Fanfic su artisti musicali > Union J
Ricorda la storia  |      
Autore: njaalls    24/09/2013    7 recensioni
‘Cause all I know is we said “Hello” and your eyes look like coming home.

«H-ho bisogno di questo tavolo» spiego, abbassando lo sguardo e sentendo le guance avvampare.
«Come, scusa?» e scoppia a ridere. Ha una bella risata, piena e divertente, il mio cuore fa una capriola e non provo nemmeno a guardarlo, perché so che non riuscirei più a distogliere lo sguardo. «Scordatelo» risponde.
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Josh Cuthbert, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

 
 ‘Cause all I know is we said “Hello” and your eyes look like coming home.
 
Per la prima volta in vita mia, sono in ritardo a scuola. E tutto per colpa di un ragazzo, che mi ha investita talmente forte d'essere riuscito a cambiarmi in meno di poche ore. I suoi lineamenti perfetti mi compaiono sempre in mente, mentre faccio di tutto per non distrarmi e non inciampare sulla scalinata del liceo, con il cuore in gola. Corro per i corridoio e quasi non scivolo sul pavimento, quando arrivo davanti all'aula, mi liscio i vestiti, che la sera prima avevo scelto con cura, e mi preparo a bussare. Dopo aver sentito il rumore delle mie nocche contro il legno, apro la porta e faccio la mia comparsa, rimproverandomi e intimandomi di non fare la figura della stupida. Però, quando avanzo, rossa fino alle punte dei capelli, nel silenzio generale, fino alla prima fila, commetto il grande errore di alzare lo sguardo e perdermi in paio di occhi azzurri e glaciali. Le sue labbra sono sollevate verso l'alto e mi blocco, in piedi a guardarlo, mentre il resto della classe mi fissa in attesa. Sta sorridendo. A me.
«Van Den Bogaerde, sta bene?» domanda la professoressa, confusa. Senza guardarla, annuisco e mi avvicino timorosa verso quella bellezza tanto affascinante da aver completamente assorbito la mia lucidità e il mio solito autocontrollo, abbasso lo sguardo e scivolo sulla sedia accanto alla sua,  lasciando che al mio naso arrivi quell'odore di tabacco, che in altre persone avrei detestato e condannato. Noto che mi osserva con la coda l'occhio e vorrei sprofondare giù per l'imbarazzo, fin sotto il banco. Non seguo nemmeno una parola durante la lezione ed è come se l'insegnante parlasse sola e la sua migliore allieva fosse andata via, trascinata lontana dei ricordi del giorno precedente.





