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Autore: aelfgifu    26/09/2013    4 recensioni
Un temporale d’autunno. Una giovane scrittrice, studiosa, mamma single, e le sue amicizie “pericolose”. Una nonna preoccupata. Un sacchetto di dolci, una tazza di tè e un calendario.
[Scopriamo qualcosa di più sull’identità di Julia, detta “il Bücherwurm”, e sulle circostanze che hanno portato la sua vita a incrociarsi con quella di Stefan Levin e del Kaiser.]
Genere: Angst, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Karl Heinz Schneider, Nuovo personaggio, Stefan Levin
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Tutti i miei cari'
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Il calendario

 

Monaco di Baviera, ottobre

 

La giornata è iniziata con un cielo coperto, del colore del piombo; perfino uscire di casa, stamattina, è stato faticoso, sotto quel cielo. Non tanto per il freddo quanto per quel colore del piombo che pesava sopra le nostre teste. Per strada ho sentito una donna che diceva:

“Che brutto questo cielo, che brutto! Perché non si mette a piovere? Sarebbe meglio!”

Ho pensato anch’io: perché non piove? Ci alleggerirebbe il cuore, se non altro.

Ma il temporale è arrivato solo nel primo pomeriggio, lungamente annunciato da batterie di tuoni in lontananza.

Allora mi è caduto come un peso dalle spalle, e ho ripreso a respirare più facilmente.

Ora sono le quattro e trentanove di un venerdì pomeriggio, siamo a ottobre, siamo a casa mia, nella mia cucina, dove, seduta di sghembo su una vecchia sedia impagliata portata dall’Italia, cerco di scrivere quattro righe decenti.

Fuori continua a piovere.

Mentre mi scervello su un aggettivo (meglio “esaustivo”, “esauriente” o “completo"?), il display del cellulare, posato accanto al mio portatile, si illumina di verde.

 

Anruf

Mama

 

“Mamma?”

“Julialein, sei a casa?”

“Sì, sono qui, sto lavorando...”

“Posso passare tra una mezz’oretta? Papà stamattina ha fatto i biscotti speciali, quelli che vi piacciono; te ne volevo portare un po’...”

“Oh, mamma, grazie... ma non dovete... di’ a papà che non doveva...”

“Non doveva?” la voce di mia madre diventa severa. “Vuoi togliere anche questa gioia a tuo padre?”

“Ma...”

“Niente ma, ragazzina”.

 

***

 

Arriva mezz’ora dopo, puntuale al secondo. Mentre vado a rispondere al citofono, sbircio fuori dalla finestra e vedo che ha quasi smesso di piovere.

“Julia?” sento chiamare dall’ingresso esattamente due minuti più tardi.

“Sono in cucina” rispondo.

Mia madre compare sulla porta della cucina. “Tieni” dice, tendendomi un grosso cartoccio. “Te lo manda il papà, per la colazione. Ci sono i biscotti che piacciono a Robert”.

“Grazie” dico prendendo il cartoccio. “Mi stavo preparando un tè, ti va di farmi compagnia?”

“Non ho molto tempo”.

“Neanche dieci minuti?”

“Se è solo per dieci minuti...”

“Il tempo di una tazza di tè, mamma, nient’altro”.

Ripongo il cartoccio dei dolci. Domattina a colazione io e Robby faremo festa!, rido tra me e me.

Mia madre rimane sulla porta, percorre con lo sguardo tutta la piccola stanza. Registra la tazzina sporca nel lavello, lo strofinaccio appeso sghembo al suo gancio, la catasta di piatti messi ad asciugare ieri sera e non ancora riposti nella credenza, e il tavolo ingombro, col mio portatile acceso sul lato più esposto alla luce e pile di libri intorno.

“Sempre disordinata... e poi tutti questi libri” mormora scuotendo la testa. È mia madre, sono vent’anni che ripete le stesse cose.

