le mani erano stralci di una vita che non conosceva ma di cui cominciava ad avere nostalgia,  gli sarebbero bastati.

Lei, gli sarebbe bastata.
Essere fissata non le dava fastidio, sentire di fianco la presenza silenziosa del padre degli dei, non le dava fastidio, sapere di non doversi guardare intorno in cerca della sua famiglia che sapeva, la stava guardando con apprensione, non le dava fastidio.
Perché non poteva, ora che era la Regina, ora che al primo posto non poteva più mettere i propri sentimenti, ora che non poteva concedersi di essere egoista.
Non poteva guardare i suoi genitori e spiegar loro che anche se il suo corpo era cambiato, anche se c’era una corona a pesare sul suo capo, lei li amava, non avrebbe mai smesso. Ed  anche se le sue labbra non potevano muoversi, anche se dalla sua bocca non sarebbe potuto uscire un fiato, Astrid glielo sussurrò gentilmente con la mente.
Le parve quasi di sentire,  di vedere il sorriso aprirsi sui loro volti un po’ meno apprensivi, un po’ meno spaventati, e tanto le bastò per continuare il suo cammino mentre Knut la aspettava alla fine di quel corridoio umano.
Il Gigante che l’aveva accettata come regina, e la regina di  Jotunheim sarebbe dovuta essere la più forte.
Sarebbe stata  lei a comandare, a condurre quella battaglia, in quanto sovrana del popolo più forte dell’universo.  
E forte si impose d' esserlo, costringendo il cuore in un’imbracatura che le impedì di farlo fuggire, di vederlo gettarsi sull’ultima componente della fila, il dio che Astrid avrebbe dovuto superare per raggiungere Knut, per finire ciò che aveva cominciato.
Ma quando vide una mano del dio scattare verso il suo braccio si sentì morire, incapace di respingere un contatto che desiderava, un contatto che qualcun altro però riuscì a bloccare.
- Non ora Loki.
Odiare gli era sempre venuto naturale, ma il dio degli inganni potè giurare di non aver mai odiato tanto suo padre come in quel momento.
Perché stava commettendo lo stesso errore di quando era bambino, il motivo del suo rancore.
Gli stava impedendo di raggiungere ciò che voleva.
E quella volta non era il suo trono.
Non era la sua approvazione.
Ma lei.
Sua moglie.
Sua.
- Mid dame.
E la loro regina gli sussurrò una voce lontana, un bisbiglio che lo portò ad abbandonare il braccio lungo il fianco mentre la guardava spezzare il contatto tra i loro sguardi e allontanarsi con suo padre.
Lontano, sempre più lontano.
Da lui.
E da quel ‘mi dispiace che nessuno oltre lui  riuscì ad udire.


°°°




Asgard era bella vista da lassù, forse  un po’ troppo opulente per i suoi gusti, ma per lei che era cresciuta nella povertà  delle favelas il dover ricoprire ogni superficie d’oro scintillante non aveva molto senso.
Eppure, Astrid si trovò a stirare un sorriso mentre il sole che moriva all’orizzonte faceva brillare ogni cupola, casa, e strada come stelle, minuscole e brillanti stelle dorate che la sua corona imprigionava nelle spirali di ghiaccio  che la componevano, facendo brillare anche lei, come una stella.
Chiuse gli occhi con un respiro stanco, beandosi del calore di un sole che non avrebbe più avuto la possibilità di baciarle il viso, o sfiorarle la pelle, o bagnarle i piedi,  perché non ci sarebbe stato nulla di tutto quello ad attenderla, lì dove sarebbe tornata.
Non ci sarebbero stati prati verdi  o erba fresca ad accogliere il suo passo, ma laghi ghiacciati e sentieri tanto ripidi da condurre su, sempre più su, sulle cime di quelle montagne così alte da scomparire oltre le nuvole nere che oscuravano i cieli di  Jotunheim.                                     .
Ma non era quello il  tipo di calore che le sarebbe mancato, non quello del sole, ma delle braccia degli umani che dabbasso, se tendeva le orecchie, poteva sentire parlare tra loro, litigare tra loro.
Origliare non era educato, suo padre Bruce non aveva fatto che ripeterglielo da bambina, ma Tony, l’altro suo papà, le aveva spiegato che alle volte, se si aveva un super udito come il suo, non si poteva fare a meno di impicciarsi degli affari degli altri, e lei, in quel momento, voleva far finta di essere là con loro.
Riconobbe la voce posata di sua  madre,  il tono di rimprovero di suo padre Bruce,  e riuscì persino a cogliere la nota stizzita con la quale Tony stava ordinando a suo figlio Marcus e ad Estela che non li avrebbero seguiti in battaglia l’indomani, non importava quanto a lungo avessero gridato, o quanti sguardi truci gli avessero rivolto, loro sarebbero rimasti a casa, al sicuro.
La loro casa.
Sentì il bisogno impellente di sporgersi e provare a vederli, di smorzare l’agitazione che la assalì nel ricordare la sua camera, quella che papà Bruce aveva condiviso con lei assieme alla  vecchia coperta di lana nella quale amava avvolgerla prima di stringerla a sé, o quella luminosa, dagli alti soffitti che suo padre Tony aveva tinto di rosso per ricordarle di lui, dell’armatura che l’aveva protetta da sveglia e che nei suoi incubi l’avrebbe vegliata.
La sua prima casa, quella che avevano costruito attorno a lei per farla sentire sicura e amata, quella che non aveva dimenticato, che Jotunheim  non avrebbe sostituito, perché erano le sue radici, loro, erano le sue radici.
Ed aveva bisogno di guardarli, ora. Aveva bisogno di vedere il cipiglio austero di suo padre Bruce e il sorriso a mezze labbra di suo padre Tony, e lo sguardo pacifico di sua madre, aveva bisogno di vederli, di ricordare come fosse stare con loro, sapersi con loro, perché non l’avrebbe più fatto.
Perché lei aveva creduto di poter affrontare tutto quello, di poter compiere quanto necessario senza essere assalita dalla nostalgia, ma era stata sciocca a credere davvero che essere diventata regina significasse essere diversa.
Lei era sempre la stessa, sarebbe stata sempre la stessa, anche se con  una corona in testa, perché sotto questa  c’ era lei.
Una bambina cresciuta troppo in fretta, una ragazzina  che di crescere, di  diventare adulta l’aveva desiderato troppo presto, ed ora che lo era diventata, ora che era donna e regina, la consapevolezza di aver comunque bisogno dei suoi genitori, dei suoi papà e della sua mamma le stringeva la gola per il dolore che avrebbe voluto sfogare in un sospiro tremulo.
Quello che invece scivolò via dalle labbra fu un gemito di sorpresa, un singulto che le sue spalle seguirono mentre la testa scattava indietro e gli occhi lucidi abbandonavano le figure che aveva provato a portare con sé lassù  per smorzare la sua solitudine.
Ma non era più sola, perché la causa della sua distrazione, il motivo di quel singulto di spalle e labbra era stato Loki.
Loki che ora la fissava e che, nel cogliere la sorpresa del suo sguardo, rafforzò la presa sulla sua spalla.
E non piangere sarebbe stato impossibile, non con lui lì, non ora che si sentiva così scoperta, e sola, e vulnerabile, incapace di mostrarsi serena come si era augurata.
Perché lui era lì, Loki era lì, e pensare di poter far finta di nulla, di poter ignorare  il battito isterico del cuore salitole in gola e il tremore delle mani che avrebbe voluto alzare per incorniciargli il viso e lisciare con le dita quella smorfia di dolore e rammarico  era impensabile.
E lo fece.
Gli sorrise per impedire alle sue labbra di tremare.
Strizzò gli occhi per  arrestare le lacrime che le avrebbero reso impossibile vedere, lei che ora voleva vedere tutto.
Quegli occhi simili a specchi rotti che nel sentire le sue mani sul viso, nel percepire il calore delle sue dita contro la cicatrice  sembrarono ritrovare l’incastro di ogni pezzo caduto.   
Perché lo stava rimettendo in piedi, lei che ne aveva sempre avuto il potere, lei che sapeva quale tasto toccare per avviare quell’operazione di ricostruzione alla quale Loki si abbandonò, lasciando che lo toccasse quanto volesse.
E quando si ritrovò con lei tra le braccia, quando si accorse, non senza una certa sorpresa, di essere seduto sul davanzale della finestra situata nella torre più alta di Asgard, lì dove l’aveva guardata da lontano per ore prima di decidere di raggiungerla e parlarle, Loki non trovò la forza di fare altro che abbandonare il mento sulla testa di Astrid mentre le braccia correvano a raccoglierla contro il suo petto, affinchè non cadesse, affinchè non lo lasciasse.
E lei non provò a fuggire, si limitò solo a sistemare il capo nell’incavo del suo collo e rilasciare il primo vero respiro della giornata, quello che carezzò la mascella del dio con gentilezza, una carezza di dita invisibili che lo spinse a chiudere gli occhi per la stanchezza che ora lo assaliva.
Ma aveva bisogno di scusarsi ricordò a se stesso con voce dura.
Doveva chiederle scusa per averla ferita, per averle dato della bugiarda, a lei e a quell’amore che menzognero non era mai stato, lei, non lo era mai stata.
Affinchè si liberasse del dolore di sapersi responsabile di tutta quella tristezza che le offuscava lo sguardo, affinchè lo perdonasse, affinchè non lo odiasse.
- Io non ti odio.
