Disclaimer: I personaggi non
mi appartengono
Ma sono di proprietà della Marvel ©
E della BBC ©
ATTENZIONE.
La seguente storia è un Crossover con
la serie “Doctor Who”, in particolare col decimo episodio della terza serie (Blink) –Con un accenno, subito nella
parte iniziale alla 2x12 e alla 2x13 e relativi Cybermen.
Comunque tutti i vari
riferimenti, citazioni, spiegazioni si spera plausibili, ma se si tratta
della mia mente malata non ci conterei sui personaggi qui mossi saranno
tutte segnalate perché sono una maniaca del controllo. A tutti i fan del
DOCTAH chiedo già perdono se, parlando di
Voi-Sapete-Cosa-Don’t-Blink-Blink-And-You’re-Dead, dirò qualcosa di
contradditorio rispetto alla puntata della quinta e settima stagione in cui i
Voi-Sapete-Cosa fanno la loro ricomparsa.
Per questa storia mi baso unicamente su
Blink.
…Good Luck.
.: Every
Hour Has Come To This :.
.
.
Non
battere ciglio.
Se lo
fai, sei morto.
Helicarrier.
Zona
di Volo Sconosciuta –Presumibilmente Europa.
2006.
Quando Abigail Brand fece la sua
comparsa a bordo dell’Helicarrier, tutte le teste presenti si girarono a
guardarla. Che fosse per i capelli innaturalmente verdi, per le spesse lenti a
specchio in coordinato o per la divisa che la identificava quale Comandante
dello S.W.O.R.D. (Sentinel World Observation and Response Department), non era
dato saperlo.
In fondo, lei fu la prima a non dare
importanza alla cosa –All’interessata curiosità degli Agenti, ovviamente. Il
grado era una sorta di seconda pelle, la identificava ancor meglio del
tesserino appuntato al petto.
Avanzò con la stessa, orgogliosa
sicurezza del padrone di casa e un sopracciglio s’inarcò per il fastidio quando
venne ad accoglierla non il Direttore della baracca, bensì uno dei suoi
sottoposti. E, cosa peggiore, un sottoposto che non era nemmeno Maria Hill,
alias la spalla nuova di zecca e tirata a lucido di Fury.
«Comandante Brand, sono l’Agente
Coulson. Il Direttore mi ha incaricato di---»
Abigail lo liquidò con un gesto
veloce della mano.
«Portami da Fury, Coulson. In
fretta.»
L’Agente s’umettò veloce il labbro
inferiore e strinse la bocca; anche se sul punto di replicare, per amore del
quieto vivere arretrò di un passo, tendendo il braccio in avanti.
«Per di qua, Comandante» sorrise di
quel sorriso di fredda, professionale accondiscendenza che solo un adepto dello
S.H.I.E.L.D. alle dirette dipendenze di Fury era in grado di modellare –Perché,
oh, sì, era risaputo che il Direttore avesse una masnada di cagnolini ancor più
fedeli dei leali, seppur fallaci, Agenti che bazzicavano nella sede aerea come
negli avamposti di terra-.
Abigail indirizzò a Coulson un ghigno
saputo, gli occhi che scendevano con un guizzo nascosto dalle lenti a
controllare il grado sul badge: Livello 5. Bravo e sulla buona strada per
migliorare ancora. In caso contrario, Fury non lo avrebbe assoldato per fare il
comitato di benvenuto.
Non si scambiarono una parola durante
il tragitto fino al ponte di comando, né la Brand avvertiva la necessità di
riempire il silenzio intessuto tra lei e l’Agente.
Il Direttore la stava aspettando
dalla postazione sopraelevata, le mani dietro la schiena, l’occhio buono fisso
in avanti. Coulson le fece cenno di attendere fintantoché lui o il
Vice-Direttore Hill non le avessero dato il permesso di avanzare, ma il
Comandante Brand non era tipo da prendere ordini da un Agente di Livello 5 –E neanche
dall’unico Agente di Livello 10 che avesse mai camminato nei corridoi dello
S.H.I.E.L.D., ossia Fury stesso.
A onor del vero, non era tipo da
prendere ordini da chiunque. In caso di agente alieno ad alta possibilità di
condizionamento mentale, tantomeno da lei stessa.
Ignorando ancora una volta le
occhiate sconvolte degli Agenti e lo sguardo di malcelato disprezzo rivoltole
dalla Hill, Abigail si piazzò accanto a Fury e incrociò le braccia al petto. Un
angolo della bocca di Fury si torse a disegnare un’espressione d’impersonale
divertimento.
«Comandante Brand.» la salutò, aprendo
tre pannelli digitali e disponendoli a ventaglio sotto di loro.
«Direttore Fury.» Abigail compose
sullo schermo di sinistra un codice numerico, subito cancellato dalla memoria
dello S.W.O.R.D. e sostituita da una nuova password cui solo lei poteva avere
conoscenza, e accessibile da un terminale cui solo lei poteva accedere e di cui
solo lei poteva sapere l’esatta
posizione.
Sul pannello comparve l’immagine di
un alto grattacielo dal tetto a piramide, tasselli di finestre a raccogliere e
disperdere il riflesso delle anse del fiume e dei palazzi dietro di esso.
«Canary Wharf» spiegò il Comandante
Brand, allargando la visuale con un semplice tocco di dita «Londra. Centottanta
metri sul livello del mare.»
«E’ da lì che arrivato il segnale che
li ha portati sulla Terra?»
Abigail annuì e Fury nascose la bocca
dietro la mano chiusa a pugno.
«Non è stato facile seguire le onde
di trasmissione di quei…fantasmi o
robot che fossero, soprattutto perché ad esse se ne sono sovrapposte altre due
che hanno complicato un po’ le cose»
Il Direttore socchiuse le palpebre,
corrugando la fronte.
«Due?»
Il Comandante fece scivolare via
l’immagine del grattacielo e calò dall’alto del pannello tre colonne di dati,
insieme ad alcuni schemi di grafici e tre linee arzigogolate, ognuna segnata
con un colore diverso: una fantasma
grigio ferro, ad indicare gli esseri che avevano invaso la Terra solo poche ore
prima, una nera per “Quella sottospecie di bidoni per l’immondizia volanti”
come li aveva chiamati Fury in quello che sarebbe stato annoverato nella lista
dei più brutti momenti dell’Helicarrier, e infine una blu elettrico per un segnale privo di definizione alcuna.
Partivano tutte distaccate,
parallele, per poi incrociarsi in un unico punto e dare vita ad una
deflagrazione intricata decisamente di cattivo auspicio.
«Guardi qui» Abigail premette il
polpastrello sulla linea blu elettrica: annotazioni, cartelle, file risalenti
ad anni ed anni prima, foto sgranate che ritraevano una sottospecie di cabina
della polizia inglese del millenovecentosessanta, ipotesi, teorie mai
verificate scrosciarono sulla superficie azzurrina, un rigurgito di
informazioni e date, raccolti, ammassati, elaborati, incomprensibili.
«E’ lui, Direttore» Abigail spazzò via il tutto con una manata «E’ sempre lui. Sono decenni che lo S.W.O.R.D. è sulle sue tracce, tracce talmente visibili alle nostre apparecchiature che mi sembra ridicolo non essere ancora riuscita a
scovarlo. Abbiamo una sezione apposita solo per lui, un’altra unicamente per
quella chincaglieria anni sessanta che si porta dietro, un’altra ancora per la
sua, o meglio le sue, compagne e
infine, questa è bella, Fury, dovrebbe proprio sentirla, una creata al solo
scopo di monitorare le attività del
suo sfegatato fan club di groupie sciroccati, nella vana speranza di riuscire a
cogliere prima di loro qualcosa che ci permetta una maggior comprensione della
sua persona.
“Direttore, se ho i mezzi, ma non i
risultati, vuol dire che non vengo pagata abbastanza per permettermi mezzi
migliori. Perché dubito seriamente
che la colpa dipenda dal mio personale.»
Fury emise uno sbuffo ironico,
accompagnato da un sogghigno ed un eloquente arcuarsi delle sopracciglia.
«Ha mai pensato, Comandante Abigail,
che costui…»
Il Direttore sfiorò due finestrelle
sugli schermi rimasti: quello di sinistra si riempì di tessere e immagini e
volti, uomini anziani e giovani, capelli bianchi, fez, farfallini e cappelli,
uno in giacca di pelle, un altro dal stravagante completo dai colori più
disparati, e poi trench, occhiali, persino un cappello texano ed un orologio da
taschino. Il pannello centrale s’illuminò a mostrare l’ingrandimento di un uomo
con indosso trench e lenti dalla montatura marrone, i capelli castani tagliati
corti, la cravatta borgogna stretta al colletto bianco della camicia; la scena
lo ritraeva girato di tre quarti, lo sguardo serio, le palpebre socchiuse.
Dietro di lui campeggiava la sempre presente figura della cabina blu, la
scritta Police [Public Call] Box ben
visibile sulla fascia superiore.
«…Non abbia alcuna intenzione di
farsi trovare?»
Abigail serrò la mascella e digrignò i
denti.
«Non possiedo la pazienza necessaria
a farmi giocare da un signor Nessuno, Fury.» puntò il dito contro lo schermo di
centro «Ho passato gran parte della mia esistenza ad occuparmi delle minacce
aliene ostili e lui, lui che sembra
costantemente essere lì prima del nostro arrivo, lui che sembra costantemente
arrivare al momento giusto, lui che sembra costantemente sapere come è
necessario operare per debellare le suddette minacce aliene ostili, lui è il primo della mia lista.»
10880 Malibù Point, 90265.
Casa di Anthony Edward “Tony” Stark.
2007.
Perché dare a casa propria una festa
per la premiére di un film da perfetto Blockbuster?
Per Anthony Edward Stark la risposta
“Perché sono Tony Stark” era più che
sufficiente.
Una deliziosa signorina in tubino
nero e orecchini a cerchio gli passò accanto reggendo un bicchiere di
champagne, e Tony afferrò in un colpo solo sia lei che il flute.
Che poi, lui Sunshine nemmeno l’aveva visto: doveva incontrarsi con una
dottoranda di Princeton per un’importantissima e soprattutto improrogabile
dissertazione biblica.
Ovvio, l’after non era stato in alcun modo pensato per farsi perdonare la
mancata partecipazione alla prima, ma per…Bhè, serviva proprio un motivo per
lustrare bicchieri e camera da letto? Tony Stark pensava di no.
Era sempre tempo per un po’ di buona
compagnia, sempre tempo per un brindisi, sempre tempo per prendersi del tempo e
perdersi in esso, tra i cristalli,
l’argenteria e labbra tumide baciate di rossetto.
La signorina in tubino cinguettò una
risata chiocciante e finse di ribellarsi alla stretta di Tony che, dal canto
proprio, trovando lo champagne una compagnia più interessante di lei, la
costrinse a perdersi di nuovo tra l’ammasso ondeggiante di invitati con uno
studiato e finto passo di danza. Si defilò tra uno dei costumisti e una
comparsa-forse groupie-forse imbucato, unico obiettivo dell’attimo presente uno
shot di Vodka per scaldare le membra intorpidite.
Okay, forse il liquore non era la
mossa per migliore per sgombrarsi la testa, ma sapeva che il proprio
l’organismo reagiva piuttosto bruscamente all’abbassamento del tasso alcolico,
per cui inghiottiva di tutto per mantenerlo attivo e pimpante. Era un favore
che faceva al fisico, dopotutto, checché ne dicesse e protestasse il fegato:
non sarebbe stato certo la cistifellea ad accusare un feroce dolore alle
tempie, l’indomani mattina, per questo Tony scongiurava e ritardava il momento
fatidico sorso dopo sorso.
La visione periferica della stanza
ebbe uno scossone non richiesto e Stark ridacchiò sbiascicante del pavimento
lucido e scivoloso sotto i piedi, aggrappandosi ad una spalla, ad un braccio,
fino ad accasciarsi sul tavolo coperto di cocktail, bottiglie e, tra un
bicchiere sporco e l’altro, anche qualche salatino.
Quando tentò di versarsi la Vodka, il
mondo gli fece mostra di tutte le posizioni sbilenche che era in grado di
assumere, orgoglioso come una ginnasta perfettina. Il risultato fu che il
magnate dovette piegare la schiena a destra per seguire l’incunearsi improvviso
del soffitto senza rimanerne schiacciato e il liquore, presumibilmente
spaventato dalla piega che aveva assunto la realtà, si rovesciò urlando sul
pavimento, in cerca di salvezza.