Cammino a passo lento, stringendomi al giubbotto per il freddo e guardo i miei stivaletti percorrere sicuri i viali innevati. Non alzo mai lo sguardo, tranne se qualcuno non mi viene pericolosamente incontro, minacciando uno scontro, così fisso quegli occhi con disprezzo e mi faccio da parte, superandoli. Attraverso la strada e procedo a testa bassa, come sempre, alla disperata ricerca di un posto caldo e accogliete, dove possa stare sola e in silenzio, senza dover sentire i miei che urlano insulti e rimproveri l'uno all'altro. Sfilo come ogni giorno proprio accanto al parco, solitamente semivuoto, e noto dei bambini che si divertono a tirarsi palle di neve, mentre le madri vigili chiacchierano poco lontane, sedute su una panchina. Voltato l'angolo, scorgo le vetrine colorate dell'unica caffetteria di Winkfield, un villaggio minuscolo e dimenticato da Dio nel Sud-Est dell'Inghilterra, da cui un giorno spero di evadere. Attraverso la strada, ancora una volta, e sto attenta a non scivolare, mentre dagli alberi che mi circondano, un po' di neve viene giù dai rami. Sembra quasi il paesaggio di una cartolina natalizia, ma quando ci abiti, tutto diventa fin troppo noioso e monotono.
Apro la porta blu a vetri colorati e il campanello tintinna, facendo alzare lo sguardo alla cameriera dietro il bancone, che quando mi vede sorride. Ricambio a mia volta e noto con piacere che il bar è pieno, cosa che non mi dispiace, perché amo stare a contatto con la gente ed essere circondata da un mormorio continuo, l'importante è che quei discorsi che si accavallano l'uno sopra l'altro e non sfocino nel chiasso e nella maleducazione. Stringo il manico della borsa che porto in spalla e percorro a piccoli passi la distanza che mi divide dal mio solito tavolo appartato, alla fine del locale, che mi permette ogni pomeriggio di concentrarmi e studiare dopo la scuola. Soltanto quando alzo lo sguardo dai mattoni blu e bianchi di marmo e sto per arrivare, mi blocco stupita e incapace di intendere. Qualcuno si è seduto al mio tavolo, un ragazzo -probabilmente- e mi da le spalle muovendo, quasi a ritmo di musica, la testa coperta dal cappuccio della felpa. È chino su qualcosa, ma dove mi sono fermata non vedo cosa sia, così avanzo titubante, sperando che non debba essere io la prima a parlare. Proprio dietro l'individuo mi fermo nuovamente, pensando che mi abbia sentito e si volti, ma quando intravedo il filo bianco delle cuffie, capisco che il mio tentativo è stato abbastanza inutile e sciocco.
Sospiro. Sono sempre stata una frana con gli sconosciuti, soprattutto con persone di sesso maschile; mi mettono in soggezione, più di chiunque altro, non essendo una ragazza spigliata e sicura di me.
Timorosa, ma determinata nel mio intento, aggiro il tavolo e, quando arrivo accanto al tipo, mi fermo ancora, senza tentare di chiamarlo, ma pregando che questa volta si sia accorta di me e che alzi lo sguardo dal suo prezioso fumetto. Batto le palpebre, in attesa.
Lentamente stacca gli occhi dalle pagine colorate e alza piano la testa, lasciando intravedere un ciuffo che spunta prepotentemente dal cappuccio, quasi in segno di ribellione. Quando il suo volto è completamente rivolto verso di me, incontro i suoi occhi azzurri e mi sento gelare il sangue. Il cuore comincia a battere all'impazzata, ma non riesco a distogliere il mio sguardo dal suo, che in qualche modo mi sta incatenando. Le sue iridi sono tanto belle quanto vuote, mentre lo osservo attentamente, non avendo mai avuto il coraggio di farlo prima. Sembra stanco, nei miei confronti la sua attenzione è quasi indifferente e non faccio altro che darmi della stupida, per essermi convinta a mostrarmi a lui in quel modo ridicolo, con una pretesa altrettanto ridicola. Ma ho bisogno di quel posto e lui deve andare via.
Nonostante le idee e la determinazione, rimango in piedi, in silenzio, con le labbra serrate, incapace di formulare una qualsiasi frase di senso compiuto.
Lo conosco e non troverò il fegato di parlargli, mai. La gente lo evita, gli parla alle spalle e lo esclude da qualsiasi iniziativa, e lui glielo lascia fare senza crearsi problemi, con quei suoi occhi di ghiaccio, belli e ammalianti, ma che -ne sono certa- nascondono una forte personalità. Io lo evito perché mi rende mentalmente instabile, più di quanto voglia ammettere, con quel suo fare scontroso e misterioso.