“... sto scrivendo” rispondo, mentre prendo tazze, piattini e cucchiaini.

“Ma che stai sempre a scrivere?” sospira mia madre con aria supplice.

“... è il mio lavoro” rispondo, mordendomi il labbro inferiore per non ridere.

“...”

“Mamma... perché non ti siedi e non cerchi di stare calma?”

Lei obbedisce. Intanto ho preso una bustina di tè verde per me e una di tè ai frutti di bosco per mia madre, le scarto, le poso nelle tazze, tolgo il bollitore dal fuoco, verso l’acqua calda, appoggio il bollitore sul fornello spento.

“Zucchero?”

“Sì, per piacere”.

Mentre prendo la zuccheriera e la poso sul tavolo, mia madre chiede:

“E Robert dov’è?”

“A casa di un suo amichetto che festeggia il compleanno”.

“Hm”. Mia madre toglie il coperchio della zuccheriera, prende una zolletta e la lascia cadere nella tazza.

“Hm?” ripeto interrogativa, mentre mi siedo vicino a lei.

“Tutti questi amichetti di scuola, queste feste di compleanno... chissà i soldi che spendi per i regali”. Gira pensosamente il cucchiaino nella tazza.

“No, gli hanno fatto un regalino i suoi amici tutti insieme...”

“Non vorrei che facessi il passo più lungo della gamba...” mormora mia madre tra i denti.

“Mamma...”

“Eh, “mamma”...” risponde lei. “Sai, non è lo stesso quando ci sono di mezzo i figli. Non vogliamo che facciano brutta figura davanti agli altri, non vogliamo che si sentano umiliati... e concediamo loro tanto, troppo, anche se non ce lo possiamo permettere”.

“Io non concedo troppo a Robert”.

“E poi questi tuoi amici ricchi... non vorrei che avessi perso la testa”.

“Amici ricchi?”

“Sì, quei due... lo svedese e quell’altro”.

“Ahhh! Loro!...” esclamo, dandomi una botta sulla fronte col palmo della mano.

Mioddio, è vero, ha ragione mamma, quei due hanno un sacco di soldi. Chissà perché non mi è mai passato per la mente prima d'ora?

“Eh!”

“Pensi che voglia fare a gara con loro a chi spende di più?”

“Eh!”

La mia mamma! D’impeto me la abbraccio. Meno male che ha appena posato la tazza sul tavolo, altrimenti ora staremmo raccogliendo i cocci. Lei risponde brevemente all’abbraccio, un po’ imbarazzata, ma subito dopo si divincola e mi guarda con aria corrucciata (sì, deve dire quello che ora dirà, a tutti i costi, anche a costo di interrompere un abbraccio con la sua piccolina):

“Tu sei sempre stata così timida. Hai sempre sofferto perché nessuno ti considerava, e ora... ora che due tipi come quelli...” esita, poi decide di essere esplicita “... ora che uno come quello Schneider ti gironzola attorno... un fatto del genere farebbe girare la testa anche a un tipo più spregiudicato di te”.

“Mamma, ma che dici? Quello Schneider non mi "gironzola" attorno!”

“Come vuoi, ma mi spieghi che cos’hanno a che fare quei due con te?”

“Ma lo sapete, ve l’ho già detto cento volte! Levin l’ho conosciuto alla presentazione del mio libro, lo aveva letto, gli è piaciuto e ha voluto conoscermi! È tanto strano?”

“E Schneider che c’entra? Lui dove lo hai conosciuto? Se l’era portato dietro il suo amico?”

“No-o, lui l’ho conosciuto a una partita...”

“Anche a lui piacciono i tuoi libri? Che interessi condivide con te?”

“Lui? Ma non lo so... non lo so se gli piacciono i miei libri! Certo è un ragazzo intelligente...”

“Vedi? Questo significa condividere degli interessi?” mi fulmina mia madre. Quindi, per buon peso, aggiunge: “Poi non dirmi che non ti avevo avvertita!”