«Credo dovresti smetterla di bere.»
«Credo dovresti smetterla di
sdoppiarti, sei già fastidioso da un—due---quante persone sei? Non vorrete
forse farmi ognuno una paternale diversa, vero? Ho-Ho un modo, già, ho un qualcosa per queste situazioni, si
chiama Gerico. Cioè, no, non si
chiama Gerico perché a dire il vero non l’ho ancora costruito, però che Gerico
sia il nome che andrà per la maggiore, sì.» tirò forte col naso e vi passò
sopra il dorso della mano, facendo cadere a terra bubbolanti rimasugli liquidi
e russi «Ho tutti i progetti giù di sotto e io, mh, li userò per spaventarti a
morte. Pepper dice, la conosci Pepper? È quella bella donna laggiù» afferrò il
seccatore per un braccio e lo costrinse malamente a girarsi «Ecco, lei è
Pepper. Pepper…! Pepper! Voglio farti conoscere---Come hai detto che ti
chiami?»
Lo scocciatore non rispose: si
divincolò, invece, e gli porse un foglietto spiegazzato, che Stark faticò non
poco a prendere –Anche se lui odiava gli si porgessero le cose. Ma in quel
momento odiava che i contorni dell’altro continuassero a tremolare come
melassa, per cui, tra le due, scelse il male minore.
«Cos’è?» ciancicò, strizzando gli
occhi e appoggiandosi al tavolo per non cadere all’indietro «Il tuo numero di
telefono? Ascolta, ragazzo, davvero, non è roba per---»
«Sono coordinate. Del Polo Nord.»
specificò, seccato «Manda qualcuno lì.»
«Perché?»
«So che non mi crederai, ma…»
Un po’ di neuroni sovraccarichi di
alcolici si era smossi dal torpore, ma la storia che l’altro gli propinò
sarebbe risultata una scemenza anche al più sobrio degli astemi. Tony
sogghignò, annuì, assicurò che sì, avrebbe fatto quanto gli aveva detto, no,
no, non doveva preoccuparsi, ci avrebbe pensato lui, che lasciasse tutto nelle
mani di Anthony Edward Stark e…Appena lo scocciatore imbottito di storielle e
forse qualche acido di troppo fu sparito, appallottolò il foglietto e lo lanciò
dietro di sé.
Un magnate moscovita impegnato
nell’Industria del petrolio, colpito dalla pallina accartocciata un po’ imprecò
fra i denti, un po’ tentennò indeciso se buttarlo o meno, quindi lo aprì,
corrugò la fronte alta e infine, guardandosi guardingo attorno, lo nascose in
una tasca interna del completo.
Quei numeri dalla grafia precisa e
sicura gli erano sembrati un’ottima idea, quasi un dono dal cielo.
Che fossero molto di più l’avrebbe
scoperto solo quattro anni dopo.
New York, Manhattan.
Stark Tower.
Oggi.
«Quell’attore ti assomiglia
parecchio.»
«Stark, spegni il televisore e
andiamo.»
Tony sbuffò e lasciò cadere le
braccia lungo i fianchi, a sottolineare tutta la frustrazione che l’ordine gli
aveva provocato; reclinò la testa sulla spalliera del divano, roteando gli
occhi al cielo –Come da copione, si ritrovò a fissare il volto di Steve, in attesa sopra di lui, le braccia incrociate
al petto e il sopracciglio inarcato.
«Allora?» domandò eloquente il
Capitano.
«Allora, cosa?»
Tony Stark, gnorri per antonomasia.
Steve si tolse dalla sua visuale e
per un singolo, folle istante, il magnate credette di averla vinta.
«J.A.R.V.I.S.?» lo chiamò Rogers
«Potresti…?»
Subito,
signor Rogers.
«Infame traditore» bofonchiò Tony,
assottigliando gli occhi e perdendosi in litanie ingiuriose circa la
confutabile lealtà delle Intelligenze Artificiali, mentre lo schermo si
spegneva con un quieto plic.
Steve finse di sistemarsi i guanti
della divisa per chinare il capo e nascondere il sorrisetto di vittoria che gli
aveva sorvolato la bocca; Tony storse le labbra, gettò via il telecomando e
borbottò un’imitazione non proprio benevola del tono di comando del compagno.
«Udito da Supersoldato» lo ammonì
questi, gli occhi appena ingrigiti da una nota di freddezza.
«Eh va bene, ho capito! Ho capito!
Vado a metterti l’armatura, non c’è bisogno di comportarti da Fury in seconda.»
Il Capitano aggrottò le sopracciglia
e lo fissò, perplesso e confuso.
«Io non mi comporto come un Fury in
seconda»
«Fidati, Rogie, se avessero creato una linea di figurine tutta sua, tu
saresti in prima fila per un autografo» si bloccò alcuni secondi, il mento
sollevato e la bocca atteggiata nella pantomima di un grande, profondo pensiero
filosofico «Sai, credo che potresti essere anche più fanatico di Coulson.»
L’insubordinazione gli costò un
coppino scherzoso dietro la nuca, ma dacché la relazione col Supersoldato era
iniziata, circa sette mesi prima, Stark aveva imparato come rivolgere certe
situazioni a proprio favore: tirò indietro il braccio ad afferrare il polso di
Steve, quindi si voltò e se lo portò alle labbra, concedendogli una carezza a
fior di labbra sulla vena azzurra.
«Ti voglio---»
«Non è una novità, Capitan Smanio Per Disfare Le Lenzuola»
«---Al massimo fra cinque minuti. A
bordo del Quinjet.» completò Rogers, il rimprovero tanto temprato dalla
convivenza da aver ormai assunto un tono bonario, quasi carezzevole.
Tony soffiò piano sulla sua pelle,
godendosi i primi brividi picchiettargli la mano e il braccio, puntolini
affilati ben visibili anche da sotto lo spandex del costume.
Lo lasciò andare con sogghigno,
sventolando le dita.
«Non c’è bisogno di usare quel tono
con me, Capitano. Quando mai sono in ritardo?»
«Sempre.»
Con ancora una lieve eco di risata in
fondo alla gola, il magnate scese d’abbasso, digitò il codice d’accesso e il
laboratorio lo salutò aprendosi con un singulto d’aria compressa. I neon si
accesero, skiok! uno dopo l’altro,
emerse dal buio la schiera ordinata delle auto, la teca con le armature, il
tavolo di lavoro, le scartoffie e un piatto coi resti muffiti di un panino alla
salsa verde.
---Se era salsa verde, quella che brulicava sulla crosta e tra i
bucherelli della mollica. Tony decise arbitrariamente che non voleva in alcun
modo scoprirlo.
J.A.R.V.I.S. aveva già fatto calare
dal soffitto gli arti meccanici per l’indosso dell’armatura e Stark stava per
salire sulla pedana circolare rialzata addetta alla sacra vestizione di titanio
e oro, quando lo Stark-Phone vibrò indispettito nella tasca dei pantaloni. Lo
estrasse e oh, s’accordo stupito, una mail da Capitano.
Una mail dal Capitano?
Per quale motivo Rogers avrebbe
dovuto mandargli una mail quando si sarebbero incontrati da lì a nemmeno cinque
minuti sul Quinjet dei Vendicatori?
TO:
Tony Stark.
Oggetto:
Appuntamento.
David
Letterman Show, domani sera.
Ricorda
che sono sempre stato tuo.
E lo
sarò sempre.
Steve.
«…J.A.R.V.I.S.?»
Sì,
signor Stark?
«Oggi è forse una data importante per
me e il Capitano Rogers?»
Dall’agenda
non risulta, signore.
«Ricorrenze particolari?»
Nessuna,
signore.
«La Festa della Marmotta?»
Nemmeno
signore.
Tony scrollò le spalle e risistemò il
cellulare nella tasca.
Steve non si perdeva mai una puntata del David Letterman Show
e lui aveva opportunamente chiesto a J.A.R.V.I.S. di registrare l’episodio del
giorno dopo, in caso la missione che sicuramente Fury stava per appioppar loro
li avesse costretti a rimanere a digiuno del talk show.
Il perché ricordarglielo per mail,
era una cosa che gli sfuggiva.
Così come gli sfuggiva
l’incomprensibile ricorso ad una formula tanto traboccante di romanticheria che
puzzava troppo persino per uno come Steve. Il Capitano non era scevro da
rigurgiti sentimentali di tal senso, ma di solito li manifestava con gesti
quotidiani quali preparargli il caffè tutte le mattine, portarlo di peso a
dormire quando si tratteneva per più di venti ore in laboratorio, ricordargli
gli appuntamenti in agenda la mattina a colazione, cucinare per entrambi come
una vecchia mamma choccia pompata di steroidi e via discorrendo.
Forse voleva farsi perdonare
qualcosa, qualcosa che per la sua mente così deliziosamente retrograda era più
o meno assimilabile ad un peccato mortale.
Quale che fosse la ragione, Tony ne
vide comunque il lato positivo: Steve era riuscito a mandare una mail senza
ingolfare il tuo terminale marchio Stark di virus che sarebbero risultati
ostici persino al Dottor House.
Helicarrier.
Sala Riunioni
Zona
di Volo Sconosciuta –Presumibilmente Europa.
Oggi.
Braddock aveva una capigliatura tanto
gialla e tanto accesa che Tony si chiese istintivamente per quale motivo non
stesse riflettendo i neon sopra le loro teste.
Il sopracciglio di Stark si era
inarcato nel vedere Bryan ritto accanto all’enorme vetrata del ponte di
comando. Capitan Bretagna aveva tentato di svecchiare la divisa sostituendo
agli attillati calzoni bianchi e alle galosce da pirata in pensione un paio di
pantaloni neri –Sempre, ridicolmente aderenti- e stivali di pelle scura stretti
al polpaccio da spessi legacci, ma il risultato, a modesto parere di Stark, ricordava
più il costume di uno spogliarellista di Soho che la degna divisa da Guardiano
dell’Omniverso.
Certo, non assomigliava più ad un
valletto e, grazie a Dio, nemmeno ad un fantino, però…
Nemmeno a dirlo, Steve aveva apprezzato
quella nuova mise con la stessa aria di soddisfatta approvazione da Wedding
Planner dai modi leziosi, di quelli che si vedevano saltellare tra tulle e
chiffon sui canali satellitari.
C’era da aspettarselo, comunque: la
mancanza di gusto in fatto di abbigliamento doveva certo essere un requisito
fondamentale di ogni supereroe portabandiera che si rispetti. Tony continuava a
preferire la propria armatura e trovava con tutto il cuore quella paccottiglia
da negozio da souvenir fosse perlomeno indecente.
…A meno che non fosse addosso a
Steve. Oppure lanciata via su qualunque superficie disponibile dopo essere
stata addosso a Steve, ma quelli erano pensieri poco casti e poco puri e, da
come lo stava redarguendo col solo assottigliarsi della bocca, Rogers li aveva
appena indovinati tutti.
Fury fece correre lo sguardo dall’uno
all’altro, le dita intrecciate dinanzi al volto e i gomiti appoggiati sul
tavolo circolare.
Il figlio di Howard avrebbe dato
chissà cosa per avere Barton accanto con cui tirarsi frecciatine e battute o
Bruce per parlare di argomenti ben più interessanti rispetto ai nuovi modi che
il Direttore aveva inventato per sgozzarli uno per uno. Gli sarebbe andata bene
persino Natasha o Thor e i suoi salamelecchi Asgardiani –Ma soprattutto la sua birra Asgardiana. Il giorno che l’aveva
portata per festeggiare non si bene quale ricorrenza delle sue parti, Tony aveva
scoperto nel suo cervello una gamma di colori che andava dal giallo fluo al
fucsia amarantato.
Il Direttore prese fiato per informarli
circa la loro futura condanna a morte, ma Braddock lo prevenne: si tese in
avanti, il volto squadrato trasfigurato dall’astio.
Tony si scambiò un’occhiata fugace
con Steve: nessuno di loro aveva mai visto Capitan Bretagna così maldisposto
verso qualcosa, nemmeno quando il figlio di Odino aveva detto di preferire il
caffè americano ad una sana ed aristocratica tazza di Twinings.
