Storie originali > Romantico
Ricorda la storia  |      
Autore: Roxar    27/09/2013    5 recensioni
Andrea e Gabriele ignorano la reciproca esistenza.
Pur vivendo entrambi nello stesso, piccolo paese abbarbicato sulla costa salentina, non hanno mai avuto occasione di incontrarsi.
Almeno, fino al giorno in cui Andrea non ha dove andare e Gabriele è in ritardo per la Funzione del primo mattino.
Nella pittoresca cornice del basso Salento dei primi anni '80, Andrea e Gabriele si ritroveranno impelagati, loro malgrado, in una catena di eventi avversi che porterà entrambi alla riscoperta di sé e alla definitiva consapevolezza di voler consacrare le proprie vite nient'altro che ai loro sentimenti.
[Tematiche delicate, quali l'omosessualità e la Chiesa; maggiori note all'interno | Slash]
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Autore

Autore: Roxar
Fandom: Originale > Romantico
Titolo: Nessun Dio
Personaggi: Andrea Quarta, Don Gabriele De Giorgi
Coppie: Andrea/Gabriele
Tipologia: One–shot
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Romantico
Rating: Giallo
Avvertimenti: Slash, Tematiche delicate
Intro: Andrea e Gabriele ignorano la reciproca esistenza.
Pur vivendo entrambi nello stesso, piccolo paese abbarbicato sulla costa salentina, non hanno mai avuto occasione di incontrarsi.
Almeno, fino al giorno in cui Andrea non ha dove andare e Gabriele è in ritardo per la Funzione del primo mattino.
Nella pittoresca cornice del basso Salento dei primi anni '80, Andrea e Gabriele si ritroveranno impelagati, loro malgrado, in una catena di eventi avversi che porterà entrambi alla riscoperta di sé e alla definitiva consapevolezza di voler consacrare le proprie vite nient'altro che ai loro sentimenti.
NdA: ATTENZIONE! La storia è opera di fantasia in ogni sua parte. Ogni riferimento a persone, cose, luoghi o fatti è puramente casuale. I temi trattati non mirano in alcun modo a ledere l'altrui sensibilità, né vogliono offendere la Chiesa Cattolica o scoraggiarne la frequenza o l'affiliazione.
Nel testo sono presenti espressioni fortemente dialettali – quali troncature e coniugazioni verbali errate – volte a conferire ulteriore veridicità alla storia.
Il paesino che fa da background (San Sebastiano Ionico), inoltre, è fittizio, così come tutti i suoi abitanti.
Ultimo, ma non veramente ultimo: sono tante le persone a cui ho rotto l'anima con questa storia, ma le ringrazio tutte di cuore, in particolar modo la mia Venerabilissima Madre e la mia Puccevole Nonna per aver contribuito a colmare le mie lacune in fatto di vita negli '80.
Ultimissimo: ho prestato la massima attenzione nell'affrontare questi temi estremamente delicati. Ancora una volta, mi auguro di non aver offeso l'altrui sensibilità e, nel caso, non era voluto.
Passo e chiudo.

 

____

 

Nessun Dio

Chi sono io, per giudicare?
–Papa Francesco I

1.

 

Gabriele sollevò l'abito talare che, puntualmente, s'infilava tra le gambe, attentando alla sua incolumità e rischiando, svariate volte, di mandarlo a gambe all'aria, ad impattare contro i lisci sampietrini, così ingannevolmente stabili, così duri contro la pelle. Era irrimediabilmente in ritardo; secondi in eccesso che lo seguivano lungo la viuzza acciottolata, che aumentavano vertiginosamente ogni qualvolta un abitante faceva capolino dalla finestra spalancata per salutarlo e strappargli una benedizione. Era curiosa e un poco sfrontata tutta quella fede che i credenti – gli abitanti – solevano riporre in lui. Come se fosse stato Dio Onnipotente sceso in Terra. Come se non fosse stato un suo semplice, umile servitore, un affiliato tra mille pronto ad onorare la Missione. Cercavano il suo perdono, la sua misericordia, come se fosse egli stesso Dio. Non capivano che la sua Missione era intercedere e servire, non sostituirsi. Non capivano che il Padre era ovunque; bastava solo chiamarlo e lui, da Signore Misericordioso, sarebbe accorso, nelle più sottili e insospettabili forme, ma pur sempre presente.