“Ma’, sono adulta e vaccinata, non credo che...”

“E allora quello?” fa mia madre puntando l’indice verso il muro. Io seguo la traiettoria tracciata dal suo dito e individuo quello.

 

***

 

Quello è un calendario che hanno realizzato i ragazzi del Bayern a scopo benefico: una ventina di bei giovanotti sullo sfondo della campagna bavarese. (Me lo ha portato Lennart, sventolandolo davanti al mio naso con una risata scampanellante: “Bücherwurm, guarda che razza di cretinate ci fanno fare per rendere felici quelli del settore marketing!”). I creativi, diabolicamente, hanno preferito non sottolineare la loro appartenenza a un prestigioso club di calcio; li hanno voluti per così dire in borghese. Anche il pallone compare soltanto in alcuni scatti, ma come in una partitella da pomeriggio domenicale tra amici. Lennart, per esempio, compare nel mese di febbraio, tutto imbacuccato con sciarpa, berretto di lana e guanti, mentre fa passaggi con due bambini biondi come lui. Drener, Boehle e Sho sono stati ritratti nel mese di dicembre mentre giocano a palle di neve. Un calendario fresco, allegro, per tutti: bambini, famiglie, ragazzi e adulti, e ognuno ci fa sopra i pensieri che più gli aggradano.

Karl è il pin-up di luglio. Lo hanno fotografato mollemente disteso in un prato verdissimo di erba e pieno di fiori, il bacino lievemente sollevato, un gomito a terra, la testa sostenuta con dolcezza dalla mano. È vestito tutto di bianco, camicia bianca col primo bottone aperto e maniche arrotolate fin quasi ai gomiti, jeans bianchi, sneakers bianchi, una vera macchia di luce. È girato verso l’obiettivo e sorride.

Dal mese di luglio quel sorriso domina la mia cucinetta, veglia sui miei libri, protegge le merende di Robert, mi guarda mentre lavo i piatti e taglio le verdure.

Il suo sorriso.

Affilato. Scintillante.

Sorridi così poco perché sai quanto è pericoloso il tuo sorriso, Karl?

Perché sai che fa male a chi lo guarda?

A me fa così male.

“Luglio è passato da un pezzo” riprende mia madre.

“Eh?”

“Dico, hai dimenticato di girare quel coso. Siamo a ottobre” dice mia madre continuando a indicare il calendario appeso al muro.

“Ah! Già, è vero...”

Mia madre mi fissa con severità.

“Che c’è?”

Lei non risponde. Anziché rispondere, scuote ripetutamente la testa.

“Che c’è?” chiedo ancora.

“Ah, Julia Julia Julia” sorride mia madre, ma con una piega amara sulle labbra.

“Julia Julia Julia cosa?” ribatto.

“Sai tu cosa, bambina mia” mormora mia madre ingoiando il resto del tè.

 

***

 

Mamma è andata via, sotto la pioggia che ha ricominciato a scendere lentamente. Mentre scendeva le scale, si è girata a salutarmi, senza parlare, solo agitando la mano.

Restano il profumo dei biscotti che ha portato e l’amarezza del nostro discorso.

Mia madre è una donna formidabile. O è soltanto una madre?

Come ha saputo uscirsene a dire a una figlia più che adulta e madre a sua volta: Hai sempre sofferto perché nessuno ti considerava, e ora... ora che uno come quello Schneider ti gironzola attorno... un fatto del genere farebbe girare la testa anche a un tipo più spregiudicato di te?

Non era mai stata così franca, così esplicita. Credo che abbia veramente paura. Ha capito che stavolta sono davvero vulnerabile e che finirò per farmi male sul serio.

Le è bastato guardare quel calendario.

Accidenti a te, Karl-Heinz Schneider, ripeto a me stessa, accidenti a te.