«Prima che questa riunione abbia
inizio» esordì, la mano chiusa a pugno «Voglio che sappiate come io abbia
scelto di condividere certe informazioni unicamente
in rapporto a quanto è successo.»
Un silenzio inaspettato si rovesciò
nella stanza, tanto che persino Steve s’agitò a disagio sulla sedia,
schiarendosi la gola e appoggiando le mani sulle ginocchia; Stark piegò la
testa sulla spalla, il casco dell’armatura in grembo, l’espressione
concentrata, gli occhi attenti, curiosamente interessati all’atmosfera nervosa
che vibrava sghignazzando tra il Direttore e Bryan.
«Devo ricordarti, Braddock, che
l’uomo che stai difendendo è considerato un pericolo per la sicurezza dell'Impero Britannico?» Fury arcuò le sopracciglia, il tono non ammetteva repliche di sorta.
«Con tutto il rispetto, Direttore» ribatté «Il Torchwood lo considera
tale. Io non sono Torchwood, né lo rappresento in alcun modo.»
«La tua Regina lo ha dichiarato nemico della Corona!»
Rogers si mosse di nuovo. Tony si
voltò a cercare il suo sguardo e quando lo vide modulare in silenzio la domanda
Impero Britannico?, lui gli rispose
con un’alzata di spalle.
«Era il 1879» precisò Braddock, a
denti stretti «Ed era la Regina Vittoria.»
L’espressione di Steve era
impagabile, ma per una volta il figlio di Howard non ne approfittò –Avrebbe
rincarato la dose una volta tornati alla Tower- e alzò semplicemente la mano.
«Anch’io avrei una rimostranza da
fare.» annunciò.
Tre paia di occhi si girarono a
guardarlo, allibiti, curiosi, ironici –Bhè. Non proprio tre paia di occhi,
bisognava considerare che uno dei presenti era una sottospecie di bucaniere con
scarso controllo della rabbia e una passione maniacale per il controllo.
«Spero che sia un buon motivo quello
per cui ci avete portato qui. Stavo guardando Perfect Score e mi avete interrotto proprio---»
«Union Jack è scomparso.» Bryan,
lapidario, fissò lo sguardo su un punto imprecisato alla propria destra.
Stark riabbassò la mano e roteò gli
occhi su Steve: il volto s’era fatto terreo, le labbra livide, la mascella
contratta e sotto i guanti, il magnate
ne era certo, le nocche erano sbiancate tanto erano stretti i pugni.
«Come è successo?» domandò il
Capitano, la voce incolore.
«Braddock, vuoi cortesemente…?» il
tono di Fury non nascondeva una palese nota di sarcasmo, ma Capitan Bretagna lo
ignorò con tutta la flemma aristocratica e inglese di cui era capace: tirò un
lungo, profondo respiro e prese un foglietto ripiegato davanti alla sua
postazione. Lo strofinò incerto tra i polpastrelli, lo sguardo indurito aggrappato
agli angoli rovinati e stropicciati.
Era ingiallita, notò Tony aggrottando
la fronte, segno che, qualunque cosa fosse, o ci avevano versato sopra del
caffè oppure era al mondo da parecchio tempo.
Finalmente, Braddock si decise ad
aprire il biglietto.
«La
tua vita potrebbe dipendere da questo» lesse, alzando di quando in quando
gli occhi sugli astanti «Non battere
ciglio. Non battere nemmeno le palpebre. Se lo fai sei morto. Sono veloci, più
veloci di quanto tu possa credere. Non voltare loro le spalle, non distogliere
lo sguardo e non battere ciglio.» un istante raggelato «Buona fortuna.»
Per alcuni secondi, scomparvero
finanche i rumori.
Stark raddrizzò le spalle, il respiro
bollente dentro la gola; Fury aveva l’espressione di chi aveva ragionato su
quella frase più e più volte, arrovellandosi su ogni singola lettera, su ogni
singolo ordine, consiglio o comunque lo si volesse chiamare o considerare;
Capitan Bretagna pareva un condannato a morte sul punto di recitare le ultime
volontà; Steve era di granito. Era rigido, pallido, marmoreo.
«Che cosa significa?» domandò, primo
fra tutti a rompere il silenzio «Che vuol dire?»
Il Direttore s’alzò e si posizionò di
fronte ai vetri che davano sui corridoi metallici dell’Helicarrier. Le luci
asettiche del soffitto colavano dal suo volto come gocce di pioggia,
disegnandovi sopra rughe che nessuno, Agenti o Vendicatori che fossero, avrebbe
mai immaginato potessero esistere.
«Abbiamo fatto ricerche, a riguardo.»
spiegò, intrecciando le dita dietro la schiena «Controlli incrociati, parole
chiave…Questo è ciò cui il nostro lavoro ha portato.» si voltò di scatto,
raggiunse il tavolo a grandi falcate e schiacciò una mano sul bordo: dal centro
esatto esplose un triangolo azzurro e bianco rovesciato, stringhe di pixel,
laser, colori a creare un rettangolo sollevato di almeno mezzo metro sopra la
superficie del piano.
Una parete di fondo marrone, forse
legno, forse tappezzeria, e davanti ad essa il mezzo busto di uomo in trench,
occhiali dalla montatura nera e corti capelli castani, sollevati sulla parte
destra del volto, ritti sopra la fronte.
«Hanno
preso la cabina blu, non è vero?» la voce registrata uscì metallica,
concitata. A giudicare dalla qualità del sonoro, non era certo un prodotto di
prima penna «Gli Angeli hanno la cabina telefonica.»
Una pausa e Steve ne approfittò
subito per intervenire.
«Angeli? Cabina telefonica?» sbuffò una risata vibrante di rabbia «Fury, se
questo è uno scherzo…»
«Sono
creature di un altro mondo» riprese la registrazione e a Stark non sfuggì
il lampo soddisfatto che aveva attraversato gli occhi di Fury nel vedere di
nuovo tutti attenti, come bravi scolaretti prima di un’interrogazione «Solo quando le guardi.»
«Aspetta. Fury, manca un pezzo» Tony
piegò la testa verso di lui «Questa registrazione…»
«…Non è stata fatta per un colloquio
unilaterale.» Bryan annuì «Era un botta e risposta, ma non abbiamo idea di chi
sia a porre le domande.»
«Ma chi sono questi Angeli?» ripetè il Capitano, al limite
della sopportazione «Cosa sono?»
«Assassini
solitari, si chiamavano.»
Rogers sobbalzò sulla sedia, Stark
sbarrò gli occhi. Braddock lanciò uno sguardo incredulo a Fury, che aveva
assunto più o meno la ieraticità di una statua egizia.
Quella piega degli eventi, a quanto
sembrava, nemmeno lui era riuscito a prevederla.
«Nessuno
sa da dove siano venuti. Sono vecchi come l’Universo, o giù di lì. E sono
sopravvissuti così a lungo perché hanno il miglior sistema di difesa mai
sviluppato: sono quantum-bloccati. Non
esistono, quando sono osservati. Nell’attimo in cui vengono visti da una
qualunque altra creatura vivente, si cristallizzano in roccia. Non hanno
scelta, è una caratteristica della loro biologia. Sotto lo sguardo di qualunque
cosa vivente, si tramutano letteralmente in pietra. E non puoi uccidere una
pietra.»
Steve assottigliò le palpebre.
«Queste…cose. Questi “Angeli”…» s’umettò le labbra con un guizzo veloce
della lingua «Sono loro ad aver preso Union Jack?»
«Non abbiamo dubbi a riguardo.» il
Direttore si sedette sul bordo del tavolo, le mani posate sul ginocchio destro
«I dubbi sono tutti per chi ci ha permesso di accedere a queste informazioni.»
«Che intende dire?»
«Mi sono state consegnate da un
signor Nessuno.» rispose Bryan, incrociando le braccia al petto «Sei anni fa,
al Beatles Coffee Shop.»
Finchley Road, NW8 6EB, Londra.
Beatles
Coffee Shop.
2007
Il locale non aveva aperto che da
pochi giorni, ma Bryan era già considerato da Richard e Irina un cliente
abituale: si sedeva al tavolo davanti alla vetrata, ordinava una fumante tazza
di thè e poi, se l’ancora esigua clientela lo permetteva, si fermava volentieri
a parlare col signor Porter, dall’andamento del Manchester in campionato ai
bizzarri avvenimenti che da troppo tempo coinvolgevano Londra.
Fra
tutti, Richard non riusciva a dimenticare il Natale del 2005, la
gigantesca nave che aveva solcato il cielo, le persone ritte sul ciglio dei
tetti e dei grattacieli –Aveva quasi rischiato di perdere Irina, in
quell’occasione- o il raggio sibilante saettato non si sa bene da dove e che
molto probabilmente aveva ridotto il mezzo di trasporto del nemico a brandelli
di lamiera aliena.
Bryan lo ascoltava con piacere,
annuiva alle sue ipotesi e nascondeva un sorriso dietro l’orlo della tazza: non
poteva certo rivelargli di conoscere la persona che aveva a che fare con quegli
episodi.
O meglio, era a conosceva della sua
identità –Se di identità si poteva parlare, quando ci si riferiva al Dottore-,
ma non vi aveva mai parlato faccia a faccia.
Aveva sì bypassato i sistemi di
sicurezza dell’Istituto Torchwood per ottenere più informazioni –La magia di
cui disponeva era stato un aiuto fondamentale-, aveva bazzicato molti forum che
trattavano dell’argomento, si era infiltrato in compagnie più o meno balzane
che correvano da una parte all’altra di Londra alla ricerca della cabina blu,
si era egli stesso trovato la strada sbarrata dal residuato anni sessanta che
era punto cardine della figura del Dottore, ma mai e poi mai aveva avuto un
contatto diretto con lui.
Quando, quella mattina uggiosa, così impregnata
dell’amarognolo retrogusto londinese di pioggia e umidità appiccicaticcia, vide
un uomo col cappuccio della felpa calato sulla fronte e spessi occhiali da
sole, lo stomaco si strinse di riflesso.
Braddock si fermò a pochi passi
dall’entrata del locale e attese che l’altro alzasse lo sguardo su di lui;
l’uomo, fino a quel momento intento a leggere un libro, le spalle appoggiate al
muro del Coffee Shop e le dita a coprire parzialmente il titolo sulla
copertina, sollevò la testa.
Sorrise.
«Ti stavo aspettando.» esordì, la
voce intenzionalmente bassa «Sei in orario perfetto.»
Bryan dovette ricordarsi di
respirare.
Era il Dottore? Era davvero lui? Sapeva che negli anni aveva
cambiato viso più volte –Per quanto non avesse ancora capito esattamente come-, quindi il margine di dubbio di
restava. Che fosse…?
«Da quanto mi stavi aspettando?»
«Dal 1981» il tono s’era incupito.
Chiuse il volume con uno schiocco,
affondò la mano libera dentro la tasca del giaccone di pelle marrone che
indossava sopra la felpa azzurra e gli porse una busta.
«Non aprirla fino a quando Union Jack
non sparirà» lo ammonì, nel mentre che Bryan l’afferrava con mano appena
percorsa da un tremito «Quando accadrà, dovrai chiamare due persone, solamente le due persone che ti dirò,
anche se ti sembrerà una follia. E non ti biasimerò per questo: anche io non
volevo crederci.»
La busta era leggera, bianca e
immacolata: non un francobollo, non una scritta se non il Bryan Braddock vergato con grafia precisa e sicura sul retro.
Braddock alzò la testa verso il proprio interlocutore e lo squadrò dalla testa
ai piedi.
«Quando succederà?» chiese,
sventolando la lettera «Quando scomparirà Union Jack?»
L’uomo s’umettò le labbra con un
guizzo veloce della lingua.
«Non posso rivelartelo. Così come tu
non puoi in alcun modo avvertire Joey Chapman del destino che lo attende. E
soprattutto, per nessuna ragione al
mondo, dovrai aprire quella busta» la indicò con indice e medio tesi, quasi
stesse dandogli un vero e proprio ordine «Prima di allora»
«Perché?»
L’altro storse un poco la bocca, non
per cattiveria o fastidio, ma con l’espressione di chi non ha la benché minimaidea
di come rendere semplice la spiegazione.
«Perché…Ahm.» agitò un istante le
mani «E’ una…grossa palla di traballante
e traballosa…roba…temporaleggiante.»
Helicarrier.