E poco contavano tutte le volte che Gabriele aveva cercato di palesare questa verità; nessuno lo aveva ascoltato, non veramente, almeno.

Continuando a correre come molto poco si conveniva ad un clericale, sollevò la mano per detergere la fronte umida di sudore e spingere indietro i riccioli scuri, decisamente troppo cresciuti. Giunse all'ennesimo, antico bivio, da cui emanava un sentore di pietra, polvere e sole, esitando. San Sebastiano Ionico era la culla di tutta una vita spesa tra quelle mura sbiadite e porticine di legno sbrecciato, era il paesino abitato da novecento anime che mai, mai aveva avuto cuore di abbandonare, se non per il breve di formazione in seminario. Aveva come impresso nella memoria ogni via, ogni vicoletto angusto, ogni spiazzo, ogni scoglio acuminato sotto lo strapiombo sopra cui poggiava, eppure capitava, talvolta, che la sua mappa mentale presentasse dei punti ciechi, macchie di inchiostro che creavano una certa incertezza su quella o questa strada da prendere. Era come quella sbiadita cicatrice sul collo: ne conosceva l'esatta forma e ubicazione, ma si sorprendeva sempre a distorcere le labbra in una smorfia di sorpresa ogni volta che le dita la sfioravano e pizzicava. Si sforzò di rimuovere la macchia di dimenticanza da quella sua cartina scolpita tra un neurone e l'altro, imboccando infine Via Einaudi, costeggiata da alte case ammaccate e così stretta che ai loro abitanti sarebbe stato sufficienti allungare una mano per salutarsi, sotto un rettangolo di cielo azzurro incastrato tra le file parallele di tetti.

Corse lungo la salita e quando questa iniziò ad affievolirsi, tramutandosi in discesa, uno scorcio di Ionio baluginò non poi così lontano, azzurro e sbaffato di schiuma bianca. Calibrò la pressione delle vecchie scarpe nere, slittando un paio di volte sui sampietrini traslucidi per imboccare, infine, Corso Nuovo, asfaltato di recente.

Tutto quello che seguì si sfaldò in un abisso di confusione che Gabriele non avrebbe mai saputo rimettere insieme, negli anni a venire. Un ronzio monotono in avvicinamento, il suono di un clacson e la voce di un uomo prima che le gambe, in un istintivo movimento, arrancassero all'indietro, prima che i piedi incespicassero, trascinandolo giù, i palmi delle mani strinati dall'asfalto grezzo. Solo quando riaprì gli occhi s'accorse d'averli chiusi, per paura o istinto, non avrebbe saputo dirlo.

Una Vespa bianca se ne stava riversa poco più in là, il motore ancora miracolosamente acceso e sputacchiante e un giovane uomo disteso accanto ad essa, con la mano tremula premuta sulla fronte.

– Padre Onnipotente! – esclamò, inciampando nella veste nel mentre che tentava di rimettersi in piedi e soccorrere il giovane.

– Stai bene, sì? – domandò, prendendo il ragazzo sotto braccio, il quale lo allontanò in malo modo con la mano imbrattata di sangue. Gocce scarlatte vennero scaraventate sull'abito nero.

– E poi dicono che la Chiesa dovrebbe aiutare il prossimo. A morire, magari – rilevò, scoccandogli un'occhiata bieca, rialzandosi. Gabriele si torse le mani, in pena per quel ragazzo un po' ammaccato ma, fortunatamente, vivo.