 Sentirglielo dire fu strano, e spaventoso, perché Loki sapeva di averlo solo pensato, di non aver parlato, e soprattutto, di non aver avvertito nessuna intrusione, nessuna mano intenta a rovistare nei suoi pensieri, ma non si era accorto che lei ora lo guardava di sottecchi e che glielo aveva letto in viso.
In un viso che il dio osservò preoccupato nel riflesso dorato delle pareti alle sue spalle, ma non trovò nulla di sbagliato, nulla di diverso, se non una minuscola e banale contrazione dell’angolo destro delle sue labbra.
Un movimento impercettibile del quale neanche lui si era accorto, ma lei sì.
Lei se ne era accorta.
E la consapevolezza di risultare così chiaro, di non riuscire a nascondersi dietro la sua maschera lo colpì, convincendolo a guardarla negli occhi per capire, per mettere alla prova quella sua strana empatia e vedere quanto  lo conoscesse,  quanto in profondità potesse scavare per grattare la superficie del muro che aveva sempre eretto attorno al suo cuore.
La vide sorridere con gentilezza, e il modo in sui i suoi occhi si ammorbidirono per lui gli causarono un vuoto allo stomaco, una sensazione di vertigine che però risultava piacevole, estremamente piacevole.
- Credo che tuo padre abbia compreso il tuo bisogno di attenzione, sai?
Quello non se l’era aspettato.
La comprensione di un malessere così intimo e infantile, non se l’era aspettato.
Quello sguardo indulgente, non se l’era aspettato.
- Ho avuto modo di parlare con lui mentre stavamo revisionando le truppe – e Astrid si costrinse a rendere la voce simile ad un soffio per non spaventarlo, per non rendere quello sguardo ancora più sperduto – e posso dirti con sicurezza che lui l’ha compreso, che sarà disposto ad ascoltarti, quando ne sentirai il bisogno. Lui ha capito, Loki. Ti ha capito.
- Perché?
Glielo disse con  voce rauca, graffiata dalla frustrazione di non sapere perché.
Perché, nonostante tutto, si fosse lasciata toccare.
Perché, ancora volta, era stata disposta ad aspettarlo.
Perché, semplicemente, continuasse a cercare di renderlo felice.
 - Lo sai perché – e c’era durezza nella voce di Astrid mentre un’ombra di fastidio  le attraversò il viso quando lo vide stringere le labbra e grattare la gola con un ruggito che non la spaventò.
Lui, non la spaventava.
- No invece – sibilò cattivo – io non lo so perché continui ad insistere con me.
- Invece lo sai, solo che non vuoi accettarlo.
- Accettare? – lo aveva quasi urlato, ma era stato un urlo fatto con un filo di voce, un fischio che gli ronzò nelle orecchie fino a renderlo sordo alla sua stessa voce, quella che nella sua testa gli ordinava di smetterla, di non cercare di essere infelice.
Perché era quello che stava facendo.
Rendersi infelice.
- Non sono io quello che non riesce ad accettare la realtà. Io non sono l’uomo di cui parli, non sono più l’uomo di cui ti sei innamorata – e dirlo gli fece male, pensarlo, gli faceva male – io non sono l’uomo che vuoi.
Lo schiaffo giunse inaspettato, ma non fu uno schiaffo eccessivamente doloroso, non fece neanche lo schioppo, perché la mano scattata sulla sua guancia, corsa a coprire la cicatrice di cui Loki non ricordava il responsabile, non aveva fatto male.
Lei non voleva fargli male, era stato lui a fargliene, era sempre lui, a fargliene.
- Io non mi sono innamorata di un uomo, né di un dio, io mi sono innamorata di questo – e la mano che Astrid aveva tenuto abbandonata in grembo corse a coprire un’altra porzione di pelle, il pettorale sopra il quale schiuse le dita, come a riempirsi il palmo del cuore di Loki.
Il cuore che piangeva e tentava di non soffocare, senza farsene accorgere.
Ma lei se ne era accorta, lei se ne sarebbe sempre accorta.
- Io mi sono innamorata del tuo cuore, Loki. Non della bellezza di un uomo, non della potenza di un dio,  è del tuo cuore, che mi sono innamorata, lo stesso cuore dell’uomo che ha dimenticato, lo stesso cuore che io non ho mai smesso di amare, neanche per un istante.
Le lacrime che le rigavano il viso erano state involontarie, ma scivolavano assieme alle parole, ad una confessione dalla quale Loki non ebbe il tempo di schermirsi, di  nascondersi, e lo colpì.
Lo colpì dritto al cuore, con forza.
E quando cedette, quando sentì la rabbia venir meno e l’angoscia sciogliersi come neve al sole si arrese.
A lei, a quell’amore che non poteva più rifiutare, a quella vita che lei aveva cercato di migliorare.
Vederlo chiudere gli occhi fu commovente, ma Astrid si tenne per sé i propri commenti, preferendo ritornare a posare l’orecchio contro il cuore che sentiva battere veloce.
Veloce come se fosse emozionato.
Veloce come se fosse stato liberato.
E fu allora che Astrid seppe che si sarebbero presi cura di lui, che Loki avrebbe avuto la famiglia che meritava, il padre, che meritava, che avrebbe potuto crearsi nuovi ricordi per riempire il buco che lei non era riuscito a richiudere.
Ma ci avrebbe pensato Odino in sua vece, ad amarlo, a dargli un posto nel mondo.
Perché lei era la regina dei Giganti di Ghiaccio.
Le creature nelle quali Loki non si era mai riconosciuto, una stirpe che lui aveva ripudiato e che forse, mai sarebbe riuscito ad accettare.
Ma andava bene cosi.
Avrebbe fatto in modo che andasse bene così.





°°°



“Le guerre non erano mai giuste” aveva detto qualche vecchio moralista nei suoi anni di massimo senso civico, ma su quello Nick Fury dovette dissentire duramente.
Le guerre non era giuste,  su quello poteva concordare, ma qualche volta potevano diventarle, potevano esserlo  quando si doveva  proteggere qualcosa di caro.
E quello era sensato, quello, era giusto.
Lottare per proteggere una vita lo era.
Muovere guerra per proteggerne più di un miliardo lo era.
Ed erano tutti lì, radunati in file ordinate, disposti in plotoni che di respirare avevano smesso quando sul pianeta disabitato su cui avevano scelto di battersi misero piede loro.
 Múspellheimr era un nome che non faceva suonare nessuna campanella di riconoscimento nella testa di Fury, ma la stazza e lo sguardo crudele delle creature che con quel nome definivano la loro razza era spiacevolmente familiare.
Perché quelli erano Giganti, dalla pelle scarlatta e dal corpo frastagliato di piaghe, ma pur sempre Giganti.
E facevano paura.
Ne facevano a lui, ai suoi uomini che di trattenere il fiato non avevano smesso, e persino alle divinità che nelle loro belle armature dorate avevano sentito il cuore pompare di paura, di disperazione.
Persino Odino non aveva potuto evitare di mostrare un lampo di apprensione alla vista dei Giganti di Fuoco, e Thor stesso aveva sentito le dita tremare quando il loro capo, il loro Re si era mostrato loro.
Più alto di ogni altra creatura avessero mai avuto la sfortuna di incontrare, e spietato, una crudeltà che i suoi occhi dorati ruggivano assieme a quella bocca di denti aguzzi che esalano respiri  di gas maleodoranti e acidi.
Puzzavano di zolfo, di morte, e di sangue rappreso, le chiazze che tempestavano i petti glabri di ognuno di loro senza mostrare le ferite da cui era potuto fuoriuscire, ma non ce ne erano, perché non era il loro, quel sangue.
Non  sarebbe stato mai il loro.
- Dove sono?
Aveva una voce sgradevole il Re di Múspellheimr, *Surtr, ma tutti rimasero fermi, immobili.
Sordi.
- Dov’è la piccola sgualdrina di  Jötunheimr   ?
Quella volta il movimento però vi fu, ve ne furono molti in verità, e maledizioni masticate a denti stretti, urla inghiotte di forza in gole nervose e bisognose di fargli rimangiare quelle parole, di fargli rimangiare quell’insulto.
Ma nessuno si mosse, nessuno fiatò,  rimase solo fermi, ad aspettare che lei si presentasse, ad attendere che Astrid arrivasse.
- Allora? Credete che sarete sufficienti a distruggere la mia armata? A distruggere lui? Voi patetiche-
- Vedi di fare silenzio o ti strapperò la lingua e ci farò una zuppa di jambalaya – ruggì  Tony Stark dalle prime file, contravvenendo all’ordine di non fiatare, di aspettare il segnale, ma non c’era mai stata la reale possibilità di imbrigliare la sua lingua, non quando era sua figlia, quella che stavano chiamando sgualdrina.
Sua figlia.
E se Iron Man aveva mai avuto modo di mostrare quale tasto in lui andasse toccato per inimicarselo, era senza dubbio quello di rivolgersi ad Astrid in un modo che non gli piaceva, e il modo in cui l’aveva chiamata, il modo in cui l’aveva insultata non gli piaceva.
Non gli piaceva per niente.
- Quale parte dello “stare in silenzio e fermi” fino al mio segnale non hai capito Stark? – gli sibilò di fianco Rhodes, un velo di sudore ad imperlargli la fronte.
Lo scienziato gli concesse solo uno sguardo sfacciatamente irritato prima che il ringhio animale del Gigante li zittisse nuovamente, ma Tony non smise comunque di gorgogliare, covando in petto  bestemmie che neanche in mille anni avrebbero mai potuto eguagliare.