Sala Riunioni
Zona
di Volo Sconosciuta –Presumibilmente Europa.
Oggi.
«Certamente,
una pietra non può nemmeno uccidere te, ma poi giri la testa…batti le
palpebre…e oh, sì che può! È per questo che si coprono gli occhi. Non stanno
piangendo, non possono rischiare di guardarsi l’un l’altro. La loro più grande
risorsa è la loro più grande maledizione. Non possono mai essere guardati.»
Fury interruppe la registrazione e,
non fosse stato per il pesante rumore dei sospiri, sarebbe sembrato che tutti,
nessuno escluso, si fossero ritrovati cristallizzati in una bolla al di fuori
del tempo stesso.
«Siamo risaliti a questo filmato grazie
ad un forum sugli Easter Egg…» cominciò a spiegare, ma Tony smise di ascoltarlo
quasi immediatamente.
Pressò tra loro le labbra. Strizzò le
palpebre.
Pensa, Stark, pensa.
C’era qualcosa, qualcosa che non andava. Mancava il collante del quadro generale,
il punto di partenza di quel qualunque-cosa-fosse
che tanto gli stonava nel riepilogo mentale della situazione. Tornò a guardare
lo schermo, l’espressione bloccata dell’uomo all’interno di esso.
Li aveva messi in guardia.
Li aveva messi in guardia perché qualcuno aveva permesso allo
S.H.I.E.L.D. di arrivare al filmato.
Lo S.H.I.E.L.D. era arrivato al
filmato perché, grazie alle parole chiave della lettera, erano riusciti a
risalire al forum dedicato agli Easter Egg e al discorso completo –Errata
corrige, completo solo per la parte che riguardava le risposte, ma non le
domande.
A consegnare la lettera allo
S.H.I.E.L.D. era stato Capitan Bretagna, ma a consegnare la lettera a Capitan
Bretagna era stato un signor Nessuno che…che…
«Sapeva esattamente come si sarebbero
svolti gli eventi...» mormorò.
«Come hai detto, Stark?» lo interrogò
il Capitano, levatosi in piedi senza che lui se ne fosse accorto, intrappolato,
incastrato da un marasma pressoché infinito di elucubrazioni mentali e, sì, temporali. –Era un futurista, dopotutto. Era un inventore,
poteva prevedere il futuro. Poteva vedere come sarebbe stato il mondo. Poteva
vedere di cosa il mondo avrebbe avuto bisogno
perché il futuro meritasse di essere vissuto. Vedeva quello di cui si sarebbe
avuto bisogno e inventava quello che
li avrebbe portati là.
Se qualcuno giocava col flusso delle
cose, era il primo a sentire puzza di bruciato.
«Il tempo, Capitano. Il tempo.» cacciò gli occhi nel viso
contratto di Capitan Bretagna, e capì di aver colpito nel segno. Il sorrisetto
astuto di Fury non fu che un’ulteriore conferma. «Chiunque sia costui» puntò il
dito contro lo schermo «Sapeva esattamente come si sarebbero gli eventi, cosa
sarebbero successo. Dal futuro ha messo le mani avanti nel passato per
garantirci il presente.»
Si accomodò meglio sullo schienale,
pascendosi dell’odio che Braddock gli stava riversando contro.
«Ora, le domande fondamentali sulla
Vita, l’Universo e Tutto Quanto sono due.» spallucce «In realtà tre, ma della
prima abbiamo già la risposta: quarantadue.» la citazione passò sotto silenzio
e Tony sibilò un ignoranti tra i
denti stretti in un sorriso cortese «Dunque. Cominciamo dalla più semplice, o
relativamente tale: perché, se il nostro uomo sapeva oltre ogni lecito dubbio
che tutto questo sarebbe successo, se tu,
Bryan Braddock, eri a conoscenza della sparizione di Union Jack…Perché non
avete fatto nulla per fermarlo?»
Si sarebbe aspettato una protesta da
parte di Rogers per il tono irriverente nei confronti di un Guardiano
dell’Omniverso, ma gli occhi di Steve stavano ragionando su di un altro
sentiero, vagando su un diverso orizzonte a tinte in seppia, e la cosa a Tony
non piacque affatto.
«Avrei causato uno strappo nella
struttura dello spazio-tempo, causando la distruzione di due terzi dell’Universo.»
Capitan Bretagna si portò una mano alla fronte, i tratti del viso più vecchi e
stanchi della realtà stessa «O almeno, è quanto mi ha detto lui quel giorno.»
«E questo, amici miei, ci porta
all’ultima questione» Stark batté senza gioia alcuna le mani, provocando uno
sconquasso rumoroso e metallico per tutta la stanza «Chi è lui?»
Bryan irrigidì la mascella, deglutì.
Non rispose. Imperterrito, continuò a guardare il foglietto abbandonato sotto
la luce liquida dello schermo.
«Il Dottore.» disse per lui Fury e Braddock mostrò i denti, serrando
impotente il pugno sul tavolo.
«Il Dottore…chi? Una specie di Reed Richards?» il magnate corrugò la fronte e
il Direttore scosse il capo.
«Il Dottore e basta, nessuno sa quale
sia il suo nome, né se ne abbia uno. Persino lo S.W.O.R.D. non è mai stato in
grado di ricavare informazioni in più a riguardo. E l’Istituto Torchwood ha
perso molti dati in seguito all’invasione dei Cybermen.»
«Aspetta un momento, Fury.» Capitan
Bretagna lo stava guardando incredulo «Lo S.H.I.E.L.D. si è infiltrato nel database del Torchwood?»
«La cosa ti stupisce, Braddock? I
tuoi poteri di Guardiano sono strabilianti, ma non sottovalutare i nostri
hacker.»
«Cybermen?» Tony allargò le braccia
«Mi state dicendo che quegli affari non erano il principio di un coma etilico?»
Steve gli mise una mano sulla spalla
e per fortuna che il figlio di Howard stava indossando l’armatura, altrimenti
le dita del compagno lo avrebbe sicuramente trapassato da parte a parte.
«Chi è il Dottore?» chiese e le parole
parvero uscire da un angolo remoto della gola, uno strimpellio goffo,
inaccurato e inesperto delle corde vocali.
«Fury» esalò Braddock «Non---»
«E’ un viaggiatore del tempo.»
accennò allo schermo «Lo dice in una parte del video.» all’espressione di furente
incomprensione che Rogers si era appuntato in faccia –Tony non poteva vederlo,
né intendeva alzare la testa per controllare, ma sapeva, Dio, sapeva benissimo
quanto gli stesse maledettamente a cuore l’argomento “tempo” -, Fury premette
un tasto comparso dal nulla sul tavolo.
Lo schermo tremolò, la bocca del
Dottore si mosse, ma non emise suono, la registrazione tornò indietro in un
bisbiglio di nastri invisibili e traballanti interferenze bianchicce.
«La
gente non capisce il tempo.» parlò di nuovo «Non è quello che voi pensate sia. È complicato. Molto complicato.» esitazione,
gesticolare di mani, le spalle si alzarono, passò la lingua sulle labbra «La gente pensa che il tempo sia una mera
progressione di cause ed effetti, ma in realtà, da un punto di vista non
lineare e non soggettivo, è più…una grossa palla di traballante e
traballosa…roba…temporaleggiante.»
«Non gli è uscita molto bene»
commentarono in coro Capitan America e Capitan Bretagna, provocando nel secondo
un moto simile allo spavento, e in Stark un reflusso di acidi intestinali.
«Ma guardali. I gemelli siamesi.»
sputò.
Steve alzò la mano a chiedere
possibilità di parola.
«Supponiamo che tutto questo sia vero…»
«Tutto questo è vero, Capitano. Il Dottore è citato in fonti ancora più vecchie
dell’atto di fondazione del Torchwood.»
«I vostri hacker hanno compiuto un
lavoro lodevole, Direttore.»
«Lo prenderò come un complimento,
Braddock.»
«Non lo è.»
«Oh, giusto. Solo gli inglesi possono
immischiarsi negli affari degli inglesi, dico bene? I panni sporchi si lavano
in famiglia, dentro secchio puzzolente riempito fino all’orlo d’acqua del Tamigi»
«Basta così!» gridò Rogers e sbatté
le mani sul tavolo, tendendosi in avanti con occhi che mandavano lampi e
provocando un sussulto unanime in Fury, Braddock e Stark –Stark che, alla sua
reazione, cominciava a sentire lo stomaco torcersi in fiamme roventi di rabbia.
«Come?»
e furia e disperazione, nella sua voce, si mescolavano in egual misura.
Il Direttore lo osservò secondi,
quindi passò la mano su una tastiera digitale emersa attorno al precedente
pulsante di rewind. Il rettangolo contenente l’immagine del Dottore si
assottigliò fino a sparire, lasciando spazio alla riproduzione digitale di una
cabina telefonica blu elettrico, un modello della polizia inglese risalente
agli anni Sessanta.
«Questo.» spiegò Fury «E’ il TARDIS.
O almeno» piegò la testa verso la spalla «Così la chiamano in quei siti da
maniaci e negli archivi del Torchwood. È una sorta di acronimo, ma le ipotesi sul
suo significato si sprecano.» rizzò la schiena e incrociò le braccia al petto
«Il TARDIS, Capitano, è la sua macchina del tempo.»
Tony raggiunse lo sguardo di Steve,
ma fu come vedersi riflesso sulla superficie a specchio di un vetro scuro.
Le viscere ruggirono d’un mugghiare
feroce, irato.
Finchley Road, NW8 6EB, Londra.
Beatles
Coffee Shop.
2007
«Non ti è uscita molto bene» commentò
Bryan e l’uomo gli regalò un sorriso di pallido divertimento.
«Prendi anche questo.» disse e gli
consegnò quello che a prima vista era un semplice portadocumenti in pelle nera.
Braddock la rigirò tra le dita un
paio di volte, l’aprì e corrugò la fronte: davanti a sé aveva solo un
rettangolo di carta completamento bianco.
«Cos’è?» chiese, scuotendo appena la
testa.
«Carta psichica. Io ne ho una di
riserva.» batté la mano sul giaccone, all’altezza del cuore «Quella tienila tu.
E fanne un’altra copia.»
Bryan rise e allargò le braccia.
«Perdonami…?»
Quello non era il Dottore. Quello era
un pazzo, un mitomane o qualcosa del genere –Eppure, eppure qualcosa in fondo
all’anima dubitava di ogni dubbio, la fiducia nell’uomo che aveva davanti gli
risultava più naturale che respirare.
«Puoi farlo e lo farai. Fidati di
me.» un altro sorriso «Oltre a questa, puoi usare i dati del Dottor Rajesh
Singh, in un database di riserva appartenente all’Istituto Torchwood.»
«Tu conosci il---»
Il suo interlocutore alzò la mano, a
chiedergli silenzio.
«La password è Void Ship. Qualunque cosa voglia dire…» ammise, in un’espressione
di scuse sincere e finanche un poco imbarazzate. «Quando avrai anche la copia,
consegna entrambe a chi ti dirò…»
Helicarrier.
Hangar Secondario.
Zona
di Volo Sconosciuta –Presumibilmente i cieli di Londra.
Oggi.
«Union Jack è scomparso nei pressi di
un cimitero poco fuori Londra.» Steve assicurò lo scudo grazie alle cinghie
ancorate sulla schiena «C’è un pianoro dove atterrare col Quinjet, a nemmeno
cinquecento metro da lì.»
Nessuna risposta e il Capitano si
voltò per accertarsi che Tony lo stesse ascoltando, ma il compagno era più
preso a contemplare il suo riflesso sul casco che a prestargli attenzione. Il
briciolo di fastidio che aveva sentito crocchiolare dentro le ossa scemò nel
cogliere l’espressione a frantumi che il figlio di Howard portava negli occhi.
Gli si avvicinò senza comprendere
appieno il motivo di tanto abbattimento, ma abituato com’era ai suoi sbalzi
d’umore, gli prese le spalle e lo costrinse con dolcezza ad appoggiargli la
schiena protetta dall’armatura contro il torace. Tony s’abbandonò alla cosa con
straniante indifferenza e non fece una piega nemmeno quando Steve si chinò a
sfiorargli la tempia sinistra con le labbra.
Confuso dal quel comportamento
decisamente fuori dalla norma anche per uno come Stark, il Capitano optò per
circumnavigare il problema e tendergli un agguato silente, passo dopo passo.