Era giovane, notò, pressappoco della sua stessa età. I lunghi capelli neri cadevano in ciocche scomposte sulle guance arrossate dal vento e dal caldo gentile, coprendo parzialmente gli occhi chiari, tagliati in un'espressione irritata e seccata. Si ritrovò, contro ogni suo volere, ad indugiare sul viso del ragazzo, più di quanto sarebbe stato prudente o educato fare. Distolse immediatamente lo sguardo, arrabattandosi per trovare qualcosa da dire. Come scusarsi per aver provocato un incidente stradale, lieve, certo, ma pur sempre un sinistro.

– Sono mortificato. Sinceramente mortificato. Posso accompagnarti in ospedale.

– No, – rifiutò, facendo leva sulle braccia nude per rimettere in piedi la Vespa ammaccata e scrostata, – non ce n'è bisogno. Un momento: tu sei un prete – disse, come se avesse improvvisamente notato la tunica nera o ricordato qualcosa di molto importante. Gabriele allargò le braccia.

– Sei quello della chiesa di San Paolo?

– Quello che è ufficialmente in ritardo, già – confermò, ripulendo il quadrante del sobrio orologio da una lieve patina di polvere. Le lancette formavano un angolo ottuso sulle sette e una buona metà del paese, con tutta probabilità, aveva già preso posto nelle panche di legno, armata di libriccino delle preghiere e ventagli neri per refrigerare il viso dalle prime calure estive. Attendevano il suo ingresso da un momento all'altro e qualcuno magari era già in piedi, pronto a salutare un parroco che stava contravvenendo, suo malgrado, al proprio dovere.

– Senti, ti stavo cercando. Ho bisogno...

– Perdonami, sono mortificato, ma devo proprio andare, adesso. Vieni dopo la Messa, va bene? Scusami ancora – lo interruppe, stringendogli la mano e caracollando via, lungo Corso Nuovo, fiancheggiando il basso muretto di pietra leccese, unica protezione dalla scarpata sottostante, dove il fianco ripido ammantato di erba verde incontrava la scogliera accoccolata nel mare. All'orizzonte si profilò il contorno morbido della chiesa di San Paolo, piazzata strategicamente su una soffice altura. Da quella distanza, il vialetto di rossa terra battuta non era altro che una cicatrice pallida in un paesaggio altrimenti verdeggiante e uniforme.

Michele e Antonio, i due giovanissimi chierichetti, attendevano sulla porta della canonica. Agitavano le mani, volò perfino qualche spintone. Litigavano.

– Don Gabriele! – esclamarono, correndogli incontro visibilmente sollevati.

– Svelti, svelti, che non c'è tempo – li redarguì bonariamente, con quel sorriso indulgente e spontaneo che non riusciva mai a non dispensare.

– Ma, Don Gabriele, che hai fatto alle mani? – domandò Antonio, allungando il collo per vederci meglio. Gabriele rivolse le mani in alto, trovandole graffiate e imbrattate di sangue, polvere e residui di asfalto. Linee incrociate e rettilinee ne scorticavano la pelle, bruciando a contatto con la brezza fresca del primo mattino.

– Niente, niente. Forza, forza – li sospinse giocosamente con i dorsi, badando bene a non toccare le candide tuniche bianche.

Un quarto d'ora più tardi, mortificato, prese posizione dietro l'altare, ribadendo più volte le proprie scuse. Sopportò i mormorii diffidenti di chi aveva appena trovato un succulento argomento di cui spettegolare, come si conveniva alla maggior parte degli abitanti, e attese che scemassero. Quindi sorrise, iniziando a celebrare.

 

 

 

 

2.

 

Soffiò sull'ultimo cero, inspirandone volontariamente il fumo. Era un odore che aveva imparato ad amare molto presto, da bambino. Era il profumo dolciastro che associava alla nonna materna, prima sostenitrice del suo cammino religioso, nonché unica figura familiare che aveva riempito la propria vita. Ne rivide, sotto le palpebre chiuse, il sorriso incerto, che curvava come il suo, un po' sbilenco sulla destra, la fragile pelle maculata delle mani tremule e piccole, il neo sulla guancia dove molte volte le sue labbra di bambino si erano posate, dando e ricevendo affetto. Inspirò, ritrovando lo spettro del suo profumo: limoni e menta, quella piccola e verde che coltivava nel giardino dietro casa. E sebbene molte primavere fossero trascorse dalla dipartita, Gabriele provò un accentuato spasmo di dolore al petto, che colò fin nello stomaco, gelandolo.