È stato bocciato una paio di anni ed è il più grande in classe, dicono che sia violento e che scateni risse ogni dove, ma io non gli ho mai visto far del male ad una mosca e i pensieri della gente tendo sempre ad ignorarli. Siamo compagni, di banco più precisamente, ma non ci siamo mai degnati di una parola o di uno sguardo in quell'anno, tranne il primo giorno di scuola quando era entrato a lezione in ritardo e, silenziosamente, aveva presto posto accanto a me, l'unico libero, in prima fila. Mentre aggirava il banco, mi aveva osservata, avevo tentato di non alzare lo sguardo, ma alla fine c'ero cascata ed ero rimasta pietrificata da quegli occhi, che mi fissavano, esattamente come adesso. Picchietto nervosa le unghia sul tavolo e lui si toglie una cuffia, mettendo in pausa la musica sul cellulare.
«Ciao?» dice, alzando un sopracciglio. Sembra irritato dalla mia comparsa e sono tentata di andarmene via, ma sembrerei ancora più stupida, così prendo una boccata d'aria e mi mordo il labbro prima di parlare.
«Ci-ciao» balbetto, in modo ridicolo, lui alza un sopracciglio e noto che è davvero un bel ragazzo. Quando rimango in silenzio, ancora, si decide a parlare di nuovo.
«Posso esserti d'aiuto, Van Den Bogaerde?» domanda, mutando la sua espressione scontrosa in una maschera di diffidenza nei miei confronti. Come se parlare con me, possa cacciarlo nei guai.
«Sai il mio cognome?» chiedo stupita e incredula che lui sappia qualcosa di me, la secchiona invisibile che non ha uno straccio di vita sociale. Mi mordo il labbro e mi maledico per la mia linguaccia.
«Cosa vuoi?» domanda indispettito, trattenendo uno sbuffo. È la prima volta che gli parlo e sto facendo la figura della stupida, non sarei mai riuscita a smentirmi. Grande.
«H-ho bisogno di questo tavolo» spiego, abbassando lo sguardo e sentendo le guance avvampare.
«Come, scusa?» e scoppia a ridere. Ha una bella risata, piena e divertente, il mio cuore fa una capriola e non provo nemmeno a guardarlo, perché so che non riuscirei più a distogliere lo sguardo. «Scordatelo» risponde, smettendo di ridere ed usando un tono sfacciatamente rude. La sua parlantina veloce e fastidiosa, così incrocio le braccia sotto il seno e lo guardo offesa, facendo attenzione a non incastrare i miei occhi con i suoi.
«Vengo qui ogni giorno, sempre allo stesso orario, mi siedo allo stesso tavolo e ora non puoi arrivare tu e pretendere di portarmelo via» lo accuso, sedendomi senza domandare il permesso e senza nemmeno attendere una risposta consenziente. Quando avvicino la sedia al tavolo, mi accorgo che mi fissa, quasi curioso e -posso giurare- con le labbra leggermente sollevate verso l'alto. «N-non me ne andrò» affermo, seria e mordendomi l'interno guancia, per tutta risposta lui scrolla le spalle e torna ai suoi passatempi, ignorandomi.
Esco piano i libri dalla borsa e faccio attenzione, a non toccar il suo gomito poggiato sulla superficie fredda del tavolo, poi la cameriera arriva verso di noi e ci guarda, prima me e poi lui, confusa e divertita allo stesso tempo. Alzo gli occhi al cielo e faccio cenno di non dire nulla, dopo ordino la solita cioccolata calda e nel giro di pochi minuti vengo accontentata. Guardo fuori dalla vetrata e noto che ha cominciato di nuovo a nevicare, poi torno ad annusare il profumo che esce dalla mia tazza e decido di concentrarmi sui compiti, sentendomi osservata, sebbene non mi stia guardando nessuno.
«Cosa ti porta qui ogni giorno?» domanda una voce veloce e chiara, con un suono quasi divertente, un'ora dopo. Alzo di scatto la testa dal libro di storia e rimango con la matita a mezz'aria, incredula. Mi sarei aspettata di sentire la voce di chiunque, ma non la sua; bevo un sorso di cioccolata e scrollo la spalle, indecisa.
«Non mi piace stare a casa» spiego, inclinando la testa e sentendo la mia massa di capelli scivolare di lato. Lui annuisce stranamente curioso e io continuo, sentendo nel suo sguardo dell'interesse. «E qui posso stare quanto mi pare, a patto che ordini qualcosa di tanto in tanto»
«Cioccolata?» domanda e io faccio sì con la testa, battendo poi la gomma della matita sulle pagine del libro. Quel gesto gli fa abbassare il capo e, con una smorfia, si aggiusta il cappuccio sulla testa. «Secchiona» mi prende in giro, ma senza l'ombra di un sorriso.
Alzo un sopracciglio infastidita e prendo le distanze. «E tu sei maleducato. Forse era meglio quando non parlavi» obietto, facendolo ridere, senza volerlo.
«Sei strana, ragazzina» se ne esce, poi si gira e chiama la cameriera, ordinando un'altra tazza di cioccolato, che -ancora fumante- arriva al tavolo dopo una manciata di minuti. La porta alla bocca e dopo si pulisce il labbro inferiore con la lingua, mentre io lo osservo senza pudore.