E gliele avrebbe urlate tutte, gliele avrebbe sputate in faccia se lo scoppio alla sua destra non lo avesse fatto sbiancare.
Un grido di terrore si alzò tra le file dei non-morti quando la palla di fuoco che uno dei Giganti aveva vomitato si schiantò su di loro, facendo saltare teste e arti che con orrore alcuni militari calciarono via quando una di quelle cose provò a toccarli.
Ma Zenas, che dalle prime file aveva assistito in silenzio alla scena non mostrò pietà per quello scempio, ma sibilò ai suoi sottoposti di tacere e tornare in file ordinate anche senza una gamba, perché anche così avrebbero potuto combattere, e fu con qualche grido isterico che quelle creature o almeno, ciò che ne rimaneva, ripresero il loro posto.
- Interessante – se ne uscì Fandral, la testa bionda rivolta ad una di quelle cose senza braccia che lo accostava e che, nel sentirsi osservata, gli sibilò contro come una piccola serpe velenosa.
- Fa attenzione – lo rimproverò Lady Sif con acredine, rabbrividendo nel sentire l’ “idiota” con cui Loki aveva esternato il proprio disgusto nei confronti del guerriero che di rispondergli non ne ebbe il coraggio.
E non perché, in linea di massima, andare contro Loki avrebbe significato  perdere la vita nel tentativo di farlo, ma perché in quel momento il dio degli inganni non lo avrebbe considerato abbastanza interessante da convincerlo a distogliere lo sguardo dal cielo che fin dal loro arrivo non aveva mai abbandonato.
Perché era da lì che lei sarebbe giunta secondo quanto riferito da suo padre e gli altri leader delle specie, ma Astrid non era ancora arrivata, e quello strano senso di pericolo che lo aveva portato a stringere le palpebre per il sospetto di annusare qualcosa nelle espressioni imperscrutabili dei Re non fece che acuirsi e dare adito alle sue supposizioni.
Ipotesi su come fossero eccessivamente rilassati, tutti loro, troppo posati, troppo rigidi, come se gli fosse stato imposto di mostrarsi così controllati, come se lo facessero per nascondere qualcosa, come se suo padre volesse nascondergli qualcosa.
E Loki odiava i segreti, quegli stessi segreti che avevano dato un nome a quella sensazione di abbandono che da bambino non si era mai riuscito a spiegare, e provava la stessa e profonda paura di sapere che ciò che Odino sapeva, ciò che ognuno dei quattro uomini sapeva, non gli sarebbe piaciuto.
Il respiro trattenuto del soldato alla sua destra lo distrasse dai suoi pensieri, distendendo le rughe di preoccupazione quando sentì un insolito crepitio sopra la testa, come se qualcosa si stesse preparando a calare su di loro, come se qualcuno stesse per arrivare.
E quando venne, quando il cielo lampeggiò di luce viva e pulsante, nessuno, neanche il Re di Múspellheimr   poté impedirsi di serrare le palpebre per non rimanere folgorato dall’esplosione che inondò di luce l’intero pianeta, portando attimi di paura per cosa lo avesse generato, per chi, finalmente fosse arrivato.
Armature.
Quella fu la prima cosa che gli uomini e i non-morti videro di fianco a sé, negli spazi lasciati liberi secondo le direttive, una scacchiera che ora si componeva anche dei suoi talloncini bianchi, gli elementi mancanti che ognuno di loro ritrovò nei Giganti di Ghiaccio.
Numerosi, tanto numerosi da averli resi una tavolozza di colore monocromatica, una chiazza perlacea che una punta di colore verde interrompeva, il verde brillante dell’elmo sotto il quale  il viso della Regina di  Jötunheimr  si mostrò in tutta la sua agghiacciante e terribile bellezza.
Un elmo che Loki sapeva  di aver indossato durante ogni combattimento imbastito, ma un elmo che non ricordava di aver perduto, o rovinato.
Ma mancava un corno dorato al suo copricapo, ed   scheggiato, graffiato da piccole dita che il metallo avevano tentato di infossare per raggiungere l’ossatura nascosta.

Un coro di ruggiti si levò alto tra le fila di Giganti di Ghiaccio quando li riconobbero, quando li videro.
I loro opposti, i loro nemici naturali, i suoi  nemici naturali Astrid ricordò a se stessa con una punta di durezza, lasciando che lo sguardo vagasse fra loro con ferocia, inghiottendo ogni loro sospiro trattenuto,  indugiando sulle  somiglianze col suo popolo, somiglianze che  non  trovò.
Perché ciò che batteva nel cuore dei suoi soldati, ciò che induriva lo sguardo di Knut e oscurava il viso di Sunniva era orgoglio, fierezza, e  non ce n’era dall’altra parte, non ne trovò in nessuno di loro.
Solo follia, e odio,  quello che  trovò nello sguardo delirante del Re di quelle creature che l’aveva nominata con  impudenza, un’impudenza che andava punita con il sangue per l’orgoglio ferito di una Gigante di Ghiaccio.
Vederla muovere un braccio scatenò una concatenazione di eventi che Astrid osservò con indolenza, registrando il lieve irrigidimento dei soldati alle  spalle, il rantolio sommesso di Knut al suo fianco,  e il digrignare di denti dei Giganti di Fuoco, di tutti i Giganti di Fuoco.
Ma a lei non erano gli altri che  interessavano, non erano loro chi lei stava cercando, chi avrebbe voluto torturare fino a fargli chiedere pietà, a fargliela implorare.
Chi cercava, chi voleva  era la figura che nell’ombra di Surtr  si stava nascondendo, chi sapeva, attendeva trepidante la sua prima mossa.
E Astrid non gliela negò.
Non gli avrebbe negato nulla di quello che si sarebbe meritato di ricevere da lei.
Quando la videro accostare le dita alla propria corona, in un primo momento nessuno capì il perché di quel gesto, la pericolosità di quell’atto, ma quando si udì un fruscio, quando sentirono  qualcosa scivolare dai suoi capelli, quello che si udì dopo  fu solo un sibilo, lo schioppo secco di uno sferzare d’aria ghiacciata in grado ferire, di tagliare.
Una ferita di cui nessuno si accorse, perché non  un’arma  era stata usata, non un’arma era stata vista.
Eppure, qualcosa era stato colpito, qualcuno era stato tagliato, e fu  sotto lo sguardo attonito di chi ancora non riusciva a vedere, di chi ancora non riusciva a capire, che  il terreno cominciò a puntellarsi di rosso.
Un rosso corposo e denso che il Re di  Múspellheimr    sentì impiastricciargli le dita della mano che aveva portato con fastidio al collo quando si era sentito pizzicare, quando aveva avvertito qualcosa mordergli la gola, ciò che non aveva visto arrivare ma che, nel tremolio della pupilla che lo avvisò del dolore imminente, ritrovò ai piedi della donna.
Sangue, il suo sangue, quello che la frusta di ghiaccio abbandonata con indolenza  al suolo spillava ancora, frusciando nella neve per tornare ad essere parte di una corona che tornò bianca e immacolata ,come se sangue non avesse mai visto, come se  morte non avesse mai procurato.
La morte di quella creatura  impudente che in un ultimo e ansimante battito di ciglia non trovò più nulla da stringere quando la testa rotolò a terra, quando gli organi collassarono e la mano che ora stringeva il vuoto si accartocciasse assieme al corpo decapitato che ricadde con un tonfo, ammutolendo tutti eccetto lui.
Lui che rideva di quel corpo smembrato e la fissava con eccitamento da sopra quel lago di sangue, schiudendo le labbra sottili  in quello che sarebbe apparso  il ringhio più orribile, se qualcuno non l’avesse anticipato.
E qualcuno lo anticipò.
Knut, lo anticipò.
Poi giunsero un po’ assieme, il ringhio  rancoroso  di un non-morto che dal braccio era stato derubato e quello di un uomo, di un essere umano  che di avere provare paura, di strare immobile non riusciva più.
E ci furono mille altri  di quei ruggiti, urla di mostri che di morire non aveva paura, nessuno, aveva paura, perché prima o poi sarebbe giunta la loro fine, e ciò che potevano fare era decidere come morire, e farlo nel tentativo  difendere le proprie famiglie, perire per proteggere il loro futuro non faceva paura.
Non ne faceva più.
Fu come assistere  al cozzare isterico di onde su scogli che erano gli unici a rimanere fermi, gli unici a non venire trasportati via dalla corrente di gambe e braccia tese in avanti per sparare, strappare e cavare dal petto il cuore dei propri nemici.
Gli scogli che Astrid e Galactus rappresentavano, loro che non avevano fretta di uccidersi e accelerare una fine che non avrebbero potuto rappresentare per l’altro, solo una tortura, una lenta e dolorosa tortura eterna.
E lui preferì aspettare, assaporare con calma  l’emozione di quello sguardo che si induriva sempre di più nel calare su di lui.  Preferì aspettare di vederla avanzare con quel suo mento alto che non era riuscito mai a farle abbassare, a guardare lì dove avrebbe voluto che lei guardasse.
Avrebbe avuto anni, secoli per rivendicare il suo diritto su di lei, per insegnarle a dovergli tutto, d’ora in poi, ma c’era qualcosa che avrebbe potuto insegnarle ora, una regola che persino l’uomo aveva imparato nei suoi primi anni di vita.
Quel dente per dente con cui l’avrebbe ripagata  per  gli arti che gli aveva strappato, dei quali lo aveva privato.