Abbila in grazia, Mio Signore, tienila al tuo fianco, pregò, chinando un poco la testa, solo per sollevarla bruscamente al suono di un impatto contro una delle panche. In fondo all'unica e centrale navata, svettava, contro il bagliore del giorno che colmava il portone spalancato, l'ombra nera di un uomo, la cui mano sfregava contro la coscia, massaggiandola come per lenirne il dolore.

– La Messa è finita – tentò, cercando di imprimere alla sua voce un tono dispiaciuto ed educato.

– Lo so. Mi hai detto tu di venire, no?

Quella voce... Familiare, ma poco salda nella memoria per poterla etichettare. L'uomo avanzò, le mani ben calate nei calzoni blu, le maniche di camicia sollevate a scoprire gli avambracci. E solo quando fu debitamente vicino lo riconobbe – capelli scuri, occhi verdi, un taglio rigonfio all'altezza della tempia, dove la testa aveva impattato contro l'asfalto –, provando una singolare sensazione, come di vertigine allo stomaco. Perplesso e sorpreso di se stesso, passò la mano sulla nuca; un riflesso nervoso che non aveva mai perduto, nonostante i tenaci tentativi. I riccioli solleticarono le dita, lenendo qualsiasi cosa fosse scesa a stringere, nella pancia.

– Ah, sei tu, – sorrise, allungando la mano, – temo non abbiamo avuto modo di presentarci: Don Gabriele. E tu sei...?

Esitò, l'altro. – Matteo – rispose improvvisamente, stringendo le labbra in quel tipico modo abituale dei bugiardi. L'aveva scoperto sulla propria pelle e assimilato dopo le molte puerili menzogne che sua nonna aveva finito per smascherare una ad una, disimparandolo infine a mentire. Nondimeno, non indagò.

– Ti stavo cercando perché ho bisogno di un posto dove stare per un po', finché non trovo 'n'altra sistemazione.

Gabriele tirò indietro la testa, sinceramente sorpreso dalla richiesta di Matteo, o chiunque egli fosse. Non capitava spesso, da quelle parti, che qualcuno mostrasse una tale sfacciataggine nel chiedere un alloggio. Non capitava mai, invero. Anticonvenzionale, pensò, cucendogli addosso quell'aggettivo che non sapeva se classificare come positivo o negativo.

– Non so come aiutarti.

– Guarda, non c'è problema: mi arrangio pure qua, su una panca o sotto l'altare. Solo per qualche notte, davvero, poi me ne vado.

– Non puoi dormire in chiesa – gli venne istintivo ridere di incredulità, come se quella fosse la richiesta più stupida che avesse mai sentito. Effettivamente, lo era.

– Va be', vedila così: oggi mi sono quasi ammazzato, per colpa tua, quindi devi sdebitarti.

Gabriele si morse le labbra. Sfacciato come nessuno, quel tale Matteo che adesso lo fissava apertamente, con un certo senso di aspettativa e impazienza, le labbra arcuate in un sorriso sbilenco e innocente. Si perse nelle curva di quella bocca, rossa come le fragole che Nenè il contadino vendeva in maggio. Era uno di quei sorrisi, rifletté, che potevano tessere la distruzione di un uomo. Un gesto pericoloso, da cui preservarsi per non corrompersi. Istintivamente, arretrò e Matteo spezzò quella curva rossa di carne e pelle lucida di saliva, salvandolo dal suo imprudente incanto.

– Non hai una casa, Matteo?

