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Autore: Orologio    25/09/2013    0 recensioni
Giulia era affascinata, aprì bocca per dire “Sì, la prendo!”, quando, prima ancora che riuscisse a parlare, delle urla, provenienti dal pianerottolo, raggiunsero la stanza da letto in cui si trovavano lei e Pablo. Non riuscì a capire bene cosa stessero dicendo i due uomini, le uniche parole in spagnolo che riuscì a capire e a tradurre mentalmente furono “stronzo”, “vaffanculo” e “sei una testa di cazzo”, poi il tutto fu interrotto da un suono di vetri rotti. Giulia si voltò di scatto a guardare Pablo con aria alquanto terrorizzata e quando incrociò i suoi occhi, captò rassegnazione e rabbia nel suo sguardo. Lui sorrise flebilmente e poi le disse di non preoccuparsi, erano i due fratelli dell’appartamento di fronte che ogni tanto scoppiavano in delle furiose liti, ma che di solito potevano essere considerati dei vicini di casa modello.
Genere: Erotico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon | Avvertimenti: Contenuti forti | Contesto: Contesto generale/vago
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Hai mai pensato di andare via e non tornare mai più?
Scappare e far perdere ogni tua traccia,
per andare in un posto lontano e ricominciare a vivere,
vivere una vita nuova, solo tua, vivere davvero? Ci hai mai pensato?


Luigi Pirandello, Il fu Mattia Pascal .

 



Capitolo 1.
 
 

Il sole tramontava lentamente su una Milano frenetica di fine agosto, ancora rovente e appiccicaticcia come di consuetudine durante i mesi estivi. L’estate sembrava non finire mai, eppure i ricordi delle poche vacanze che si era goduta a luglio sembravano lontani anni luce. Era una ragazza sufficientemente ambiziosa, diligente e determinata da poter rinunciare a sole, mare e abbronzatura in favore di una possibile carriera futura. Per cui già da inizio mese aveva rimesso piede nella sua città per tornare a lavorare e a farsi sfruttare ben benino una media di dieci ore al giorno, cinque –talvolta sei- giorni su sette. Si era laureata in lettere moderne tre anni prima e, nonostante stage in giro per l’Europa, alla fine si era ritrovata a lavorare in una piccola casa editrice nella sua città natale, che per anni aveva cercato di fuggire. Giulia era sempre stata convinta che la sua vita sarebbe stata costellata di successi lavorativi, possibilmente all’estero; non perché non amasse il suo paese, ma piuttosto perché era convinta che questo le andasse stretto e sentiva un irrefrenabile bisogno di scappare sempre più lontano. Quando aveva diciotto anni già si vedeva in un lussuosissimo completo di Valentino, Jimmy Choo ai piedi e una brillante carriera, magari come redattrice di Vogue Italia. Ben presto però Giulia andò a sbattere contro un gelido muro chiamato realtà, ci fece i conti, e decise di accettare il posto come correttrice di bozze nella sopra citata piccola casa editrice. Continuava a ripetersi che sarebbe stata un’occupazione provvisoria e che presto avrebbe trovato il lavoro dei suoi sogni, lo stipendio dei suoi sogni, la vita dei suoi sogni.  Il vero problema però era il fatto che dopo due anni seduta a una scrivania a leggere bozze, la claustrofobica convinzione che no, non era quello ciò che veramente voleva fare, si faceva sempre più grande, fastidiosamente più grande.
 
Arrivata di fronte al portone in legno scuro schiacciò il pulsate dorato sul citofono e pochi secondi dopo la voce di sua madre tuonò dall’altoparlante in un consueto “chi è?” che la faceva sempre sorridere. “Sono io”. E in un istante la serratura scattò.

Quando entrò in casa aveva il fiatone, maledetti quattro piani di scale a piedi.