L’urlo che le esplose nel petto la rese preda di sguardi apprensivi, spaventati, sguardi che Astrid conosceva, di cui poteva sentire vivo il dolore di ritrovare la sua piccola mano  stretta attorno al braccio che lasciava ciondolare di lato, mentre  la mano sana veniva  sporcata del sangue che Galactus aveva sputato quando lo aveva colpito in viso per allontanarlo da sé e riprendere fiato.
Ed anche se era forte, anche se era pura energia, quella che le scorreva nelle vene, fece male ricevere un pugno da lui, farsi spezzare le ossa da lui, perché  lui avrebbe potuto ferirla come lei avrebbe potuto ferire lui, con la stessa forza inumana che aveva usato per privarlo di entrambe le braccia.
Braccia che non sarebbero più ricresciute e che  Galctus  aveva dovuto sostituire con arti di metallo, mani che aveva sentito affondare dolorosamente nella sua spalla destra per lussargliela, per rompergliela.
Una rottura che le aveva tolto il respiro per il dolore che l’aveva accecata, resa insensibile ad ogni altra cosa  prima che l’istinto, il bisogno di ripagarlo  l’avesse portata  a contrattaccare, a riprendere il controllo, a pensare a come doversi preparare per il prossimo attacco.
Percepì un respiro pesante dietro di sè, ma non si diede pena del Gigante di Fuoco che aveva provato a riservarle lo stesso trattamento concesso al suo Re,  un mostro che  ora si ritrovava senza quel braccio che su di lei aveva alzato, il braccio che Sunniva gli aveva strappato  con i denti prima di calciarlo via e gettarsi nella mischia, come avevano concordato.
Perché lei non avrebbe dovuto pensare a difendersi da nessun altro se non da Galactus,  perché né gli dei né i suoi alleati avrebbero potuto anche solo pensare di poterlo distrarre senza ritrovarsi con il proprio cuore pulsante stretto nelle mani di quel mostro.
Un mostro che Astrid sentiva respirare attorno a sé, scivolare sinistro tra i corpi che cozzavano tra loro con forza, spillando sangue, saliva e lacrime dopo ogni ferita inferta, ferite che su di lei si sarebbero rimarginate, se non fosse stato lui a infliggergliele.
E la sua spalla non si sarebbe rigenerata, non così in fretta.
Sarebbero servite settimane a permettere al suo corpo di ristabilirsi, ma a lei serviva solo qualche altro colpo, solo qualche altro minuto per riuscire a completare parte del piano che con tanta foga aveva proibito ai Re di  far parola con alcuno.
Un piano che era stata Yssgradrill stessa a suggerirle, raccomandandole di essere precisa nei colpi, di indebolirlo il più possibile, di renderlo innocuo anche solo per una manciata di minuti, perché sarebbero bastati per quello che sarebbe andata a fare, per quello che i leader erano stati informati di compiere, una volta ricevuto il segnale.
Ma più tempo avrebbe impiegato a  finire il lavoro, più le possibilità di veder morire qualcuno dei suoi sarebbero aumentate, perché le armature avrebbero retto per poco se lei avesse continuato ad indebolirsi, e le barriere che ogni corazza gettava sugli umani a cui ogni Gigante era stato affidato avrebbero perduto elasticità e potenza difensiva.
Perciò doveva sbrigarsi a finirlo, a renderlo quanto meno incapace di alzarsi per un paio di minuti, così da darle il tempo di fare ciò che andava fatto. E  l’occasione si presentò quando, scrutando tra la polvere e i corpi ammassati riconobbe lo scintillio sinistro delle sue braccia di metallo.
Aspettare di rientrare nella sua traiettoria sarebbe stato sciocco e controproducente, ma farsi colpire era l’unico modo per essergli tanto vicina da infliggergli una ferita mortale che avrebbe faticato a rimarginarsi in fretta.
Quella era la sua unica possibilità di accelerare i tempi, di salvare vite, di non dover piangere sulle tombe dei propri cari.
Attese dunque di sentirlo vicino,  di percepire il suo respiro affannoso contro la guancia sporca di terra, e quando lo vide caricare la mano per sferrare l’attacco, quando intravide il bagliore dell’energia accumulata nel palmo strinse i denti con forza per prepararsi al dolore che sarebbe arrivato, un dolore al quale non si negò, sgranando gli occhi per non perdere l’occasione di colpirlo, di strappargli qualcosa.
Il crack’  della sua gabbia toracica la informò di cosa le mani di Galactus avevano  cercato di strapparle, cosa aveva tentato di togliere,   il polmone destro che quel mostro  riuscì  solo a lesionare, causandole  un’ emorragia interna per la quale sputò sangue, ma non poteva permettersi di sbagliare.
E  approfittò della vicinanza per affondargli le dita  nel petto, poco lontano da quel cuore che riuscì solo a graffiare  prima che entrambi venissero sbalzati via dal contraccolpo generato dai loro poteri.
Grattò la schiena per un paio di metri prima di ritrovarsi a fissare il cielo con gli occhi pieni di lacrime e un rivolo di sangue a bagnarle il mento mentre la mano sana correva a tamponare la ferita profonda che le incideva il fianco.
Non riusciva a respirare, ed ad ogni boccata d’aria sembrava di respirare sabbia per quanto pesante e faticoso le risultasse ora, ma l’elmo le aveva impedito di ferirsi al capo e rallentare la guarigione forzata dalla quale tentava di riprendersi il più possibile.
Sputò sangue, rovesciandosi di lato per non inghiottirne e ritrovare un po’ di stabilità nel terreno che fissò ansimante, sfiorando con le dita scorticate ciò che l’aveva protetta, l’elmo che aveva indossato con orgoglio per non far dimenticare al mondo chi fosse l’uomo che lei amava, per portar via con lei qualcosa che glielo avesse ricordato, qualcosa da poter stringere nelle notti buie.
 E il bisogno di cercarlo, di saperlo vivo  la portò a cercarlo con lo sguardo come si era promessa di non fare, ora che aveva altro a cui pensare, ma i suoi occhi non la ascoltarono, continuando a scandagliare la terra che ora cominciava ad essere tappezzata di corpi umani e mostruosi.
Sentì il bisogno di chiudere gli occhi quando le parve di riconoscere un militare schiacciato dal corpo di un Gigante di Ghiaccio, e la rabbia le fece prudere gli occhi prima che un lampo verde attirasse la sua attenzione.
Respirare cominciava ad essere difficile, e parlare non sarebbe stato possibile per molto tempo a causa della ferita al polmone, perciò non riuscì a bisbigliare il suo nome, ad esprimere il suo sollievo, quando lo trovò vivo.
Loki era vivo, e la ferita al fianco non faceva più così male, perché, se lui era vivo,  se lui riusciva a tener testa a tutti quei Giganti di Fuoco da solo, allora lei avrebbe potuto rimettersi in piedi e cercare Galactus per infliggergli un  colpo che quella volta gli avrebbe impedito di rialzarsi, di fare ancora del male.
- Sempre lui.
Il gelo di quella voce le azzannò la nuca quando,  anche sopra tutte quelle urla, anche con tutte quelle voci riuscì a riconoscerlo, a cogliere l’invidia, la rabbia di quella voce che seguì angosciata, ritrovandosi a fissare il viso deformato del mostro dei suoi incubi inginocchiato poco lontano.
Ed era un mostro ferito, quello che la fissava con rabbia e  una mano premuta al petto sanguinante,  ma aveva ancora la forza di muoversi, di fare del male, di scaricarle addosso l’odio per un rifiuto che non accettava, per una preferenza che non capiva.
Perché Galactus non capiva cosa ci fosse in quel dio ad attrarla tanto.
In cosa fosse migliore di lui.
Lui che era la fine di tutto, mentre lui, mentre quel dio riusciva ancora a respirare solo grazie alle  origini di Gigante di Ghiaccio che gli conferivano la forza di un mostro, più che di un dio.
Ed era perché era stato graziato da una forza sovrumana, che non  moriva. Era per quel sangue che lui ripudiava, che lui non aveva raggiunto i corpi dei suoi simili a terra.
E il fatto che ancora respirasse, il fatto che gli fosse stato concessa tanta fortuna,  che ancora riuscisse ad attirare lo sguardo di lei, di chi suo padre aveva creato per lui, di chi avrebbe dovuto sceglierlo senza pensarci due volte, glielo fece odiare ancora di più.
Avrebbe dovuto divorargli il cuore per vedere il suo corpo crollare e il suo sguardo divenire vitreo molto tempo prima, ma c’era stata sempre lei, a frapporsi tra loro, a proteggerlo da lui.
Ma ora lei era terra, esangue e incapace di aiutarlo,  e da solo quel dio, senza la sua protezione  non avrebbe potuto reggere un suo attacco, non lo avrebbe visto arrivare, e quando si fosse accorto di lui, del suo potere, sarebbe stato troppo tardi, e lei sarebbe stata sua.
Solo sua.
Quando la terra prese a tremare nessuno sembrò curarsene, non quando c’erano colpi da parare e compagni da salvare dal nuovo attacco, a cui pensare, ma quando si udì il grido della terra, quando finalmente lo sguardo di tutti si puntò in basso, fu troppo tardi.
Tardi per gridare un nome che Astrid si ritrovò imprigionato in gola, senza possibilità di avvisare, senza la possibilità di salvare.
Le urla che riempirono l’aria furono di disperazione, di paura, e quello che Maria Hills lanciò fu agghiacciante, simile al pianto di una bambina che sapeva di stare per cadere e di non poter fare nulla per evitarlo.