Il cambiamento fu tangibile. La posa rilassata del ragazzo s'irrigidì, la schiena si drizzò, il busto girò un poco, in sintonia con le gambe tese, pronte a scappare via. Gli ricordò una di quelle volpi selvatiche che s'aggiravano per la macchia mediterranea, con il loro mantello lucido e le orecchie impennate. Perfino i suoi occhi – verdi, adesso poteva vederli con estrema chiarezza – si rabbuiarono e si strinsero, come a rimirare un punto lontano. E nell'attimo esatto in cui schiuse la bocca per parlare, Gabriele seppe che stava per fuggire.

– Va be', grazie lo stesso. Ciao.

Fu inevitabile. Il suo balzare in avanti, il suo stringergli la mano – un errore imbarazzante, giacché voleva solo afferrargli il polso –, il suo ritrovarsi così vicino a quel viso estraneo eppure, in qualche distorto modo, caro. Accadde. Come era accaduto in precedenza, come sperava non sarebbe più successo. Un'emozione sbagliata e oscura ribollì in pancia – o forse poco più giù – e risalì in gola, fiammeggiante e dolente come bile. Se ne allontanò, imponendosi la calma e adoperandosi per fingere, come poche altre volte era avvenuto, un sorriso cordiale.

– Aspetta. Davvero non hai un posto dove andare?

– Sarei qui, se no?

– Posso ospitarti in canonica, ma solo per stanotte. Va bene?

Matteo annuì. – Grazie.

E lento, come il sole che risale dal mare alle prime luci dell'alba, un sorriso appena abbozzato distorse la piega della bocca. Una nuova, immotivata vertigine alla bocca dello stomaco.

Forse Matteo era sfacciato, ma lui, lui era spacciato.

 

 

 

 

3.

 

– Così, vivi qui.

Matteo piroettò lentamente su se stesso, assorbendo con lo sguardo ogni dettaglio della piccola, piccolissima canonica. Non che ci fosse molto da vedere, Gabriele lo sapeva bene. Sapeva quanto quelle mura, nei giorni peggiori, potessero essere soffocanti, potessero sembrare inclinate e pronte a venir giù, un sepolcro di pietra e calcinacci e polvere. Le amava e le odiava al contempo, erano il suo rifugio e il suo carcere, la sua libertà e la sua prigionia. Così in quella e come in tutte le altre cose, esisteva un'equa spartizione tra ombre e luce, una bilancia astratta e antica quanto il mondo stesso. Come loro, Gabriele era fatto di luci e di ombre. Le amava, in una qualche misura, entrambe, giacché le une non potevano esistere senza le altre. In equilibrio su un filo sottilissimo, retto dalla mano di Dio. Gabriele, le sue ombre, non le temeva più da quando c'era Lui ad indicargli la strada da imboccare o quella da evitare, scritto nero su bianco su pagine piccole come carte da gioco della Bibbia dalla fibra consumata dalle molte notti insonni, dal molto studio e dalle molte preghiere.

– Puoi sistemarti qui – disse, spalancando la porticina di legno di noce, che rivelò il mobilio sobrio e scarno di una camera da letto povera, ma accogliente.

Matteo lo superò, sfiorandogli inavvertitamente la mano con la propria. Non s'accorse dello spasmo nervoso che afflisse il braccio di Gabriele. Lui stesso avrebbe voluto non accorgersene.

Lo vide studiare incuriosito il letto dalle lenzuola pulite e ben incastrate sotto il materasso, il comodino, il piccolo scrittoio sotto la finestra e l'armadio premuto nell'angolo più lontano. Ruotò lentamente su se stesso, come la Terra sul proprio asse, ponendosi infine dirimpetto a lui. I suoi occhi verdi, colpiti da un fascio di luce trasversale, brillarono, ammiccando.

– E tu?

Gabriele sorrise, alludendo infine alla poltrona posta accanto al caminetto, in cucina, ma ben visibile anche da lì. Matteo non parve molto soddisfatto.

– Sicuro? Non starai scomodo?

– Gesù era forse comodo, in croce? – rimbeccò senza cattiveria e senza pedanteria, ritrovandosi tuttavia a citare le parole preferite del suo vecchio insegnante, secondo il quale gli uomini dovevano sopportare i dolori della vita terrena in virtù di Gesù Cristo, la cui esistenza era (momentaneamente) terminata sulla croce di legno, a garanzia della loro e per loro amore.