«A quanto pare ci perderemo la puntata
del David Letterman Show.» tentò con un sorriso incerto «Peccato. Domani sera
c’è proprio quell’attore che dici assomigliar---»
«Ti ho visto, prima.»
Una stoccata al fianco probabilmente
avrebbe fatto meno male del tono con cui Tony si era girato ad affrontarlo. Il
Capitano deglutì e arretrò, colpito come da uno schiaffo in pieno viso: gli
occhi del compagno erano stretti, affilati, gelidi; la rabbia gli percorreva la
mascella in scosse nervose sempre più frequenti, le labbra erano esangui, la
fronte imperlata di sudore freddo.
Stava faticando a contenere un’ira
crescente di cui Steve non riusciva a spiegarsi l’origine.
«Prima…?»
Ma se anche il figlio di Howard aveva
sentito la domanda, continuò a sibilare senza curasi di protesta alcuna,
infettando di bile ogni parola che gli usciva dalla bocca torta in una forma
grottesca, infernale.
«Dio! Dio, quanto sono stato…ingenuo.» quasi ringhiò «Io credevo,
credevo davvero…! E invece! Nulla, sono stato un idiota, un ingenuo, avrei
dovuto saperlo! Io sono un palliativo,
vero? Nient’altro che un palliativo.»
Il sangue ribollì nelle vene, latrò,
s’agitò, il sospetto strisciò nel cervello, un tarlo mordicchiò ghignante
l’orecchio. Se Steve resistette all’impulso di rispondere per le rime alle
accuse non pronunciate, ma marchiate a fuoco nello sguardo Stark, fu per
l’autocontrollo creatosi dopo tanto tempo passato in sua compagnia.
«Cosa stai blaterando? Stavo pensando
a Joey, a ciò che gli è successo!»
Non fu certo la scelta di termini più
appropriata, quella. Un ragionamento successivo, sciorinato con se stesso a
sangue freddo, gli dimostrò che nessuna
scelta si sarebbe mai rivelata appropriata in quella situazione. Eppure, lì per
lì avvertì il terreno franare sotto i piedi all’esplosione di furia cieca che
lo travolse in una fantasmagoria di grida ingiuriose.
«Blaterando?!
Non mentire! Non osare nemmeno, non
pensarci nemmeno a sfruttare Chapman come scusa! Cristo Santissimo, Rogers,
pensavo che saresti caduto in ginocchio a pregare quel Dottore da strapazzo di
venirti a prendere seduta stante! Pensavo ti saresti consumato le corde vocali
a suon di implorarlo di riportarti indietro! Di riportarti da lei!» Tony mostrò i denti come una
belva, i pugni lucenti d’oro e titanio che vibravano colpiti dai bagliori
singhiozzanti dei neon.
In un diverso frangente, Steve
avrebbe reagito in maniera proporzionata alle invettive di Tony, ossia
sbraitandogli contro tutta l’insopportabile ed assurda stupidità che trapelava
da quelle macchinazioni al limite del ridicolo. In un diverso frangente, Steve
l’avrebbe affrontato a muso duro, piazzandogli in faccia la realtà dei fatti,
ossia una convivenza effettiva sebbene taciuta, una stanza da letto condivisa,
una storia rivelatasi per entrambi destabilizzante e totalizzante allo stesso
tempo.
…In un diverso frangente.
Quello non era un diverso frangente e Steve si ritrovò ad
abbassare gli occhi prima ancora di aver coscienza della propria, muta
ammissione di colpevolezza. Perché, sì, era vero, il passato gli era balzato
addosso all’improvviso quando Fury aveva parlato della possibilità di viaggiare
indietro nel tempo, quando aveva raccontato del TARDIS e di questo fantomatico
viaggiatore del tempo privo di nome ed identità. Aveva ripensato a tanti
inverni di mille inverni prima, al rimpianto e al rammarico, a mille futuri che
non avrebbe mai potuto vivere al fianco di Peggy, le mille pacche sulle spalle
che avrebbe potuto scambiarsi con Bucky, mille cipressi ad ombreggiare i mille
sassolini bianchi di un sentiero infinito, unico tra i mille che l’uomo può
percorrere nella vita.
Aprì la bocca, ma dalla gola non gli
uscì che un suono sottomesso e roco.
«Non l’hai mai dimenticata, vero?» la
voce di Tony –Il cui volto, appena il Capitano ebbe alzato la testa per
incontrarlo, era trasfigurato da un tristezza più tremenda della disperazione,
da un dolore più cocente della delusione- era tanto ferito che Steve si chiese
come mai le labbra e i denti e il Reattore Arc non avessero preso a sanguinare
«Non l’hai mai dimenticata davvero. Io non sono abbastanza. Non sono mai stato abbastanza per te. Io sono
soltanto…un addobbo per riempire il patetico vuoto della tua esistenza. »
«Ho baciato Peggy prima di salire
sull’aereo che mi ha portato qui…» bisbigliò Steve, aggrappandosi ad uno
sguardo sempre più distrutto, sempre più infranto «Amavo Peggy. Mi sono
svegliato settant’anni dopo senza smettere di amarla. Lei è stata tutto il mio
mondo quando tutto il mio mondo era crollato.»
Poi
qualcosa è cambiato fu
sul punto di dire, di correggere, di completare, di non cadere, di non
annaspare, di non affogare, ti prego, ascoltami, ascoltami, ti prego…Stark, la
faccia più fredda del metallo che indossava, lo superò a falcate violente;
schiacciò con un pugno il tasto che permetteva l’apertura dell’hangar
secondario, costringendo ad agguantare di scatto le manopole di sicurezza
piantate nelle pareti.
Da sopra lo scroscio del vento, Tony
abbaiò una risata amara, preludio di un pianto che l’orgoglio non avrebbe mai
permesso di scoppiare.
«Quel tizio era davvero ubriaco,
dopotutto!» latrò, scuotendo il capo e indossando il casco con un singulto
ferreo d’agganci.
«…Chi?» s’arrischiò a chiedere Steve,
chino, teso verso di lui in un richiamo tanto silenzioso quanto spasmodico.
Iron Man si volse di tre quarti a
guardarlo, gli occhi ridotti a sottili rettangoli azzurri incastonati in una
maschera scarlatta.
«Un tizio, alla premiere di un film.
Sei anni fa.» e la sfumatura asettica che il sistema di comunicazione del Mark
dava alla voce di Tony rendeva la frase più affilata e tagliente di un coltello
«Mi diede un foglio con scritte le coordinate di un postaccio sperduto nel Polo
Nord. Il postaccio sperduto nel Polo Nord dove stavi tu, Rogers. Peccato che un magnate russo mi abbia preceduto. Che
fortuna sfacciata, eh?»
Il Capitano tenne le palpebre
sbarrate per l’orrore, nonostante il vento che gli mordeva la cornea,
nonostante il vuoto che gli mordeva il cervello.
Stark scosse la testa.
«Sai cosa mi ha detto quello
schizzato? Lo sai?» la domanda trasmutò in grido «Lui è lì che ti aspetta, Tony. Sta aspettando la persona giusta da
tutta una vita e la aspetterà per tutta una vita ancora, se sarà necessario.
Anche se lei non verrà. Quella persona sei tu. Che valanga di idiozie.»
strinse le manopole dell’armatura «Dopo questa missione, Rogers, tu te ne vai
dalla Tower. Non voglio più rivedere la tua faccia ipocrita in giro per casa mia. Intesi?»
Senza dargli il tempo di ribattere,
Iron Man si lanciò nel vuoto e saettò tra la nuvolaglia grigia, lasciando
dietro di sé solo il soffio aranciato dei propulsori.
Il portellone dell’hangar si
richiuse.
Le spalle di Steve crollarono e, non
fosse stato per l’appiglio bollente sotto i guanti, lui stesso non sarebbe
stato da meno. Chinò il capo e serrò le palpebre, il silenzio a rombare,
rimbombare come un’eco infinita di perdita nel cranio. Batteva a ritmo col
cuore rallentato, asciugava il sangue nelle vene, impregnava il respiro di
vetriolo e veleno.
Pensa
alla missione, soldato. S’impose Pensa
solo alla missione. Pensa solo a Union Jack. Pensa solo a combattere –In
una recondita parte della mente, dove dominava la logica di Steve Rogers e non
gli ideali di Capitan America, riverberò il pensiero che non avrebbe voluto
partecipare ad altra missione, in quel momento, che non a quella di combattere
per Tony.
Emise un sospiro sconfitto e si portò
una mano alla fronte.
«Steve…?»
Rogers sobbalzò per la sorpresa e si
girò con tale veemenza che Bryan indietreggiò per l’imbarazzo.
«Io…Ah. Mi dispiace. Non volevo ascoltare.»
Braddock abbassò la testa, contrito «Né è mia intenzione mettere in dubbio
quello che provi riguardo la scomparsa di Union Jack. So bene che non è un modo
per nascondere…altro. E riguardo a te e St---»
«Non importa.» lo interruppe Steve,
alzando una mano a bloccare ulteriori tentativi di scuse che in quel momento
non aveva la forza di gestire. «Cosa volevi dirmi?»
«Sì. Ahm. Il nostro signor Nessuno mi
ha ordinato espressamente di consegnarli a te.» il Guardiano gli porse quelli
che al Capitano di primo acchito parvero dei libriccini rilegati in pelle nera,
ma si rivelarono, ad un secondo esame, due semplici portadocumenti. Dentro di
essi, un innocuo rettangolo di carta bianca.
Cimitero
Cattolico.
Pressi
di Londra.
Oggi.
Il cimitero non era poi così
infinitesimale come era sembrato dall’alto dell’Helicarrier o forse erano i
sensi di Steve, amplificati dalla discussione appena avuta e sollecitati dalle
ombre che andavano chiudendosi sopra la propria testa, ad essere vittime di una
fantasia claustrofobica e marcescente.
Le tombe tappezzavano la distesa verde
smunto, tanti tasselli bianchi, decine e decine di formelle squadrate smangiate
agli angoli, segnacoli oblunghi infissi al terreno molle, tralci d’erba
incrostata di vecchiume, rigurgiti di pozzette stagnanti e cera disciolta.
Iron Man si piazzò nel mezzo del
ghiaino imbellettato di grigiume polveroso, l’armatura che rifletteva il ferreo
contrarsi delle nubi londinesi: bubboni di pioggia enfia scivolavano liquidi
sugli inserti lucidi, statue languenti allungavano disperate gli arti
innaturalmente molli, le dita come artigli fusi sulla calotta dell’elmo.
Il Capitano strinse la presa sullo
scudo, gli occhi che guizzavano da una parte all’altra di quel luogo tanto
cupo.
I cipressi, tutt’intorno a loro,
respiravano fiati roventi di polveri mortuarie, facendo tremolare i rami
rachitici al suono di una nenia sogghignante, le radici che erompevano dal
suolo sudaticcio simili a centopiedi rigonfi di miasmi e ossa sbriciolate. Non
un’anima passeggiava tra le tombe, né una goccia di colore cadeva a
picchiettare un tono più vivo sui fiori appoggiati alle memorie dei defunti
–Bensì spiriti di ben altri tipo, tonalità di ben altro tenore sorvolano le
stradine inumidite dalla pioggia imminente.
«Hai rilevato nulla, Stark?»
Tony impiegò qualche secondo più del
solito a dargli un segno d’attenzione, ma che fosse per problemi tecnici e non
per quanto era accaduto nell’hangar, Steve lo comprese dalla risposta.
«Nulla. Anzi. Qualcosa. Ma è troppo veloce persino per i miei strumenti.»
abbandonò frustrato le braccia contro i fianchi. «Qualunque cosa sia quella che
si sta muovendo, non riesco a tracciarla.»
«Gli Angeli?»
«…E’ probabile.»
Steve pressò le labbra tra loro,
riducendole ad un cordoncino scarlatto conficcato nel viso illividito dalla
tensione. Colse un movimento con la coda dell’occhio, ma quando si voltò a
controllare non incontrò nulla di sospetto: oltre un piedistallo squadrato,
vuoto, solo l’orizzonte brumoso della Londra lontana.
Strano, comunque, che quel gigantesco
dado di marmo non sostenesse nulla se non l’incunearsi color paglia del
pianoro…
«Andiamo» lo chiamò Stark «Union Jack
era nella cappella laggiù quando è scomparso.»