Qualcuno tentò di raggiungerla,  la mano tesa in avanti per toccarla, ma più la terra si spaccava, più la donna risultava irraggiungibile anche per chi nel non riuscire più a mantenere salda la presa sul braccio del compagno si trovò a cadere nel vuoto.
Ma lei non voleva cadere, non voleva morire, non ora che voleva sposarsi, e avere figli, e convincere il dottor Barner ad accompagnarla allo spettacolo teatrale che non aveva mai avuto il coraggio di proporgli per paura di essere respinta.
E  le sembrava così stupido essersi fatta sfuggire così tante cose, aver perso così tanto tempo a rimuginare, ora che tempo non ne aveva.
Ora che moriva.
Eppure, più il vuoto la chiamava con il suo grido sinistro, più le sue mani tentavano di affondare nella terra e tentare di riportarla su, per  permetterle di rivederlo ancora una volta, di dirgli ti amo, ancora una volta.
Perché non voleva morire senza dirglielo,  non voleva morire, non voleva cadere, ma  la mano era debole, lei era debole, e quando il suo grido di paura le esplose nel petto ci fu una mano, a tirarla su di peso, trascinandola verso un corpo ferito sul quale Maria abbandonò il capo con gli occhi ancora  sbarrati dalla paura.
- Sei al sicuro ora. Sei al sicuro – la rassicurò Bruce Barner con voce affaticata, il fisico debilitato incapace di far altro se non  strisciare verso il burrone e metterla al sicuro   mentre lo sguardo si perdeva nelle profondità  di quella voragine  con cui Galactus aveva voluto  raggiungere il suo obbiettivo sacrificato metà del suo esercito.
Ed il suo obiettivo era stato il nemico di molti, di tutti, ma non  suo, non dell’unica mano che in avanti si era lanciata nonostante le ferite e il sangue su cui era scivolata nel gettarsi verso di lui.
Perché era stata lei, ad impedirgli di cadere. Era di Astrid la mano sporca di sangue e lacrime saldamente  ancorata sul polso di Loki . Era  la Regina di  Jötunheimr  a puntare i piedi  terra per reggere entrambi, per salvare entrambi.
Quando l’elmo le scivolò giù dal capo e i capelli, ricadendo sul viso rigato di lacrime,  gli solleticarono le guance, Loki riuscì a riprendere coscienza del proprio corpo  prima di sentirla, e quando alzò il capo dal vuoto da cui sembrava essere sempre destinato ad essere inghiottito, quando si specchiò in quegli occhi sgranati sul suo viso con disperazione seppe che lei non lo avrebbe lasciato.
Perché chi gli stringeva il braccio, chi, senza curarsi del proprio dolore, del sangue che le colava giù dal viso e dal braccio smorto abbandonato lungo il fianco non era un padre che era sempre stato sordo alle sue richieste.
Non era un fratello sciocco ed egoista che di lui non aveva mai avuto rispetto.
Era lei.
E per quanto forte avesse gridato, per quanto disperatamente l’avesse pregata di lasciarlo cadere, di non caricarsi del suo peso, sapeva che lei non l’avrebbe lasciato,  che Astrid, sua moglie,  non lo avrebbe abbandonato.
- Lascialo.
Il gemito di dolore che inghiottì le causò uno spasmo doloroso del petto, ma era la schiena che bruciava, la pelle bruciata che gridava per l’energia che Galactus le aveva lanciato contro assieme al suo comando, al suo ordine.
- Ho detto di lasciarlo.
Un cenno di diniego compiuto con foga dal capo e una corona insanguinata fu tutto ciò che Astrid si concesse prima di stringere i denti e rafforzare la presa sulla mano del dio che continuava a scivolare e tirarla verso il vuoto.
Giù, sempre più giù.
- Lasciami.
 Loki si sentì morire per quel ‘no sillabato con forza da  labbra sporche di sangue che non potevano dare voce a tutta la disperazione che le accendeva lo sguardo, labbra che il dio  vedeva indurirsi quando  il terreno cedeva un pò mentre la voglia di gridare con una voce che non aveva che non lo avrebbe lasciato, che non importava quante ferite quel mostro le avrebbe procurato, lei non lo avrebbe lasciato cadere la convinceva a non cedere, a non lasciare quelle mano.
Non voleva.
Non poteva.
Non se lo poteva permettere.
- Lasciami – e quella volta Loki non si preoccupò di mascherare la nota incrinata della sua voce, perché voleva piangere, e non sapeva se per gratitudine o per  il dolore di vedere quel viso così ferito, e disperato, e rotto – lasciami, ti prego.
‘No gli sillabò ancora con labbra tremanti, riprendendo a tirare e a gridare al suo corpo di non cedere ora, di darle ancora un po’ di tempo, solo per tirarlo su, solo per salvarlo un’ultima volta, e poi, poi avrebbe potuto riposare, solo allora avrebbe potuto riposare.
E pregò, pregò  su madre, pregò Yssgradill di aiutarla, solo per quella  volta. La pregò di ascoltare le sue preghiere ed esaudire i suoi desideri,  così da permetterle di compiere il suo destino, di ristabilire l’equilibrio. E sorrise, grata,  quando un soffio di vento gelato le scompigliò i capelli, asciugandole le lacrime che si trovò ad inghiottire nel far forza sulle ginocchia sbucciate e cominciare a tirare, a tornare in piedi sotto la forza di quella spinta invisibile che persino Loki avvertì, ritrovandosi a irrigidire i muscoli per allungare una mano verso il terreno sul quale, una volta affondato le dita, fece forza per riportare entrambi a terra, ansanti e stretti in un abbraccio che sapeva di sangue e lacrime, ma un abbraccio che nessuno dei due riuscì a sciogliere.
Astrid lo strinse con disperazione a sè, con rabbia, e  solo quando seppe che quel contatto le sarebbe bastato  si decise a scostarsi da lui, lasciando che Loki le accarezzasse una guancia e cercasse nel suo viso la risposta che rimaneva sempre la stessa, la risposta ai suoi perché.
Chiudere gli occhi per memorizzare il calore di quelle dita fu necessario  per tracciare nel buio delle palpebre il suo viso, per ricordarsi che lei lo aveva avuto, che si erano amati,  che lei avrebbe continuato a farlo, che per quanto tempo fosse passato, lei non avrebbe dimenticato nulla.
Non l’amore, fragile e delicato, che lui le aveva concesso di avere.
Non una vita che neanche nei suoi sogni più arditi di bambina avrebbe avuto la possibilità di sperimentare.
Quando tornò in piedi lo fece con lentezza, così da lasciare il tempo a Loki di abituarsi al distacco, ma la mano del dio continuava a rimanere ancorata al fianco sul quale era scivolato mentre lei   guardava lontano, scavalcando i corpi ammassati di creature innocenti, scivolando in alto quando l’unica chiazza di colore in quel deserto bianco le colorò gli occhi di luci, di energia.
La lancia gli trapassò il petto quando Galactus si sentì spintonare brutalmente sull’arma affondata in una roccia, un’espressione di dolore a deformargli il volto mentre lei continuava a guardare quella farfalla colorata, graziosa e delicata, andatasi a posare dietro di lui, ad attendere, dietro di lui.
E giunse il momento, per ognuno dei Re, di fare quello che gli era stato richiesto, ciò che andava fatto.
Odino non risparmiò colpi quando il lembo di terra si colorò d’oro, una pozza dorata nella quale la sua lancia si conficcò, causando il suono di uno strappo che nessuno oltre lui, oltre loro riuscì ad udire.
Ne seguì un altro, appena più udibile mentre Zenas sfilava il braccio dall’aria rarefatta improvvisamente tintasi di rosa, come un corpo impalpabile che esplose in scintille colorate.
E fu al terzo colpo, fu con lo  sparo di  Nick Fury rivolto al cielo terso che Astrid decise di avanzare.
In silenzio, senza guardare l’espressione atterrita del dio che si vide scostare la mano  da quella vita che non voleva abbandonare ma che fu costretto a lasciare per permetterle di andare.
Dove, nessuno lo sapeva, ma lei sì.
Lei lo aveva sempre saputo.
Lo scintillio di una lacrima attirò lo sguardo di Loki, un baluginio che catturò con una mano, stringendo le dita su ciò che lo aveva attirato, che lo aveva distratto dalla sagoma che lenta si allontanava con passi stanchi e macchiati di sangue.
Ma ciò che i suoi occhi trovarono non fu una scia bagnata, non fu una lacrima, ma  un orecchino puntellato di rosso, un minuscolo anello di metallo scivolato dal viso che ora Astrid privò di ogni emozione mentre lo raggiungeva, mentre il richiamo di sua madre si faceva più forte, più deciso.
E fu con decisione che tese il braccio da affondare nel petto di Galcatus, immobile di fronte a lei, con quell’espressione di eterno godimento per un male che era felice di generare, di una morte che era orgoglioso di portare, ma era giunto il momento di sradicare l’errore degli dei, dei Creatori, un’ultima volta.
- Tu non puoi uccidermi – rantolò il divoratore di mondi quando la ebbe tanto vicina da essere petto contro petto, ma in quello del Tesseract non c’era nessuna  lancia, nessun braccio a spezzarle il respiro – noi non possiamo morire.
- Lo so – sussurrò lei, ampliando la ferita al petto che sussultò nell’avvertire il corpo estraneo affondare sempre più in fondo, sino a raggiungere ciò che gli era dietro, ciò che le dita di Astrid, per un istante, titubarono a stritolare, prima di farlo.