Matteo sorrise di un sorriso beffardo, scuotendo la testa. E Gabriele capì, non senza una fitta di delusione.

– Tu non credi. Non credi in Dio – disse.

– Facciamo che te lo dico domani. Metti che, se te lo dico, poi cambi idea e mi sbatti fuori?

– Ne dubito – tagliò corto, facendogli cenno di seguirlo nella claustrofobica cucina, nella quale, nonostante la finestra spalancata, ristagnava l'aroma del caffè. Lo invitò a prendere posto in una delle due seggiole mentre s'arrabattava per mettere insieme un pranzo nutriente.

– Sei bravo – si complimentò Matteo quando saggiò il primo boccone di pasta, senza dissimulare una nota di sorpresa. Gabriele si strinse nelle spalle, dispensando uno dei suoi sorrisi involontari. Gli occhi di Matteo indugiarono su di lui per un secondo in più. Fu un singolo attimo, tanto che Gabriele pensò di averlo solo immaginato. Doveva averlo immaginato; le sue ombre non necessitavano di ulteriore nutrimento. Le sentiva soffiargli sul collo, stringergli le gambe e la pancia, innescando nel sangue una sensazione che non avrebbe dovuto esserci, per nessuna ragione, sebbene fosse incapace perfino di darle un nome. S'agitò sulla sedia, addentando un boccone per recuperare la compostezza.

– Non ti ho mai visto in paese; non sei di queste parti?

Matteo masticò lentamente, posando la forchetta nel piatto. Lo vide nuovamente irrigidirsi e serrare la mascella, comportamento che associò alla difesa, ogni qualvolta che qualcuno cercava di penetrare la sua sfera privata.

– Sono stato via parecchio – disse semplicemente, con un tono così definitivo che Gabriele si guardò bene dal porgere ulteriori domande. Non serviva una fede cattolica per nutrire il giusto rispetto nei riguardi dell'altrui intimità.

Consumarono il pasto in silenzio, scambiandosi occhiate di tanto in tanto, che contribuirono tuttavia solo ad agitare Gabriele, il quale rannicchiò le dita nel colletto dell'abito, strattonandolo come ritrovare il respiro. Quando l'altro gli domandò se stesse bene, borbottò qualcosa a proposito del caldo.

– Raccontami di te – volle sapere e Gabriele, che non nutriva alcun riserbo nel parlare di sé, snocciolò dettagli sulla propria vita trascorsa. Le ombre, tuttavia, le tenne ben occultate.

Pescò ricordi placidi e innocui: gli anni del seminario, le amicizie coltivate al suo interno, qualche aneddoto sulla propria infanzia, un breve ma parimenti doloroso accenno alla nonna scomparsa, l'assegnazione della parrocchia di San Paolo, avvenuta contro ogni più cauta aspettativa. Poi, qualcosa di più intimo: l'instillazione della fede, la decisione di sposare Dio fino alla morte, tutto ciò che lo sfrigolio della carta della Bibbia tra le dita suscitava, i modesti desideri circa il proprio avvenire, il sogno di una casa–famiglia dove accogliere i bambini orfani.

– Voglio che la mia Missione lasci un segno – concluse trasognato, gli occhi castani persi nel piatto che non vedevano, puntati ancora più in là, aperti direttamente sul futuro.

Quando si riscosse, Matteo lo stava fissando con una commistione di tenerezza e divertimento in viso, la testa posata sul palmo della mano. Sorrise mentre la mano s'infossava nei riccioli, sfregando contro la nuca.

– Sei un prete fuori dal comune. Sei umano.

– E gli altri non lo sarebbero perché? – rise, attingendo al suo bicchiere di vino.

– Credo che tu lo sappia – sussurrò e si chinò un poco in avanti, fissandolo dritto negli occhi. Talmente chiari che Gabriele non trovò impedimenti nel carpirne i segreti che, deliberatamente o meno, Matteo stava offrendo.