È il ragazzo più bello che abbia mai conosciuto, e forse anche il più stronzo, ma nonostante questo, sento qualcosa che si smuove dentro ogni volta che in classe si siede accanto a me, in religioso silenzio. «Prima arrivi balbettando e poi diventi sfacciata. Sei strana» conclude.
«Non quanto te, Josh» sussurro così piano, che mi stupisco quando vedo i suoi occhi saettare con una rapidità paurosa verso di me. Quando nota che mi sono accorta del suo comportamento, distoglie lo sguardo e continua a bere, guardando la strada innevata oltre la mia spalla.
«Perché ti sei seduta accanto a me?» chiede, pacato, aggrottando le sopracciglia. Mi agito sulla sedia e poggio i gomiti sul libro, facendomi un tantino più avanti.
«Perché tutta questa loquacità?» domando per tutta risposta, lui viene avanti sul tavolo, esattamente come ho fatto io, ma questa volta retrocedo, intimidita.
«Mm, bhe, vediamo» inizia, toccandosi il mento. E sorridere, facendo aprire a loro volta le mie labbra in un altro sorriso, felice di essere riuscita a sciogliere pian piano un cuore freddo come il suo, maschera o no che fosse, soltanto con qualche parola. «Forse, perché la mia compagna di banco con cui non ho mai parlato, si è presentata al mio tavolo, accusandomi di averglielo rubato e poi si è seduta senza nemmeno chiedermi il permesso, occupando metà piano con i suoi compiti da secchiona. Sei strana, te l'ho detto. E mi piace la gente strana» e fa un sorrisino, abbassando lo sguardo e fissando le mie dita, strette intorno alla matita. «Ora tocca a te rispondere, perché ti sei seduta accanto a me?»
«Perché è il mio tavolo, te l'ho detto» ribatto sagace, alzando gli occhi e pentendomi di aver anche solo provato a sostenere il suo sguardo.
«Nessuno si sarebbe seduto accanto al violento e attacca brighe Josh Cuthbert, nemmeno per volere un tavolo a cui si è affezionati» obietta, rivolgendomi un'occhiata perplessa e poi esaminando l'interno della tazza.
«Io non credo a quello che dice la gente» rispondo, sentendo il calore divampare sulle mie guance.
«Dovresti invece, Jasmine» sussurra, con lo sguardo perso nel vuoto. Senza riflettere, poso una mano sulla sue e poi la tolgo, non appena entrambi ci accorgiamo del gesto fin troppo frettoloso e intimo.
«Sei un bravo ragazzo, ne sono sicura» confermo, seria. Guardo il reticolo verdastro che spunta sulle mani e penso che esteticamente i suoi anni in più sono appena evidenti, ma nonostante questo, mi convinco che interiormente tutto sia più grande e maturo, se solo smettesse di comportarsi in quel modo -chiuso in se, perennemente sulle sue e maleducato- la gente smetterebbe di additarlo come il ragazzo problematico. «Josh»
«Nessuno mi chiama Josh» mormora, seccato. Gioca con le punte spigolose del fumetto e poi inizia ad armeggiare con le cuffie attaccate al telefono. «E tu l'hai fatto due volte»
«Nessuno mi chiama Jasmine» rispondo a mia volta, lui alza lo sguardo e per la prima volta lo sorreggo, perché ho capito che, in questo momento, quella più forte tra i due forse sono io. Sorrido e percepisco la sua tranquillità mentre lo faccio, è meno rigido e il suo sguardo meno diffidente, alla fine anche lui cede e, senza troppa enfasi, ricambia.
«Allora, qual'è la verità, perché ogni pomeriggio studi qui?» chiede, cambiando discorso e spostando le attenzioni su di me. Vago con lo sguardo e faccio spallucce.
«Te l'ho detto, non mi piace studiare a casa» ripeto, sentendo che ha capito qualcosa, che non è esattamente tutta la verità. Ma mi fa piacere, significa che non mi ero sbagliata, quando avevo percepito nella sua voce curiosità e interesse per me.
«C'è di più» insiste, abbandonandosi sul tavolo, con le braccia conserte.
«I miei» ammetto, guardandolo dall'alto e chiedendomi come Dio possa essere stato così generoso con una sola persona, troppa bellezza in quel viso squadrato e dai tratti marcati, le sopracciglia folte e gli occhi di un azzurro così intenso e freddo, da far venire i brividi.
E così iniziamo a parlare, per un pomeriggio intero, alla ricerca disperata di qualcosa che faccia cambiare idea ad entrambi riguardo all'altro, arrivando alla conclusione, che siamo così diversi caratterialmente e tanto simili se mettiamo a confronto le nostre vite. Finiamo cioccolate calde su cioccolate calde, abbandonando completamente i compiti e i fumetti, avendo trovato qualcosa di più interessante. Poi il locale si prepara alla chiusura e siamo obbligati ad uscire, silenziosamente.
Quando mi apre la porta e mi lascia passare per prima, credo che sia il massimo dell'imbarazzo per entrambi e io vorrei sprofondare dalla vergogna, fin sotto la neve accumulata sul marciapiede, quando penso che non dirà nulla, parla.
«Grazie. Per esserti seduta accanto a me, nonostante le voci che circolano sul mio conto» se ne esce e spalanco gli occhi per la sorpresa, accorgendomi che per strada ci siamo solo noi e i lampioni già accesi.
«Non mi è pesato» dico e mi stringo nelle spalle. Faccio un passo indietro, notando che siamo uno di fronte all'altro, lui con le mani nelle tasche dei jeans e io in quelle del cappotto, infreddoliti. «Oh, grazie per avermi offerto tutte quelle cioccolate calde e non avermi cacciata appena mi sono seduta»
Trattiene una risata e annuisce, divertito.
«Non mi è pesato» mi imita e io scuoto la testa, poi si fa più serio e mi sorride, mettendo in mostra i denti bianchi e perfetti e noto che stonano con i miei, che, insieme ai miei capelli un po' crespi e informi, distruggono la mia figura esile. «Davvero, Jasmine»
«Okay, allora» mi fermo incerta e soppeso le parole, sentendo un fremito di eccitazione partire dalla pancia. Che strana stregoneria è mai questa? «A domani»
Annuisce e anche lui fa un passo indietro. «A domani»