“Dovresti smettere di fumare, stupida”

“Lo farò prima o poi, lo sai papà”

Baciò il padre e il fratello su una guancia e si mise a tavola. Era da due anni ormai che viveva da sola in un piccolo appartamentino in zona Ticinese, ma questo non le impediva di andare a cena a casa della sua famiglia una o due volte a settimana. Non erano una di quelle famiglie che pianificavano le cene, non esisteva “la cena del venerdì”. Quando avevano voglia si riunivano intorno a un tavolo ed era bello, perché era spontaneo, semplice.

“Come è andata oggi a lavoro, pulcetta?”

Sua madre la chiamava pulcetta dall’alba dei tempi e lei lo aveva sempre considerato un soprannome estremamente dolce.

“Mi sono licenziata due giorni fa.”

Il vino andò di traverso sia a suo padre che a suo fratello. “CHE COSA?” tuonarono tutti all’unisono. “E perché mai?”

“Perché sono stufa. Non mi piace, è un lavoro che non mi piace. Anzi, mi annoia terribilmente. Lo sapete. E sapete anche che l’ultima cosa che voglio è finire incastrata in una vita che non desidero. Sono stanca, voglio trovare qualcosa che mi piaccia di più, voglio andare via di qua. Mamma, mi sento claustrofobica, non dormo la notte. Ho ventisette anni, porca miseria! Ventisette! E me ne sento cinquantadue addosso. Devo assolutamente andare via per un po’…”

“E, di grazia, dov’è che vorresti andare?” suo padre aveva sempre un modo quasi ironico di porre domande e la cosa la irritava da sempre, ma questa volta addirittura più del solito. Il cuore iniziò a batterle più velocemente, si morse un labbro e optò per una risposta decisamente vaga.

“Non ne ho idea! Ci devo ancora pensare, forse in America, o in Australia. Non lo so…lontano da qui comunque. Lontano da questa vita.”

“Ah beh certo, fuggire è una scelta così terribilmente matura. Mi stupisco della tua maturità, Giulia, davvero!” disse in modo ancora più ironico suo padre.

“Parli tu! Che a venticinque anni hai preso e ti sei fatto il giro del mondo.”

“Erano altri tempi, lo sai. E mi ero appena laureato, era il mio personale regalo di laurea. Tu sei un po’ vecchietta per fare queste cose, dovresti trovare un lavoro stabile, costruirti una vita, un futuro!” Ed eccoci di nuovo con la stessa solfa: una vita, un futuro. Lei non poteva più nemmeno sentirle quelle parole. Aveva passato la sua adolescenza a progettare una vita perfetta, che non sarebbe mai arrivata. Aveva invertito le età: al posto che divertirsi e fare qualche cazzata a vent’anni, aveva passato mesi e mesi a immaginare il suo futuro, e adesso, che di anni ne aveva ventisette, sentiva il bisogno di scappare via, come una quindicenne in preda agli ormoni, e farsi uno di quei viaggi cambia-vita.

“Beh tanto ormai mi sono licenziata, non posso più tornare indietro. Ho risparmiato negli ultimi due anni, posso permettermi qualche mese di pausa. Poi cercherò un altro lavoro, chissà dove e chissà cosa, ma adesso ho bisogno di partire. Comunque adesso cambiamo argomento, com’è andata la tua giornata Fil?”

Suo fratello, Filippo, era un chirurgo trentatreenne che lavorava anche lui a Milano e conviveva con la fidanzata storica, Arianna, in un bilocale sui Navigli. Nessuno capiva come potessero stare ancora insieme quei due, dal momento che lei era una maestrina alle elementari abbastanza priva di personalità mentre lui era un gran bell’uomo –alto, spalle larghe, occhi verdi come un uliveto mediterraneo, pelle vagamente ambrata e capelli color caffè, e, soprattutto, era molto sveglio, intelligente, con un gran senso dell’humour. Però, se lui era contento, anche Giulia lo era. Si volevano un gran bene loro, e fin da quando erano piccoli, nonostante i sei anni di differenza, avevano sempre avuto un bellissimo rapporto, aperto e affettuoso.