Il Capitano tentennò, allungando il
collo a cercare qualcosa di indefinito oltre il tronco taurino degli alberi.
Verdeggiare di foglie color dell’inchiostro, mozziconi di paesaggio, reticoli
d’ambra, fumi ritorti di corteccia grigia, grigia come pietra, grigia come le
tacche di piume su ali---«Capitano! Mi hai sentito?» Steve si riscosse, si girò
a guardare Tony per dirgli di tacere…Poi si voltò di nuovo e tra i cipressi era
rimasto solo l’ombra.
«Che ti prende, Rogers?»
«Nulla.» scosse il capo «Mi sembrava
di aver visto…Non importa. Fa’ lo stesso, andiamo.»
Avanzarono e scrutarono, scrutarono e
avanzarono.
Le tombe scivolavano barbugliando ai
loro fianchi, tombe di pietra, tombe di marmo, croci, fotografie, sorrisi
stinti riflessi dietro il vetro, ronzare d’api, inchinarsi di fiori
incartapecoriti, lezzo di foglie morte e pioggia viva.
«Per quale motivo non ti riesce di
tracciarli?»
Tony lo guardò e Steve per un
momento, un solo momento, un solo, raggelante momento, vide, dietro al proprio
riflesso sul casco, un volto indistinto di pietra grigia, testa china, ali
piegate, dita a nascondere lacrime inesistenti, una tunica dalle morbide pieghe
cadere ad insozzarsi di rimasugli volanti e foglie isteriche.
Con il grido d’allerta ancora
conficcato in gola, il soldato torse il collo di scatto, il fiato denso nei
polmoni attorcigliati, il sudore che incollava maschera e capelli alle tempie;
una gocciolina gelida colò lungo il naso, spenzolò sopra le narici, s’infranse
tra il pietrisco, sparpagliando all’intorno frammenti di terrore oleoso.
«Steve…?» seppur imbastardita
dall’impianto di comunicazione, la voce non riusciva a nascondere una sana
preoccupazione «Che ti prende?»
«Io…» il Capitano trovò difficile
parlare, la lingua fattasi sabbia rovente dentro la bocca «Io credevo...»
Non c’era più nulla. Forse qualcosa
non era mai davvero esistito e la paura annidata agli angoli degli occhi
giocava con lui un sadico gioco d’ombre cinesi.
«Hai visto qualcosa?»
«…Forse.»
Stark procedette ad un nuovo
controllo.
Da come imprecò metallico tra i
denti, il Capitano comprese che ancora una volta il tentativo di scovare gli
Angeli annidati tra le ombre del cimitero non era andato a buon fine.
«Se si muovono, sono troppo veloci e
non posso tracciarli. Se sono immobili, non differiscono in niente da una
comune statua di pietra e non posso tracciarli. Non ho una firma specifica cui
aggrapparmi e così non posso tracciarli.»
«Anche lo S.H.I.E.LD. e Capitan
Bretagna hanno incontrato gli stessi ostacoli: mi hanno mandato i risultati sul
terminale del Quinjet.»
«Non che mi aspettassi chissà cosa da
Mago Merlino in tenuta da fantino, ma dagli sgherri di Capitan Harlock
qualcosina in più non mi sarebbe dispiaciuta.»
La cappella funebre li sovrastava con
la sua facciata triangolare, sventrata da un portone strombato cui faceva da
corona un timpano arricciolato di inserti marmorei, e incassata tra due
costoloni su cui poggiavano altrettanti bulbi rigonfi –Replicati sulle
semicolonne ai lati del timpano stesso.
L’inferriata era chiusa. Per Tony
spalancarla non fu più complicato che aprire una latta di tonno: un gran gracchiare
di sbarre ed ecco…! la luce polverosa e incolore serpeggiò sul pavimento lucido
a losanghe blu scuro a rifiniture color crema, s’avvinghiò guardinga ai
candelabri d’ottone sbeccato, spensero in un soffio mefitico una debole
fiammella salvatasi dal buio imperante.
«Tony. Ascolta…» Steve lo precedette
sui gradini «Per quanto è successo nell’hangar---»
«Ti sembra che abbia voglia di
parlarne?» ribatté il figlio di Howard, superandolo in un clangore astioso di
metallo e rifiuto.
Il Capitano spaziò con lo sguardo al
confine del cimitero e più oltre, sui rami e tra le foglie.
Diede le spalle al cielo torbido ed
entrò.
L’interno era soffocante, angusto,
che potessero entrarci due persone senza essere costrette a camminare schiena
contro schiena era un miracolo dell’architettura. Lastroni squadrati
s’affastellavano l’uno sopra l’altro, cornici e ritratti, nomi e date, la
superficie bianca tanto lucida che Steve poteva specchiarvisi senza perdere
neanche un dettaglio della propria persona, senza tralasciare un tratto della
figura di Tony ritta dietro di sé.
Di qualunque materiale fossero
costituiti, quei lastroni restituivano perfettamente ogni immagine vi andasse
contro.
«Non so cosa ci abbiano mandati qui a
fare» Stark diede le spalle alla soglia, il volto alzato a contemplare il
finestrone che si apriva sulla parete di fondo della cappella «Né cosa vogliano
che troviamo. Non c’è nulla, qui. Nemmeno un indizio.»
Steve aggrottò le sopracciglia.
Infilato nel vetro sanguigno del
porta-lumini alla propria destra, un pezzetto di carta strappato alla buona,
ingiallito dal tempo, sbranato dagli anni. Il Capitano poggiò lo scudo per
meglio tendere le dita ad afferrare l’innocuo bigliettino, mentre Tony
continuava, inascoltato, la sua arringa.
Srotolò l’appallottolio spiegazzato.
Lo lisciò ai bordi, strizzando le palpebre: l’inchiostro in alcuni punti era
colato, allungando impietosamente la bocca della “o” e facendo scivolare la “i”
oltre il bordo seghettato. La grafia era decisa. Sicura.
Un moto d’orrore.
La grafia…!
Dieci
secondi da ora.
Salva
Tony.
Sbatti
le palpebre.
Si voltò.
Uno.
Tony era di spalle.
Due.
Non
voltare loro le spalle.
Tre.
Lo aveva detto il Dottore.
Quattro.
Tony stava guardando verso l’alto.
Cinque.
Non
distogliere lo sguardo.
Sei.
Non
battere ciglio.
Sette.
Salva
Tony.
Otto.
Gli si parò davanti.
Nove.
Sbatti
le palpebre.
Dieci.
Un’arcata di denti appuntiti, occhi
vacui di iena, dita affilate d’artigli; bocca storta nel ringhio del predatore,
le ali spiegate. L’Angelo incombeva su di loro, li serrava, costringeva contro
i lastroni delle tombe, i riccioli plastici incollati al volto triangolare,
animalesco, contratto da una fame più tremenda e insopportabile della morte, le
braccia alzate a chiuderli, afferrarli, gettarli nel panico immobile del terrore.
Le piume gonfie s’arcuavano a cingere loro i fianchi, l’interno vuoto, roccioso
della gola era una promessa, era una premessa
dell’ultimo grido avrebbero mai lanciato se solo avessero chiuso gli occhi,
anche un guizzo d’istante, uno sfarfallare di secondo a riprendere lucidità e
coraggio.
«Cristo---» esalò Tony e il soldato
poteva sentirne l’armatura grattare contro le lastre tombali tanto vi era
addosso. «Cristo, Steve…!»
Il Capitano tirò un sospiro. E poi un
altro ed un altro ancora, fino a quando il fiato non gli infiammò i bronchi e
gli fece lacrimare gli occhi. Le ciglia tremolarono, le palpebre ebbero uno
spasmo, ma riuscì a mantenerle aperte per una grazia divina che non credeva più
di meritare.
«Come…Come usciamo da questa
situazione, ragazzone?»
Non c’era via di uscita.
Non c’era filo spinato da tagliare,
non quella volta.
L’Angelo li aveva intrappolati.
Doveva solo aspettare. Aspettare che chiudessero gli occhi perché sui lastroni,
di loro, non rimanesse neanche più il…riflesso.
“È per
questo che si coprono gli occhi. Non stanno piangendo, non possono rischiare di
guardarsi l’un l’altro. La loro più grande risorsa è la loro più grande
maledizione. Non possono mai essere guardati.”
…Neanche da se stessi. E la parete
dietro Tony non era poi così diversa da uno specchio. Rimaneva unicamente
l’impedimento del corpo di Stark. Una persona sola sarebbe riuscita a chinarsi
per trarre l’Angelo in un inganno degno di Perseo e la Gorgone, ma due…No.
Insieme erano un ingombro l’uno per l’altro.
Salva
Tony.
Sbatti
le palpebre.
Quella grafia…
«Tony. Quando ti dirò vai! tu chinati, intesi?»
Un movimento di disagio, il gambale
che gli sfiorava tiepido l’interno del ginocchio.
«Cap, non so se l’hai notato, ma ci
sei tu e ci sono e siamo romanticamente bloccati in maniera tale da non
riuscire a spostarci neanche con una carrucola, perciò---»
«Intesi,
Iron Man?» ringhiò il Capitano, facendo valere con l’unica intonazione
della voce i propri gradi di comando.
«Intesi.»
Salva
Tony.
Steve tese il braccio destro all’indietro,
in modo da stringere il polso del compagno tra le dita. L’armatura non era poi
così fredda come la ricordava: un tenue calore, una salda sicurezza gli
sfrigolò ridendo sotto il palmo.
Gli occhi della creatura avrebbero
incontrato se stessi nel riflesso della calotta, una volta che Tony si fosse
rimesso in piedi, dandogli il tempo di svicolare dalla presa di roccia –Se
avesse eseguito gli ordini, avrebbe avuto anche abbastanza spazio per levarsi
in volo grazie ai repulsori- e avere così salva la vita.
«Pronto?»
«Pronto.»
Mollò la presa.
«Tony…?»
«Sì?»
«Mi dispiace.»
Un bisbiglio.
«…Steve?»
Un sorriso che Stark non avrebbe mai
visto.
«Vai!»
Sbatti
le palpebre.
Greater
London W2 2UH, Londra.
Hyde
Park.
Oggi.
Bryan allungò le gambe, le tese oltre
il bordo ricurvo della panchina fino a sentire i muscoli del polpaccio
protestare in un ribollio di dolore crescente. Il verde soffuso degli alberi
bagnava l’acqua del Serpentine Lake, picchiettata di cielo e volo d’uccelli;
risate di biciclette, tintinnare di ninnoli, stridio di corse, stagnola divelta
a rivelare le prelibatezze da pic nic, graffiare di coperte, quadratoni di lana
rossa e blu a soffocare il cuore palpitante dell’erba. Suoni e rumori, immagini
e colori in cui Braddock rifiutò categoricamente d’immergersi, preferendo al
sole del pomeriggio il gusto asprigno del fallimento, più duro da cancellare
della nausea.
Teneva delle foto in grembo e Joey
guardava l’obiettivo della macchina fotografica con sguardo di pura
disapprovazione. Il volto era al solito nascosto dal mascherone della divisa,
ma un filo di sopracciglio inarcato sopra l’orbita rivelava l’espressione
ironica che doveva aver preso possesso del suo volto.
Dannato mascherone.
Union Jack non lo toglieva mai.
Probabilmente, avrebbe negato
quell’onore anche alla Regina.
Braddock sfregò il naso col dorso
della mano e si schiarì la gola, a smantellare il bolo amaro incastrato in
gola.
Chissà se i suoi conoscenti ai
Servizi Segreti Britannici lo avevano visto in faccia almeno una volta.
«Dove sei, Joey?» prese la fotografia
d’archivio, scivolata via dal fascicolo abbandonato lì accanto, un’anonima
cartellina color pulce con una piccola Union Jack stampata in alto, nell’angolo
di destra «Dimmi dove sei, vecchio mio.»
Fury aveva chiesto a lui di chiudere
il file dell’amico, così come aveva preteso da Tony un momento di lucidità e un
briciolo di lealtà nei confronti dei Vendicatori per fare lo stesso con quello
di Capitan America.
Scomparso in battaglia.
Sacrificatosi com’era degno di lui,
com’era sempre stato degno di lui.
«Spero…» un altro colpo di tosse, un
sorriso storto ad impedire alla perdita di bruciare occhi e ciglia «Spero vi
siate incontrati, Joey. So che gli eri amico, Chapman, quindi…Prendetevi cura
l’un l’altro, d’accordo? O Stark mi farà una testa così, quel rozzo americano.»