Lancio anche io un’occhiata al calendario.

È così bello che guardarlo fa male, è vero. Anche se è solo una fotografia.

Proviamo ad anatomizzare i tuoi pensieri, Julia, dico a me stessa, proviamo a lavorare di bisturi come facciamo per altre cose. Non è facile.

La domanda principale: è possibile che io sia così perdutamente infatuata?

È perché amo le sfide impossibili, e lui è veramente impossibile?

È perché desidero prendere una mattonata tale che imparerò la lezione una volta per tutte?

È perché sogno – io che ho la presunzione di non averlo mai sognato – il principe azzurro? Io, una mamma single più che trentenne?

È la vanità di voler dire mio qualcuno che ha tutto quello che non ho mai avuto?

Anatomizzo la mia mente e non sono contenta di quello che il mio bisturi rivela.

Vedo la piccola Julia, un esserino insignificante, invisibile, che guarda lui, il sole, e ne è accecata, e pensa che forse un po’ di quella luce accecante potrà diventare parte di lei – lei sempre vissuta nell’ombra – se riuscirà a catturare l’amore di quel sole.

E come potrà lei carpire l’amore di quel sole, se non con qualche inganno? Come potrà avere una parte di quella luce, se non rubandola?

Come potrà solo pensare di poter tornare nel buio dove è sempre stata, ora che quella luce meravigliosa ha ferito a morte le sue pupille?

Anatomizzo la mia mente e vedo un abisso di mancanza che risale dalle profondità degli anni. Niente di tutto quello che penso è vero, e voglio credere che tu sia il sole semplicemente perché non ne posso più del buio.

 

***

 

Una notte ti ho sognato, Karl-Heinz Schneider. Ho sognato che ti uccidevo a colpi dascia. Una serie infinita di colpi dascia, uno più violento dell’altro. E mentre tu agonizzavi nel tuo sangue, io continuavo a menare colpi senza vedere né dove né come, nel più completo delirio, nella più completa perdita di me stessa.

Mi sono svegliata urlando in un bagno di sudore ghiacciato. Le mie urla hanno svegliato anche Robert, che è corso subito a darmi aiuto – la prima cosa che ho visto, riaprendo gli occhi sbarrati dal terrore, è stato il mio coraggioso bambino che si arrampicava sul letto, mi afferrava per una spalla con tutte e due le mani e diceva, mamma, stai bene, mamma...

Quella volta io e Robert ci siamo addormentati abbracciati, tutti e due dopo aver pianto, io di angoscia per il sogno fatto, lui di paura per sua madre. Il mio smarrimento e il suo, insieme, si son fatti coraggio. Pensa: ho potuto spaventare mio figlio per causa tua.

Non credere che il mio sogno dicesse la verità. Non voglio che tu muoia; vorrei anzi che vivessi per sempre. Temo solo per me; ho paura, perché so che sarai tu a uccidermi, al contrario di quel che accadeva nel sogno.

Ma chi se ne importa? Fammi male, torcimi, stritolami, annegami, calpestami, fammi a pezzi, inceneriscimi, polverizzami, distruggimi, lo supererò. Saprò superarlo. Sono della razza dell’araba fenice, io.

 

***

 

Note al testo. 1) Lennart è un tipico nome svedese... quindi indovinate chi è in realtà Lennart? 2) Drener è il portiere del Bayern Monaco, Boehle un attaccante di riserva della stessa squadra. Sho... è noto a tutti, credo. 3) Da notare: nel calendario, Lennart (aka Levin) compare nel mese di febbraio, il Kaiser nel mese di luglio... chissà perché?

 

Disclaimer. Karl-Heinz Schneider, Stefan Levin & C. appartengono al maestro Takahashi (ahimé). Julia, sua mamma, il piccolo Robert e il resto della loro famiglia invece sono miei, e guai a chi me li tocca: diciamo che sono le creature della mia anima...

  
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