Mi volto, sapendo di dover cogliere l'attimo e scappare di lì, prima che la voglia di attaccarmi a quel corpo perfetto e quella persona tanto triste quanto allegra prenda il sopravvento, faccio un gran respiro e inizio a correre, sapendo che quando tornerò a casa, dovrò sorbirmi le lagne di mia madre per quel abnorme ritardo. Quando apro la porta d'ingresso, però non le do nemmeno il tempo di parlare, che salgo le scale e mi chiudo in camera, sentendo qualcosa muoversi in me. Sento, che ogni cosa è cambiata
 
 
 
 

Apro il libro di storia, ad ultima ora, costringendomi a non pensare a quelle iridi che mi fissano da tutto il giorno e faccio finta di interessarmi alla lezione, sebbene, resistere alla tentazione di voltarmi, sia difficile. Quando la campanella suona, scendo lentamente dalla sedia, indecisa se parlargli o no, ma prima che abbia il tempo anche solo di pensare, lo vedo superarmi e uscire come un fulmine dall'aula. Sospiro, perché mi ero davvero illusa che qualcosa fosse cambiato, che lui avesse deciso di abbandonare la sua solita freddezza, ma mi ero sbagliata. Ancora.
Mentre raccolgo le mie cose dal banco, con una lentezza esasperante, noto una scritta piccola e confusa sulla superficie liscia e fredda del nostro banco, al centro esatto.
 
Stesso posto e stessa ora di ieri? Ti aspetto, secchiona.
 
Apro la bocca incredula e poi, senza nemmeno accorgermi delle persone che camminano per i corridoi, sono già fuori dall'aula, a farmi spazio tra la gente. Qualcosa si smuove in me. Una fitta arriva all'altezza dello stomaco e sempre la stessa sensazione di incertezze nello stargli vicino e la voglia di vederlo si impossessano di me, quella stessa sensazione che mi ha tenuta sveglia tutta la notte e che mi ha fatto ritardare la mattina, per rendermi presentabile.
Non so, se quel uragano di emozioni che è nato in me sia qualcosa di positivo, ma sono certa del fatto che, diciotto ore fa, quando mi sono seduta prepotentemente a quel tavolo, tutto è cambiato.

 





 
 
  Giorgia is back!
Scusate per il tremendo ritardo, considerando che avevo detto che il primo di settembre avrei aggiornato le storie in corso di svolgimento e pubblicato nuove storie. Pardon.
Ora sono qui, con questa cacchetta, partorita mentre ascoltavo (per la 1032848394839sima volta)
Everything Has Changed, di Taylor Swift ft. Ed Sheeran (dio benedica questi due!).
Ora mi dileguo, che sono alla disperata ricerca di una batteria su ebay per la mia nuova (in realtà comprata al mercatino dell’usato) Polaroid, askdjd. **
Love ya,
Hug me conor.
  
Leggi le 7 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Fanfic su artisti musicali > Union J / Vai alla pagina dell'autore: njaalls