Il mondo non aveva smesso di girare,
non stava piangendo la scomparsa di uno degli eroi più meritevoli del suolo
britannico, né si dava a facili sentimentalismi per la Sentinella della Libertà.
Il mondo non aveva rispetto, il tempo aveva corrotto col suo incedere
inarrestabile qualsiasi scintilla di morale umana potesse aver mai sperato di
possedere.
«Addio, Joseph Chapman.» il fascicolo
sottobraccio, Bryan camminò fino alla riva del Serpentine Lake e si specchiò
nella viscida tonalità petrolio che l’addensarsi delle nuvole gli aveva
riversato addosso. Rimase col braccio sospeso sulla superficie agitata dal
mormorio del vento, la fotografia di Joey stretta tra pollice ed indice «Addio,
vecchio mio.»
Doveva lasciarla andare.
Deglutì.
Doveva lasciarlo andare.
Un respiro.
Doveva---
«Joseph Chapman? Quel Joseph Chapman? Lo stesso Joseph Chapman che sta nella casa di
riposo al 57-J Merryweather, Winchester, Regno Unito?»
Se Braddock non cadde a pesce tra le
onde, fu solo per grazia di riflessi –E un pizzico di polvere fata, come soleva
prenderlo in giro Joey, nei suoi rari sprazzi di umorismo british. Si voltò ad
affrontare chi l’aveva colto di sorpresa e corrugò la fronte, giacché quello
che gli stava davanti aveva sì l’aspetto di un professore universitario, ma la
definizione di professore universitario
strideva su di lui come unghie su una lavagna.
Il volto di sorridente gioia
bambinesca era incorniciato da capelli castani di media lunghezza, tirati
indietro sulla tempia sinistra e tenuti a formare un’onda fino allo zigomo sul
lato destro del viso; la piega della bocca e l’atteggiarsi saputo e divertito
degli occhi parevano rivelare a chiunque li avesse guardati una conoscenza
vasta come l’Universo, altrettanto antica, in costante apprendimento, però,
colma della disperata solitudine, del feroce dolore che erano il prezzo massimo
del sapere supremo.
Portava una giacca di tweed sopra la
camicia bianca dotata di bretelle, stretta al collo da un farfallino bordeaux;
teneva le mani nelle tasche dei pantaloni alla caviglia, il cui orlo a stento
arrivava a coprire un paio di lucidi stivali neri.
«Come…Come hai detto?» Bryan sbatté
le palpebre più volte: preso com’era a contemplare l’abbigliamento dell’altro,
si era dimenticato di cosa gli aveva detto.
L’uomo sorrise ancora, d’un sorriso
d’antica e giocosa malinconia.
«57-J Merryweather, Winchester, Regno
Unito.» ripetè. Dondolò il piede, calciò via un sassolino con la punta dello
stivale, alzò le spalle ed emise un “Mh!” soddisfatto. «Bene!» esclamò «Meglio
che vada!»
«Andare? Dove?» Braddock si morse la
lingua per evitare una domanda tanto stupida e invadente quando ormai l’aveva
già formulata.
«Oh. Chi lo sa.» l’uomo sollevò le sopracciglia, con espressione
furba «Tanti posti da vedere, sai. L’importante è avere sempre un grido di
battaglia adatto ad ogni occasione.»
«E quale?» chiese ancora, una risata
che gli stava nascendo spontanea sulle labbra.
L’altro ammiccò.
«Geronimo!»
57-J
Merryweather.
Winchester,
Regno Unito.
La
mattina dopo.
«Senti, non capisco perché proprio
oggi!»
La voce della donna era alterata,
acuta. Insomma, un dolore indicibile per chiunque portasse un apparecchio
acustico lì dentro –Ed erano circa i tre quarti della casa di riposo, eh.
«Un impegno, Kathy.»
«Oggi?
Dannato te, hai l’intervista, stasera! Lo show! O te lo sei scordato?»
«…No.»
Joseph Chapman, alias Joey, alias
Union Jack, alias orgoglioso cittadino britannico trapiantato a forza negli
anni Cinquanta, ma nato a Manchester molto, molto dopo, si sollevò penosamente
sullo schienale della poltrona, le orecchie ovattate di peluria ispida e grigia
dritte a ricercare il suono di quel tono tanto famigliare, tanto vivo nella
memoria acciaccata dagli anni.
«Mi scusi, signorina, sarebbe così
cortese da dirmi dove potrei trovare la signorina Margaret Carter?»
Joey battè le palpebre cispose,
ciancicando un nome impastato di saliva e anticoagulanti dentro le guance di
carne cadente.
«Oh! La dolce Peggy?»
«Proprio lei, esatto.»
Affondò le dita gonfie nei braccioli
di cuoio odoroso, si sforzò al limite delle proprie, malandate possibilità per
levarsi in piedi; le giunture gemettero e scricchiolarono, le ginocchia emisero
un boato lavico, i polmoni sfiatarono per la fatica.
«Lei è un parente?»
«No, ma avevo un appunt---»
Ciabattò a passetti claudicanti verso
la reception, strascinandosi dietro l’asta della flebo; il frush frush morbido delle pantofole lo annunciò in pompa magna,
insieme allo sferragliare delle rotelle disfatte dall’uso prolungato.
«Signor Chapman!» strillò
l’infermiera, portandosi le mani bianche e ben curate al volto «Torni a sedere!
Alzarsi nelle sue condizioni…! Roba da matti!»
L’uomo al bancone, accompagnato da
una professionale brunetta in tailleur color crema, gelò sul posto, la giacca
antracite in netto contrasto col biondo luminoso dei capelli che scoprivano la
parte finale della nuca.
«Ah…!» tossì Joseph, in un balbettare
ridacchiante di catarro e stupore «Anche tu qui?»
L’altro si girò lentamente, dapprima
il profilo ornato dal filo dorato della lampada, poi la bocca schiusa, infine gli
occhi azzurri sgranati dalla sorpresa.
«…Joey?»
New York, Manhattan.
Stark Tower.
Notte.
Tony si rincantucciò in un angolo del
divano, un plaid sulle spalle e un tazza fumante tra le mani.
Non era caffè, bensì un beverone
verde ramarro, un intruglio pastoso di erbe medicinali che Steve era solito
preparargli di propria mano quando le troppe bevande stimolanti gli rivoltavano
lo stomaco come un calzino. Rogers assicurava gli avrebbe fatto bene, eliminando
ogni residuo di porcheria sintetica che aveva ingollato per rimanere sveglio a
lavorare in laboratorio.
Lui ribatteva che se non gli era
ancora cresciuto un ficus benjaminus nello stomaco era proprio grazie a quelle
“porcherie sintetiche” che tanto aberrava.
Signore,
ci sarebbe da chiudere il file del Capitano Rogers.
«Muto.» grugnì Stark, chiudendosi un
po’ di più nelle spalle.
Non c’era da chiudere un bel niente.
La questione non era chiusa, non era
chiusa affatto. Oh, gliene avrebbe dette
quattro al Capitano, una volta che fosse tornato. Gliene avrebbe detto quattro,
e poi cinque, e poi sei, gli avrebbe spinto l’indice contro il petto e la
schiena sul materasso, gli avrebbe urlato di tutto e bisbigliato un ansimo
all’orecchio, lo avrebbe insultato e gli avrebbe chiesto scusa mentre
intrecciava le dita alle sue, distesi entrambi nelle lenzuola intiepidite del
suo sorriso, splendenti della sua voce.
Raccolse le ginocchia al petto, la
puzza di sudore che si liquefaceva in pezze scure sotto le ascelle e lungo il
collo. Fuori era la bella stagione, la temperatura alta, eppure lui aveva
freddo, un freddo cane, un freddo che sbranava la ossa e strappava i nervi, un
freddo che non aveva nome, un freddo che non aveva origine, un freddo che non
avrebbe avuto fine tanto presto.
Signore?
«Che vuoi, ancora?»
Perché neanche J.A.R.V.I.S. lo
lasciava in pace? Volevano tutti dirgli qualcosa, tutti dargli appoggio, tutti
fare un gesto carino per lui. Chi li voleva? Chi aveva bisogno della loro
compagnia? Lui aveva solo freddo. Aveva solo troppo freddo…
Sta
andando in onda il programma che il signor Rogers le aveva chiesto di
registrare. Vuole vederlo?
Afferrò il bordo della tazza tra i
denti, con tale violenza da sentir scricchiolare anche la mascella e l’orbita.
«Come ti pare.»
Un lampo silente e lo schermo bruciò
di luce e colori, David Letterman che cianciava qualcosa da dietro il lungo
tavolo e il microfono e le scartoffie, l’attore che somigliava a Steve
comodamente seduto nella poltrona grigia con inserti lignei proprio accanto.
La giacca era chiusa da un bottone
lucido e tondo appena sotto il torace, a nascondere la camicia bianca e parte
della cravatta scura, la cui terminazione puntuta balbettava sui pantaloni in
coordinato ogni qualvolta si muoveva, tendendosi in avanti verso il conduttore,
o quando si ritraeva a gettare la testa all’indietro, oppure batteva
nervosamente le dita sul ginocchio.
Ed era nervoso, parecchio nervoso,
notò Tony colpito da una curiosità crescente quanto inspiegabile: proprio come
Steve, l’uomo tossicchiava se s’andavano a toccare argomenti a lui non
propriamente congeniali, s’umettava la lingua con un guizzo veloce della lingua
se la voce gli usciva arrochita o insabbiata da un accenno di goffo gonfiore
–Sintomo di un particolare che aveva promesso di non rivelare, a volte nemmeno
a se stesso-, se imbarazzato, la punta delle orecchie pizzicava di rosso,
facendole somigliare a due tizzoni ardenti.
Come Steve, se sorrideva non aveva
età e gli occhi erano vecchi, la bocca giovane, la risata innocente, le iridi
specchi di orrori mai dimenticati.
Tuttavia, doveva avere alcuni anni in
più di Steve, perché il compagno non aveva mai avuto le tre rughe disegnate a
tratto leggero all’angolo degli occhi. Però aveva i medesimi calli alle dita,
frutto di intensi allenamenti e figli legittimi di una matita HB, le stesse
cicatrici ai lati delle falangi, ricordo di enfi vesciche scoppiate in un
passato remoto e immemore.
Si mordeva il labbro inferiore come
Steve e come Steve, per scusarsi o chiedere silenzio, alzava la mano destra in
un gesto che non riusciva a nascondere l’imperiosa rigidità militare,
l’attitudine al comando propria di Capitan America.
«Allora, Chris. Dicci un po’…» un
sorriso sghembo traballò sulla bocca sorniona di David Letterman e l’attore in
risposta sollevò le sopracciglia, in un movimento di genuina curiosità di cui
Steve era campione indiscusso «Le testate scandalistiche sono molto deluse da
te, lo sai?»
«Oh.» Chris tentò di modulare
l’espressione più contrita che gli riuscisse, ma gli occhi dicevano tutto il
contrario «Me ne dispiaccio. Ne sono davvero dolente.»
Tony si ritrovò a ridere, proprio
malgrado, del suo vocabolario così deliziosamente desueto –Un groppo alla gola,
una fiammata rovente allo stomaco, “Steve
hai di nuovo fatto esplodere il microonde!” “Oh. Me ne dispiaccio. Ne sono
davvero dolente”, ma gli occhi dicevano tutto il contrario.
«E fai bene! Fai bene!» lo redarguì
il conduttore «Nessun flirt, nessuna paparazzata, tutte le signorine con cui
sei stato visto in compagnia hanno dichiarato di non aver mai…bhè, approfondito
la tua conoscenza. Come mai, ragazzone? Non sarai mica uno di quegli uomini d’altri tempi che corteggiano con fiori
e serenate, vero?»
Stark quasi cadde dal divano, tanto
s’allungò verso lo schermo.
Chris nascose un sorriso impacciato
dietro il pugno chiuso, la punta delle orecchie scarlatte, gli occhi velati.
«In realtà, al mio primo appuntamento
ho davvero portato dei fiori.»
Il cuore del figlio di Howard perse
inspiegabilmente un battito –“Rogers, hai
fatto l’upgrade? Non siamo più negli anni Quaranta.” “Ah. Butto via i tulipani
rossi, allora?” “…Non ho detto questo.”