Prima di recidere l’ultimo legame fra il loro mondo e chi, fin dall’inizio della vita, lo  aveva tenuto unito.
- Ma neanche tu puoi sfuggire a questo.
Il tentativo di Galactus di risponderle, di chiederle cosa avesse fatto fu interrotto dal sibilo con il quale Astrid ritirò il braccio, mostrando tra le dita serrate l’ala colorata della farfalla che aveva ucciso, del legame che aveva reciso.
E quando la terra sotto i loro piedi riprese a tremare, quando vennero inghiottiti da un vuoto che fagocitò la figura urlante del mostro, una dimensione oscura  nella quale, con un gemito di sorpresa,  i superstiti si trovarono a levitare Loki capì quale segreto suo padre avesse celato.
Perché ciò che ora la Regina di  Jötunheimr  stringeva tra le dita tremanti non era più una piccola farfalla, ma un cuore, il cuore che l’emanazione di  Yssgradrill si era lasciata  strappare per spezzare la via tra i mondi e rinchiudere nel vuoto senza fine chi non poteva essere ucciso, chi di tornare, senza più quella via, sarebbe riuscito.
- Sei stata brava.
La prima lacrima le costò un respiro affannoso, perché il polmone lesionato non era riuscito ancora a cicatrizzarsi, ma Astrid non riusciva a frenarle, a non guardare tra le lacrime sua madre Semjace.
La madre a cui aveva dovuto strappare il cuore.  La madre che,  ancora una volta, si era sacrificata per lei, per l’amore di  sua figlia.
- Hai fatto la cosa giusta, sai che è così – sussurrò Yssgradrill con voce gentile, sorridendo morbida a quel viso che ora poteva abbandonarsi al dolore e mostrare quanto difficile fosse stato per lei compiere quel gesto, quanta sofferenza le avesse arrecato.
- No, non è vero – le rispose con voce rotta – non è vero, non è mai stata la cosa giusta da fare.
E c’era un tale strazio in quel lamento disperato, un tale disperato bisogno di essere toccata, di essere consolata da costringere molti, tra gli umani, a provare a raggiungerla, ma né Tony, accasciato al suolo con l’armatura oramai priva d’energia, né Bruce riuscirono a raggiungerla, ad asciugare quelle lacrime che facevano male a vederle.
Avevano sempre fatto male.
- Andava fatto – la riprese indulgente l’Albero della vita che ora, con il viso metallico di Semjace le mostrava un sorriso sereno – ricorda cosa ti abbiamo detto, giovane Regina. È meglio così.
- Non è vero – la contraddisse ancora con un filo di voce, stringendo le mani attorno a quel cuore che sentiva morire lentamente tra le sue dita, un poco alla volta – non è meglio così. Perdere mia madre non è meglio, non  per me. Io ho ancora bisogno di lei.
La stretta in cui l’Albero della Vita la richiuse era saldo e sicuro come i rami che dall’universo si stavano ritraendo lentamente, rendendo il profilo sfocato di Semjace un po’ più solido da stringere, da abbracciare, e la Creatrice pianse quando finalmente dopo tanto tempo potè di nuovo toccarla, ora che poteva consolarla come aveva desiderato fare.
Astrid soffocò un singhiozzo contro la spalla della creatura quando la sentì sussurrare con voce tremante contro i suoi capelli parole che conosceva, che l’Albero e gli spiriti le avevano ripetuto fosse giusto.
Perché una via per l’universo non sarebbe più servita ora che lei aveva riunito i loro cuori, ora che era lei a rappresentare un’unione che non era più fisica, ma spirituale, e non c’era motivo di piangere, di abbandonarsi alla tristezza, ma era sua madre quella che la Regina stava stringendo, una madre che non voleva lasciare, che non voleva perdere ancora.
Ma era il prezzo da pagare, il sacrificio da compiere per liberarli da Galactus, per riportare la pace e ristabilire l’equilibrio.
Eppure Astrid si sentiva spezzata, perché non c’era armonia, in lei, non c’era stabilità, né la pace che avrebbe dovuto sentire sapendo di aver salvata ancora una volta la Terra, l’intero universo.
Era caduta in pezzi ancora una volta, e l’unica che avrebbe potuto toccarla, l’unica persona che avrebbe potuta raccogliere le sue lacrime stava svanendo dalle braccia che irrigidì attorno al suo busto, tentando di tenerla lì con lei, di non lasciarla andare via, non ancora.
La pregò di non lasciarla sola, perchè non avrebbe potuto sopportare tutto quello, non di nuovo, non ce l’avrebbe fatta, e non bastò il sussurro di sua madre, la sua promessa di rimanerle comunque accanto a tenerla in piedi. E quando cadde in ginocchio, quando le caviglie cedettero e il corpo tra le sue braccia si disperse in pulviscoli di luce non ci fu più nulla da fare se non abbandonarsi ad un pianto muto e smettere di pensare.
Vedere quelle piccole spalle sussultare, assistere impotente alla disperazione di sua figlia convinse Tony Stark a privarsi dell’armatura oramai inutilizzabile per provare a raggiungerla zoppicando, ignaro dello sguardo dolente che Nick Fury si costrinse a distogliere da quella scena per non vedere, per non dover rispondere alle domande che lo scienziato gli avrebbe rivolto, una volta capito che il prezzo di quella libertà ritrovata, lo avevano pagato anche loro.
Il respiro era pesante e spezzato, affaticato da quella ferita al fianco che Iron Man non considerò, non quando mise a confronto le sue ferite con quelle di sua figlia, quando si rese conto che chiunque altro non avrebbe retto a quelle di Astrid, nessuno, neanche un dio avrebbe potuto impedirsi di  morire dal dolore.
E si sentì umiliato, da tutto quello.
Si sentì stupido, e piccolo, e inutile con lei davanti, lei che era stata di nuovo piegata, e ringraziò che Pepper non fosse lì a guardare, perché ne sarebbe morta come lui, piano piano, si sentiva morire dopo ogni passo.
- Astrid, tesoro – provò a chiamarla, tossendo per sopprimere la nota spezzata  che gli fece tremare la voce – tesoro sono qui, siamo qui – e Bruce Barner lo ringraziò per quel plurale, lui che non aveva la forza di muoversi, né di parlare, ma solo di guardare sua figlia, la sua piccola e spezzata piccola Astrid piangere da sola, in silenzio, in un vuoto che sotto di lei pareva essere più angosciante che in altri punti.
- Astrid?
Non giunse  risposta ai suoi richiami, come se lei non lo sentisse, o non lo volesse ascoltare, possibilità che gli fecero venire la nausea mentre quella sensazione di impotenza tornava a stringergli la gola.
- Astrid, tesoro, guardami – nulla, non un cenno, non un suono in risposta, solo spalle tremanti e uno sguardo che ancora non si decideva a guardarlo – tesoro, ti prego, ti scongiuro, guardami. Sono qui, sono qui per te.
Ancora il vuoto, ancora la nausea e un bisogno di piangere, e gridare.
- Ti prego tesoro, cerca di capirmi,  io ho bisogno che tu mi guardi – disperato, Tony Stark sapeva di sembrarlo, di esserlo, e non gli importava di sembrare così fragile, e stanco, e vecchio, non gli importava nulla se non poteva fare il padre, se non poteva esserlo con lei.
- Per favore, non-
- Non può sentirti.
Lo sguardo che Nick Fury sentì sulla schiena lo fece irrigidire, ma si costrinse ad incrociare le pupille dilatate dell’avengers, perché glielo doveva.
- Come hai detto?
- Non può sentirti, non ora che Yssgradrill è morta.
Se avesse avuto il tempo di piangere, lo scienziato lo  avrebbe fatto, e sarebbe stato un pianto rumoroso quello che gli avrebbe gonfiato il petto, ma non aveva tempo per quello, non quando voleva delle risposte.
- Cosa significa che non può sentirmi – sibilò, incattivito dal dolore che cominciava a risalire per la gola – cosa-
- L’ho sempre ritenuta un uomo intelligente signor Stark – e non c’era nessun ironia nella sua voce, nessun sarcasmo, solo rammarico, e dispiacere per un dolore che sapeva di stargli dando –  sono sicuro che lei abbia capito esattamente  cosa significa.
Ed era vero, Tony lo sapeva, sapeva di saperlo, ma non lo voleva accettare, non poteva accettarlo.
Perché credere ai suoi pensieri, dare voce alle sue paure avrebbe reso tutto più reale, avrebbe reso quella perdita, ancora più reale, e lui, lui non poteva sopportare di perderla ancora.
Perciò decise di sfidare la sua intelligenza, di mettere alla prova quella maledetta intuitività che lo aveva portato lontano, che lo aveva reso un eroe, e quando si schiantò contro il nulla, quando, nel tentativo di accorciare le distanze e toccarla per mostrare di aver torto, per una volta, di aver sbagliato, si rivide respinto, non ci fu possibilità di errore.
Perchè Tony Stark non sbaglia mai.
E quando quel vanto lo lasciò senza forze,  le braccia abbandonate sui fianchi e gli occhi lucidi, quando udì il respiro strozzato di Bruce Barner alle spalle, si odiò.
Perché avrebbe voluto essere stupido, non così perspicace, non così dannatamente  arguto, ma non poteva farci niente, lui, non poteva fare più niente.