La cena trascorse velocemente e in modo piacevole, visto che l’argomento “licenziamento” non fu più toccato. Giulia si stupì di come i suoi genitori non tornarono più a parlare del suo improvviso e probabilmente folle gesto. Forse avevano capito che non era la serata giusta per discutere, ma lei sapeva di non averla fatta franca, l’indomani sua madre l’avrebbe sicuramente chiamata per farle il lavaggio del cervello o, per lo meno, per parlarne in modo più approfondito.

Quando finalmente uscì dal portone diretta verso la sua vespa azzurra parcheggiata a pochi metri di distanza, erano ormai le undici di sera passate. Tirò fuori il cellulare dalla borsa e compose velocemente il numero di Andrea, il suo migliore amico, gay fino al midollo, ma uno di quei gay adorabilmente discreti e poco appariscenti, insomma, una perla rara. “Dove siete?”

“Siamo al Magenta, ti aspettiamo qui, muovi il tuo adorabile culo.” Conciso, dritto al punto. Come sempre.

Salì in sella al suo cavallo turchese e, dopo essersi infilata il casco, partì. In pochi minuti arrivò a destinazione e, dopo essersi fatta strada in mezzo alla gente che affollava il locale, riconobbe i rossissimi capelli di Alice, la sua migliore amica, seduta accanto ad Andrea, e li raggiunse.

“Allora, come l’hanno presa i tuoi?”

“Non molto bene, in realtà. Ma ancora non sono riuscita a dirgli del biglietto di sola andata per Barcellona che se ne sta felicemente appoggiato sul tavolo della mia cucina.”

“Cazzo Giulia, parti tra cinque giorni e non hai detto nulla?” La solita finezza di Alice.

“Lo so, ma non sapevo come dirglielo.” E nel dire queste parole si mise a sorseggiare la birra che aveva ordinato appena arrivata.

Aveva comprato quel biglietto una settimana prima. In realtà era già stata a Barcellona, parecchi anni prima a dir la verità, con un ex fidanzato. Le era piaciuta talmente tanto che aveva deciso di tornarci, questa volta non sapeva per quanto tempo, sapeva solo che era la prima tappa di un lungo viaggio che, forse, l’avrebbe aiutata a capire un po’ di più se stessa.

“Glielo dirò domani, promesso.”

La serata trascorse tra risate e qualche birra di troppo, come sempre quando si trattava di Andrea e Alice. Lui: neoavvocato ventottenne. Sul lavoro: una iena. Fuori dal lavoro: ironico, tagliente, ottimo dispensatore di consigli e affettuosissima spalla su cui piangere. Lei: rossissima, riccissima, assurdissima. Coetanea di Giulia, si era laureata in lettere antiche ma aveva deciso che la sua vocazione era la scenografia e quindi si era iscritta all’Accademia delle Belle Arti di Brera e aveva ricominciato a studiare, da zero. All’apparenza sembrava il tipico esempio di persona che Giulia non sopportava: artistoide da strapazzo, un po’ fricchettona, probabilmente strafatta nove giorni su dieci, mezza hippy e, alla fine, nient’altro che radical chic. In realtà Alice non era nessuna di queste cose. Era una persona un po’ schizofrenica a dire la verità, metà delle volte iraconda, acida, incazzata con tutto e tutti, pronta a sputare veleno addosso a chiunque. L’altra metà delle volte però era estremamente sensibile, leale, grande ascoltatrice, pronta a buttarsi nel fuoco per una persona che ama. Insomma, una vera amica.

Tornò a casa che erano quasi le due, si sfilò le scarpe col tacco alto e camminando scalza sul parquet caldo del suo monolocale si diresse in bagno. Dopo essersi struccata, lavata i denti e messa il pigiama andò a spegnere le luci all’ingresso e, passando per la cucina, non poté non notare il biglietto dell’aereo abbandonato sul tavolo. Mancavano solo cinque –in realtà ormai quattro, giorni alla sua partenza. E ancora non l’aveva detto a nessuno a parte Andrea e Alice. Si promise che il giorno dopo avrebbe avvertito tutta la sua famiglia e, con questa convinzione, andò a letto, rigirandosi almeno cento volte tra le lenzuola bollenti prima di addormentarsi.
  
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