«Ma non è per questo.»
«E allora per cosa? Avanti, rendici edotti!»
L’attore chinò la testa, un pallido
sorriso gli arcuò la bocca.
«In realtà…» mormorò «Sto ancora aspettando.»
«Aspettando? Aspettando chi?»
«J.A.R.V.I.S.» ansimò Tony «Alza il
volume! Alza quel dannato volume!»
Chris rialzò il volto e gli occhi
azzurri parevano andare a fuoco.
«La
persona giusta.»
Sudbury.
Contea
Middlesex, Massachusetts.
1981.
Il declivio sprofondava in una spuma
oro e rosso all’esplodere del tramonto. Schizzi di sole macchiarono le cime
degli alberi, le foglie piansero lacrime arancio, la terra e l’erba si
bagnarono del turbinio che stritolava l’orizzonte in un rigurgito di fiamme.
Le case della cittadina bruciavano di
nuova, sempiterna vita, le tegole ruggivano, fili e bave di fumo color cenere
s’acciambellavano, pigre e inutili, sopra i comignoli, la Chiesa bianca ardeva
d’un fuoco più caldo della Fede stessa.
Era scoppiato Giugno e lo splendore
della stagione riverberava in ogni dove, ad accogliere con calar di petali e
danze azzurre di farfalle, l’arrivo dell’estate.
Sotto i piedi il terreno era umido,
odorava di promesse e aspettativa. Profumava di lacrime, quelle lacrime che lui
si portava dentro da un tempo ormai privato dei suoi confini, delle sue
limitazioni, un pianto futuro che nel passato diventava sofferenza presente.
Allargò le braccia a spiegare un paio
d’ali invisibili, eteree come il vento. Con quelle, forse, poteva davvero
spiccare al volo: non lo ancoravano alla terra, non era penne e piume di pietra
dura, maligna.
Un muto ricordo lo sospinse in avanti
e si ritrovò a correre ancor prima di aver anche solo formulato il pensiero.
Corse tra l’erba e i fiori, tra i rimpianti e i ricordi, cadde sull’impronta di
un bacio, scivolò in mezzo a corolle piegate dalle troppe carezze, rotolò
immerso fino alla gola di amari litigi e dolci riconciliazioni, desiderate,
bramate, sospirate, ansimate in una bocca lontana e vicina all’insieme, scevra
di sospetti circa il futuro, già pronta ad accogliere un respiro cui
congiungersi, in cui sciogliersi nel frusciare notturno di lenzuola disfatte.
Si fermò come in croce, la schiena
aderente all’erba genuflessa sotto le spalle. Inspirò la melanconia gioiosa
dell’estate, espirò un dolore troppo forte perché le lacrime potessero sperare
di asciugarlo. Le dita corsero tra rametti e zampettii di formiche, i
polpastrelli andarono addosso ad una superficie rettangolare di pelle nera.
Sollevò il portadocumenti e non si
chiese nemmeno quando gli fosse caduto. Non aveva importanza.
Non aveva importanza più nulla,
ormai.
Aprì la piccola cartellina, ma invece
del biancore del foglio vergine, gli occhi incontrarono un documento legalmente
valido in tutto e per tutto, corredato persino di foto e timbro.
Drizzò la schiena.
La data di nascita. 13 Giugno 1981.
Il luogo di nascita. Sudbury, Contea del Middlesex. Massachusetts.
Il nome.
Il cuore perse un battito.
…Il nome!
Quando lesse il nome, quando lo sentì
imprimersi sotto la pelle, quando l’inchiostro della carta stampata gli penetrò
nel sangue, nelle ossa, lungo i nervi, allora capì.
Ogni cosa divenne chiara.
Ogni coincidenza, ogni incontrarsi di
punti e linee altrimenti impossibili da legare l’uno con l’altro.
Sbuffò divertito, gli occhi lucidi,
la gola gonfia.
Gettò la testa all’indietro,
s’abbandonò di nuovo al cullare incantato dell’erba.
Era tutto chiaro! Era tutto ovvio!
Guaì di contentezza.
Abbaiò, latrò, cantò il proprio nome.
Lo gridò fino a che giunse la sera,
lo urlò alle stelle perché lo ricordassero, al vento perché lo trasportasse
oltre il mare e la terra, oltre i fiumi e le distanze.
E quando non ebbe più voce né fiato
per pregare, allora rise e pianse insieme.
Sapeva esattamente come si sarebbero
svolti gli eventi.
9460 Wilshire Boulevard, Beverly Hills.
Oggi.
Alba.
Tony atterrò in un clangore
d’armatura, scheggiando il sentiero pavimentato di bianco che dal piccolo
giardino alberato conduceva ai tre gradini d’entrata e da lì alla soglia vera e
propria.
«Attento. Ci tengo a quella
stradina.» lo riprese una voce divertita alle spalle «Non vorrai mica che ti
faccia causa per danneggiamento di proprietà privata, no?»
Stark si voltò, la calotta del casco
aperta.
Chris Evans lo fissava da sopra il
muretto che circondava la proprietà, una figura impalpabile al languido
risvegliarsi dell’alba. Sorrideva e gli occhi tradivano un pianto commosso; la
bocca tremava e doveva stringerla più e più volte con scatti veloci per
attenuarne il nervosismo, il pomo d’Adamo si solleva e subito ricadeva a ritmo
di muti, pesanti singhiozzi. Stringeva una lattina di birra nella mano destra,
malamente piegata nei punti in cui le dita aveva premuto con forza inaudita;
teneva un ginocchio piegato al petto, l’altra gamba a penzoloni, la punta della
scarpa che sfiorava pigramente i fili d’erba ancora picchiettati di notte e
rugiada.
Il figlio di Howard allargò le
braccia e lo scafandro si schiuse obbediente, lasciandolo libero di avanzare
nella sua direzione; gli si affiancò senza dire una parola, rifiutò la birra
quando lui gliela offerse, si poggiò con la base della schiena al bordo del
muretto.
«Ti è piaciuto lo show?» gli chiese
Chris, piegando il collo a guardarlo da sottinsù.
«Quanto hai aspettato questa volta?»
«…Trentadue anni.»
I rami danzarono piano, a salutare il
sole nascente.
«Ne è valsa la pena?»
«Ne varrà sempre la pena.»
Un soffio di vento ad accarezzare il
petto caldo del giardino.
«Come hai fatto?»
«Tempismo. Gli Angeli Piangenti
ti…mandano nel passato e ti ci lasciano a morire, mentre nel presente consumano
l’energia di tutti i giorni che avresti potuto avere.» incrociò le braccia al
petto «L’ho incontrato, sai? Lui, Mi
ha spiegato la situazione e io…io gli ho spiegato la mia. Mi ha offerto di tornare
indietro. Col TARDIS.» scosse il capo «Non ho accettato.»
Una lacrima rossa colò sulle tegole
del tetto, sgocciolò sulle imposte ancora serrate.
«Sono in ritardo?»
Tony lo guardò, s’aggrappò ai suoi
occhi azzurri.
Chris Evans gli sfiorò la tempia a
punta di dita.
«…No.»
Steve Rogers gli sorrise.
Ho baciato Peggy
prima di salire sull'aereo che mi ha portato qui. Amavo Peggy. Mi sono
svegliato settant'anni dopo senza smettere di amarla. Lei è stata tutto il
mondo quando tutto il mio mondo era crollato
Poi qualcosa è
cambiato. Ho la sensazione di vedere il mondo con occhi nuovi.
Niente sarebbe
abbastanza, temo. Niente.
Mi sembra tutto
troppo piccolo per dimostrare quanto in questo momento mi sembri davvero, finalmente di far parte della nostra vita.
Note Finali
Il
titolo viene dalla canzone “A Thousan
Years” (Se volete ascoltarla, vi consiglio da cover dei Boyce Avenuye),
tema portante di tutta la storia.
Lo S.W.O.R.D. (Sentient World
Observation and Response Department) è
l’agenzia di intelligence il cui scopo è affrontare le minacce extraterrestri
in funzione della sicurezza mondiale. A tenerne le
fila è l’Agente Abigail Brand.
«The Cybermen are a fictional race of cyborgs. Cybermen were
originally a wholly organic species of humanoids originating on Earth's twin
planet Mondas that began to implant more and more artificial parts into their
bodies as a means of self-preservation. This led to the race becoming coldly
logical and calculating, with every emotion deleted from their minds. » (Wikipedia)
Arrivano nel nostro Universo dalla
dimensione parallela in cui sono stati create (2x05, Rise of the Cybermen –
2x06, The Age of Steel), negli episodi 2x12 (Army of Ghosts) e 2x13 (Doomsday)
[E’ durante questi due episodi che è ambientata la prima parte della Fan
Fiction]
Nel film “Captain America – Il Primo
Vendicatore” è stata una nave petroliera russa a cozzare contro i resti dell’aereo
dove Steve era rimasto congelato.
Le parole di Tony circa il "futurista" sono tratte da da Civil War: La Confessione
«The Torchwood Institute (usually referred to simply as Torchwood)
is a secret organization. It was established in 1879 by Queen Victoria after
the events of "Tooth and Claw". Its prime directive is to defend
Earth against extraterrestrial threats. It is later revealed in "Army of
Ghosts" that the Torchwood Institute has begun to use their findings to
restore the British Empire to its former glory.» (Wikipedia)
Canary
Wharf è
le sede ll’Istituto Torchwood negli episodi 2x12 e 2x13.
Capitan Bretagna (Bryan Braddock)
Union Jack
(Joseph “Joey” Chapman)
«La
tua vita potrebbe dipendere da questo..» il discorso è quello pronunciato dal
Decimo Dottore (David Tennant) nell’episodio 3x10 (Blink). Allo stesso fanno riferimento tutte le indicazioni presenti
nella storia che riguardano gli Angeli Piangenti (La spiegazione ultima di
Steve/Chris è parte della medesima spiegazione che il Doctah fa Billy Shipton,
rispedito nel ’69, dove lo stesso Doctah è rimasto intrappolato): http://www.youtube.com/watch?v=LakwV3P3qII
Il Beatles Coffee Shop è un luogo realmente esistente all’indirizzo
qui riportato, realmente aperto nel 2007, realmente gestito da Richard e Irina
Porter.
Allo stesso modo esistono l’Hyde Park e la casa di Chris Evans.
…Sì, a quell’indirizzo. PRENDETE
LE VALIGIE E ANDIAMO
«Ora, le domande fondamentali sulla
Vita, l’Universo e Tutto Quanto sono due.» spallucce «In realtà tre, ma della
prima abbiamo già la risposta: quarantadue.»: Guida Galattica Per Autostoppisti.
Quello che appare a Capitan Bretagna
all’Hyde Park è l’Undicesimo Dottore
(Matt Smith). Ecco. Spero si capisca dalla descrizione.
57-J
Merryweather, Winchester, Regno Unito è l’indirizzo riportato sul file d’archivio
riguardante Peggy Carter che Steve sfoglia in questa clip: http://www.youtube.com/watch?v=Pov4qMSfg9w
Riguardo la carta psichica: Psychic paper was a blank, white
card that had special properties. When shown to a person, it could usually
induce them to see whatever the user wished them to see printed on it. (Doctor Who Wiki)
Chris
Evans è
nato a Sudbury, contea del Middlesex (Massachusetts) il 13 Giugno del 1981. Ha
recitato in film quali Sunshine e Perfect Score.
Ecco, io spero si sia capito la
dinamica degli eventi: Steve viene rispedito indietro nel tempo dall’Angelo
Piangente, assume l’identità di Chris Evans –Come riportato sulla carta
psichica-, lascia il messaggio a Capitan Bretagna, a Stark e a se stesso nella
cappella, invia la mail a Tony sfruttando la propria password e il proprio
codice di casella mail per far sì che l’altro guardi il David Letterman Show e
sia sicuro che recepisca il messaggio e lo raggiunga a Beverly Hills.
Insomma. Come dire. Steve aiuta se
stesso. E il Dottore gli parla di Rajesh e della Void Ship (2x13 -
2x12), permettendo così a Capitan Bretagna di creare una copia
della carta psichica.
Ecco.
In poche parole? Una grossa palla di traballante e traballosa…roba…temporaleggiante.
Le ultime frasi in corsivo sono tratte
da una role fatta con la mia Tony di fiducia.
DON’T BLINK.