Il pianto di quell’umano era difficile da guardare, ed anche se non poteva sentirlo, anche se poteva solo vedere quelle spalle muscolose abbassarsi e quel petto teso gonfiarsi dal pianto, Odino volle concedergli la sua comprensione, lui che sapeva cosa significava perdere un figlio.
Quello stesso figlio che, alle sue spalle, continuava a rimanere seduto, in silenzio, lo sguardo freddo e smorto fisso sul minuscolo orecchino che Loki non aveva smesso di guardare per un istante, come se non si fosse accorto di quanto avvenuto, come se non fosse lì con loro, in quel momento.
- Cosa è successo?
La voce di Thor era stanca, persino il suo viso sempre così duro e irreprensibile era segnato dalla fatica che aveva lasciato spossati tutti loro.
- Cosa è successo?  - ripetè il Padre degli Dei, come a distogliere l’attenzione  da quelle figure piegate dal pianto, da quei genitori che avevano appena perduto una figlia – è successo che quella donna ci ha salvato, tutti quanti – e il dio dei fulmini si risentì per la  nota di rimprovero con il quale sottolineò quel ‘tutti.
- Era questo che vi ha mostrato quella volta? – gli chiese in un sussurro Lady Sif, il viso insanguinato e il braccio allacciato con fare materno attorno alle spalle di un Fandral svenuto – che Yssgradrill sarebbe dovuta morire?
- È  stato l’Albero della vita a spiegarci cosa fare, dove colpire per recidere i rami che univano il nostro  mondo a lei – spiegò Odino, chinandosi a raccogliere la lancia che sfilò dal manto nero che li aveva inghiottiti nel vuoto – la terra per il mondo  degli dei, il cielo per la terra degli uomini, e l’aria per il mondo dei non-morti, Yssgradrill ha fatto in modo di rendersi solida solo per un istante, così da darci il tempo di colpirla.
- Perciò quell’umano ha sparato al cielo per  colpire l’emanazione?
- Si.
- E il Tesseract? – chiese Thor, un  velo di rammarico a incupirgli la voce – cosa ha dovuto distruggere lei per rompere il legame con l’albero?
- La farfalla – soffiò la guerriera sovrappensiero, attirando lo sguardo interrogativo del dio dei fulmini.
- La vita – la corresse il Padre degli dei, l’occhio catturato dal movimento silenzioso con cui alcuni Giganti di Ghiaccio cominciavano a ricongiunsi alla loro Regina – lei che aveva il potere di estirpare le radici, ha dovuto distruggere la vita che Yssgradrill rappresentava, così da rompere il legame tra i mondi e permettere a Galactus di venire esiliato nel vuoto.
- E adesso? Cosa ne sarà di noi? Cosa- ma il rantolio sommesso con cui Volstagg da terra diede voce alle proprie  paure venne interrotto da un susseguirsi di strappi che lanciò su quel mondo di ombre lampi di luce, chiazze di colore che tutti ritrovarono alle proprie spalle, riconoscendo nei paesaggi sfumati dal chiarore del giorno la propria città.
Il Padre degli dei invitò tutti  a  raggiungere il portale, lasciando a Thor il compito di guidarli verso l’uscita, perché Odino aveva ancora un figlio da ascoltare, e quando strinse la spalla di Loki tra le dita si concesse un sorriso morbido illuminato dal  bagliore dorato di Asgard.
- È ora di tornare a casa.
*- Loki amico.  
Aveva una voce graziosa, quella piccola e strana creatura, ed anche se era acuta non gli arrecava fastidio, neanche il modo in cui storpiava il suo nome con la sua voce di bambina, neanche le parole che ripeteva alzando le dita per contarle lo infastidiva.
Lei lo incuriosiva.
- Dobbiamo sbrigarci – gridò James Rhodes quando i primi soccorsi giunsero attraverso il portale, riversandosi nello spiazzo buio per prestare le prime medicazioni ai superstiti e preparare nuove barelle sulle quale condurli fuori.
Ma Bruce Barner non si lasciò sollevare,  non si lasciò toccare, perché non poteva andarsene, non poteva lasciarla sola, non poteva abbandonarla, e quando le mani di Maria gli afferrarono il volto che teneva ostinatamente rivolto ad Astrid, quando la donna lo costrinse a nascondere il viso contro la sua spalla smise di agitarsi.
- Dobbiamo andare – la udì sussurrare contro il suo orecchio,  la voce rotta dalle lacrime che si raccolsero sul suo mento, bagnandogli il colletto della camicia, ma quando Maria si scostò, quando lo costrinse a guardarla in viso si accorse che non erano sue, le lacrime.
Non era lei, a piangere.
Era lui.
- Dobbiamo andare.
- Loki non è cattivo.
Sentiva tutti quegli sguardi su di sé, tutto quell’orrore, su di sé, ma lei continuava a rimanere ritta e a stringergli la mano, a condividere con lui quell’odio che con lei vicino non faceva male.
Il suo amore, non faceva male.
- Tiratelo su – li aggredì Thor quando i due soldati sopraggiunti in aiuto tentarono di sollevare il dio, ma entrambi furono costretti ad indietreggiare frettolosamente quando uno sprazzo di magia tentò di bruciare le mani che avevano tentato di toccarlo.
- Thor!
 - Mi dispiace.
Respirare era difficile,.
Inghiottire le lacrime, era difficile, ma quando udì quel sussurro accorato, quando la vide sorridergli incerta prima di bruciare e volare via da lui, andare lontano, da lui,  continuare a vivere, era divenuto  difficile.
- Spostatevi.
- Cosa dobbiamo fare? Non si lascia toccare – ragionò ad alta voce Lady Sif, osservando con tristezza il soldato carbonizzato accostato al corpo rannicchiato del dio, immobile nella stessa posizione in cui lo avevano lasciato.
- Padre?
- È per me? – sussurrò commossa, guardando con occhi lucidi l’orecchino che gli sfilò dalla mano per indossarlo con mani impacciate, sorridendo tra le lacrime che Astrid tratteneva per non risultare troppo sciocca.
Ma non lo era, non lo era mai stata.
Era solo bella, e dolce, e sua.
Lo era sempre stata.
-  Dobbiamo andare.
- Loki?
- Mi senti fratello? Dobbiamo tornare a casa.
- Loki?
- Non credo riesca a sentirmi, Padre.
- Fa provare me – consigliò Frigga, accorsa al capezzale dei figli non appena l’avevano avvisata dell’apertura del portale nel quale avrebbe potuto trovare il Padre degli dei.
- Loki!
- Loki?
Il sorriso nervoso di Frigga si velò  di sollievo quando riuscì a strappare una reazione dal figlio poco prima immobile, riuscì persino a toccarlo senza essere bruciata, e ne approfittò per accarezzargli la spalla e ammorbidire lo sguardo.
- Loki, sono tua madre. È ora di tornare a casa.
- Dov’è Astrid?
La voce gli uscì rauca, aspra come se non parlasse da anni, come se  avesse appena ingerito acido, ma era solo bile quella che gli appesantiva la lingua mentre i muscoli indolenziti delle gambe seguivano con stanchezza il suo tentativo di tornare in piedi dopo aver passato così tanto tempo nella stessa posizione.
Sentì il calore di una mano alla base della  schiena, ma la allontanò bruscamente, perché a lui non gli piaceva essere toccato, in particolar modo da quel dannato dio dei tuoni.
Thor registrò la reazione violenta del fratello come il frutto della confusione che doveva provare, ma non fu confusione ciò che trovò nello sguardo di Loki quando, non ricevendo risposta alcuna, il dio alzò su di loro uno sguardo che in passato aveva fatto perdere al Padre degli dei un figlio.
Lo sguardo tradito e rancoroso di un uomo che non aveva dimenticato.
- Dov’è Astrid?
- Io non capisco a  chi tu-
- Dov’è mia moglie ? – e l’ultima parola  la gridò, la urlò affinché tutti potessero udire e sapere che lui ricordava.
Ricordava la bambina che nel suo petto si era rannicchiata in cerca di calore, quando nessuno lo aveva voluto vicino.
Ricordava la ragazza che dal mondo umano non aveva fatto altro che farsi accettare, scegliendo di essere come lui, alla fine di tutto.
Ricordava la donna che non aveva mai smesso di amarlo, e di conoscerlo, di farlo innamorare ancora  una volta di lei.
La donna che lo aveva cercato, e seguito, e aspettato. La donna  che aveva riportato in vita un’intera razza solo per ridargli la forza di riaprire gli occhi su un mondo sconosciuto che gli aveva fatto paura, un mondo in cui un posto lui continuava a non avere, ma un posto che lei, con pazienza e gentilezza, gli aveva spiegato di aver sempre avuto, per lei.
- Loki? Cosa-
- Dov’è lei? – sibilò ancora, incattivito dalla mancata risposta che tardava ad arrivare.
- Cerca di calmarti – lo ammonì Thor, l’aria ferita di chi non si aspettava tutto quell’odio – né io, né nostra madre possiamo far più nulla per lei – lamentò irritato – oramai non c’è più nulla che tu o io possa fare per-
Il verso strozzato portò i soldati di Asgard a rivolgere uno sguardo sorpreso all’erede al trono, e quando riconobbero la mano dell’uomo  che teneva il dio dei fulmini per la gola, quando il Padre degli dei capì che non ci sarebbe più stato spazio per il perdono, nel cuore di suo figlio, si lasciò sfuggire uno sguardo stanco prima di stringergli una spalla ed invitarlo ad allentare la presa.
- Lascialo Loki.
- E perché dovrei? – lo sentì rantolare, riempiendo la voce e lo sguardo di un odio, di un rancore che Odino si era augurato di non dover più ritrovare, perché il Loki confuso e stanco era stato ucciso da quel mostro che li aveva sterminati senza batter ciglio, lo stesso mostro mosso solo dal bisogno di distruggere  e punire chi lo aveva ferito in passato, chi si era meritato il suo cuore nero.
- Perché tuo fratello ha ragione – e il dolore che lesse in quegli occhi che da bambino lo avevano fissato con un bisogno di attenzione che lui non aveva mai capito lo ferì più delle parole con le quali la Regina lo aveva messo di fronte ai suoi errori, ai suoi sbagli.
Perché lui aveva sbagliato, con Loki. Non aveva ascoltato abbastanza, capito, abbastanza, e ciò che vedeva, il dio che tutti erano tornati ad odiare e temere era colpa sua, sua e di quell’amore  di padre che gli aveva fatto mancare, che lei, era riuscito a risanare.
Si assunse perciò la responsabilità di quel dolore che pareva spaccarlo a metà, distogliendo lo sguardo da quello ferito di suo figlio per guardare la piccola figura che un Gigante di Ghiaccio stava conducendo in braccio verso Jotunheim.
- È troppo tardi.
No.
Loki avrebbe voluto urlarlo, ma non aveva avuto neanche la forza di dar voce alla sua disperazione, al terrore che lo assalì quando la guardò, quando il suo cuore, nel riconoscerla, nel vederla davvero, lanciò un grido sommesso.
- Loki-
- No – lo zittì mordace, gettando di lato il fratello per allungare il passo e seguire quella  figura che nel braccio muscoloso della creatura sembrava svanire per quanto piccola era – no – ripetè ancora, e quando, nel tentativo di aprirsi una via tra i soldati che trasalirono nel vedere la sua espressione, compì un passo di troppo, si sentì spingere via da una forza, da un muro che non riusciva a vedere ma che, fisicamente, gli impediva di avanzare.
Di raggiungerla.
- Non puoi tornare da lei Loki – echeggiò sinistra la voce di Odino – ora che Yssgradrill è morta nessuno può abbandonare il proprio mondo. Tu, in quanto dio, non puoi lasciare questo posto.
- Astrid!
- Loki, ti prego – lo supplicò sua madre, ma il dio non la sentiva, non con quel fischio nelle orecchie a renderlo sordo a tutto tranne a quel nome che urlò ancora, e ancora, fino a sentire i polmoni bruciare. E quando udì le voci alle sue spalle, quando si sentì chiamare, gridò loro di fare silenzio, perché con tutto quel rumore lei non l’avrebbe ascoltato, non si sarebbe voltata.
Ma lei continuava ad essere così lontana, e piccola, tanto minuscola da costringerlo a stringere le palpebre per metterla a fuoco, e faceva male, tutto quello.
Vederla andare via, sapere cosa fosse l’orecchino che fino a poco prima aveva fissato con diffidenza, quello che lei aveva promesso di ridargli una volta ricordato il suo valore,  faceva male.
E lui l’aveva ricordato, aveva ricordato ogni cosa, ma lei non era lì a sorridergli commossa, a dirgli che sarebbe andato tutto bene, che sarebbero potuti tornare finalmente a Jotunheim.
A casa loro.
Quando lo videro tornare indietro vi fu un lampo di sollievo a ripulire il viso di Thor dall’ombra cupa con la quale si era arreso a fissarlo, un’ombra che tornò, crudele, ad oscurargli lo sguardo quando assistettero inorriditi alla scena.
Perché Loki non era tornato indietro per ricongiungersi a loro, ma per prendere la rincorsa e scontrarsi duramente con la barriera nel tentativo di infrangerla e fuggire da lì, da loro, da una famiglia che non riconosceva più, che non voleva più, che non era mai stata vera.
Mentre lei, lei era la sua famiglia,  e il suo cuore, il suo mondo, la sua casa.
Lei era tutto.
- Loki!
Il primo scricchiolio causò sgomento, e incredulità sul viso di chi non riusciva a credere a quanto potere quel corpo sottile celasse, ma più la barriera tremava e sfrigolava dopo ogni urto, più il Padre degli Dei riconosceva il cambiamento, sul volto del figlio.
E fece finta di non udire le preghiere della moglie, le sue suppliche, perché era giusto lasciarlo andare ora che Loki aveva accettato il proprio passato, ora che finalmente, aveva accettato se stesso.
Lui che un dio non era mai stato destinato ad essere, a diventare, perché Loki era sempre stato qualcos’altro.
Qualcosa che nessuno, neanche lui, in tutta onestà,  aveva potuto capire e accettare fino in fondo, ma lei, quella piccola creatura era riuscita in quello che Odino, come padre, non era mai riuscito a fare.
Renderlo felice.
Ma ci provò, per una volta, a farlo, a spianargli la strada dagli ostacoli che loro, lui  stesso aveva rappresentato.
E zittì chi, nel vederlo trasformarsi in ciò che era sempre stato, in ciò che aveva sempre temuto di diventare, si era lasciato sfuggire un urlo di orrore, ma voleva che il loro ultimo saluto fosse diverso, per una volta.
Perciò rise per nascondere il pianto nella  voce, per concedergli una fuga da un mondo dal quale non era stato mai accettato per  lasciarlo tornare da quel pianeta che mai davvero lo aveva abbandonato.
Il respiro era stanco, lei, era stanca, ma la pelle gelida di Knut le diede sollievo dalla febbre che doveva essersi insidiata nel suo fisico provato quando l’infezione raggiunse l’organo lesionato, costringendola a chiudere gli occhi per riposare la mente.
Ma ci avrebbe pensato Sunniva a fasciarle il petto una volta tornata a casa, e lì, sul suo letto, nella sua stanza,  avrebbe potuto passare qualche mese a riprendersi da quelle ferite che sarebbero guarite, ma per le altre, per quelle del cuore, non sarebbero bastati anni.
Perché quelle non si sarebbero mai rimarginate, e né lei, né i Giganti avrebbero potuto riempire quel vuoto. Avrebbe solo dovuto imparare a conviverci, e per quello avrebbe avuto tutto il tempo, avrebbe avuto l’eternità.
- Knut?
Lo aveva chiamato con un filo di voce, ma era chiara in lei la sorpresa di aver sentito i suoi muscoli contrarsi attorno a sè, inspessirsi come se avesse captato qualcosa di orribile, qualcosa di pericoloso.
E l’orrore di sapere che Galactus fosse riuscito a fuggire in qualche modo dalla sua prigione, la paura di sapere di aver fallito, di aver reso vano il sacrificio di sua madre la portò a sgranare le palpebre e sporgersi sulla spalla del Gigante per vedere cosa lo avesse fatto irrigidire a quel modo.
Knut tentò di fermarla, persino Sunniva, notato i suoi movimenti febbrili si avvicinò per calmarla e farla tornare distesa, ma Astrid si ribellò alle loro mani, tossendo con forza quando riuscì a poggiare il mento sulla spalla del Gigante, abbandonandosi su questa con gli occhi che bruciavano per il sonno.
Ma quando lo vide, quando le sue pupille riconobbero la sagoma indistinta di una figura in avvicinamento temette per la sua vita, per quella del suo popolo che ancora non aveva attraversato il portale, che ancora in salvo non era.
Ed avrebbe urlato, se solo avesse avuto la voce per farlo, ma anche se l’avesse trovata, anche se ci fosse riuscita, non sarebbe stato un grido di paura ad abbandonare le sue labbra, ma un nome.
Solo un semplice nome.
- Min Dime! – la chiamò apprensiva la Gigante quando la videro scivolare frettolosamente dalle braccia di Knut e zoppicare verso il sentiero che dopo ogni suo passo sbiadiva, cancellando il ricordo di quanto avvenuto, il passo di chi lì non sarebbe potuto giungere.
Eppure, qualcuno a ripercorrere la via ci fu, e fu verso quel qualcuno che Astrid si mise a correre, la mano premuta al fianco e gli occhi pieni di quelle lacrime che non credeva di avere più, ma lui, lui sarebbe sempre riuscito a fargliele trovare.
Perchè quelle che le rigavano il viso illuminato dal suo sorriso incredulo e spezzato erano lacrime di gioia, una gioia che sentì esploderle nel petto quando dall’ombra che li aveva inghiotti uscì la figura vista da lontano, una sagoma di fronte alla quale ogni Gigante di Ghiaccio si fermò, riconoscendo la somiglianza nella creatura che ora stringeva la loro regina come se ne andasse della sua vita.
Ma lei era, la sua vita, e quando Loki capì di esserci riuscito, di averla trovata, di averla raggiunta, lasciò il suo corpo a tremare per  riprendere la sua forma umana e  abbracciarla come aveva sempre desiderato  fare fin dal primo momento.
Quando la sollevò tra le braccia, quando affondò il viso tra i suoi capelli, quando sentì le mani di Astrid stringersi alla sua nuca e le sue lacrime bagnargli il collo seppe di essere tornato a casa, finalmente.
 E mentre  Jotunheim  svaniva in silenzio, mentre l’equilibrio della vita si risanava e il cuore di suo figlio trovava  il suo posto nel mondo, il Padre degli dei sorrideva, orgoglioso  di aver mantenuto la  promessa che lei era riuscita a strappargli.
Lasciare a Loki la scelta di decidere da chi lasciarsi amare.

  
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Film > The Avengers / Vai alla pagina dell'autore: Hagne