Ombre, pensò.

Quelle dell'altro non erano poi così diverse dalle sue.

Mio Dio.

 

 

 

 

4.

 

Notte.

Appollaiato sul piccolo davanzale instabile della finestra che bucava la parete ovest della cucina, Gabriele gettò delicatamente indietro la testa, fino a posarla contro il sottile stipite di mattoni e intonaco vecchio. Guardava al mare, una drappeggio nero screziato d'argento mutevole, che ammiccava al ritmo docile delle onde rischiarate dalla luna calante. Spirava una brezza salmastra che accendeva i sensi e, al contempo, li cullava. Amava il profumo del sale che s'intrecciava a quello della sera, a quello dell'estate, che sapeva di erba nuova e fiori di campo.

C'era così tanta bellezza che non poteva non amare la mano di Dio. In quei momenti, riscopriva la parte più profondamente religiosa di sé, quella indissolubilmente legata e concessa a Lui. In quei momenti, riusciva perfino a venire a patti con l'altra metà di sé. Lasciò che la mente frugasse nella memoria a lungo termine, sprofondando nel tempo e negli anni, acciuffando sprazzi di una vita fa. Poi, d'improvviso, un ricordo si materializzò sotto le palpebre ora chiuse, risucchiando lo sciabordio languido delle onde e il loro profumo.

Sebbene fosse solo uno spettro prodotto dalla propria immaginazione, sua nonna era bella come lo era stata in vita. La rivide seduta nella vecchia poltrona di velluto blu, calata nel suo miglior abito della domenica, quello nero con un delicatissimo motivo floreale e il colletto bianco. Rammendava i suoi calzini bucati, un sorriso leggero le torceva le labbra. Gabriele – un Gabriele molto più giovane, ingabbiato nel corpo immaturo di un neo adolescente – era curvo sui compiti di scuola, scribacchiava qualcosa al margine di una pagina. Si respirava tensione. Ne sentiva l'odore, che a tutt'ora impregnava quel ricordo.

– Gabriele? – l'aveva chiamato all'improvviso, senza sollevare gli occhi. Le dita maculate continuavano il loro lavoro d'ago, con precisione e cura.

– Che c'è, nonna?

– Quello che sei... – la mano tremò, l'ago indugiò sulla stoffa, – La nonna ti ama lo stesso – concluse e Gabriele trasalì quando gli occhi della vecchia salirono a guardarlo. Dicevano ho capito, dicevano va bene, dicevano non sei un mostro.

Ricordava d'aver azzannato l'interno della guancia per trattenere quelle sciocche lacrime di commozione. Aveva sempre avuto, lei, quella prerogativa di saper guardare oltre. Oltre la falsità, oltre il comune pensiero, oltre i pregiudizi. Forse perfino oltre il suo caro, carissimo Dio.

Sollevò le palpebre, intercettando con lo sguardo il brillio instabile di una stella lontana. Che donna amabile e fantastica era stata, sua nonna. Che donna singolare e discutibile era stata per gli altri, invece. Emarginata in vita, schernita in morte dalla comune ipocrisia. L'aveva a stento sopportato; al confronto, quella particolare parte di sé pareva incredibilmente leggera sulle spalle. Dio l'aveva trovato due giorni dopo il funerale. Aveva sfogliato la vecchia Bibbia appartenuta a lei – la stessa posata sul suo comodino – e aveva trovato consolazione tra le molte, sottili pagine di carta fragile. Rapito, l'aveva letta tutta nello spazio di una notte. L'aveva rigirata tra le mani mentre Nino, il tabaccaio che, di nascosto, gli aveva allungato la prima ed ultima sigaretta, lo accompagnava con la Cinquecento rossa alla volta della città, alla volta di Lecce, pronto ad intraprendere la strada del seminario e, in generale, quella di Dio.

Aveva ancora oggi l'abitudine di aprirla in un punto casuale e inspirarne l'odore, quando le cose andavano particolarmente male. L'odore di inchiostro, carta, limoni e menta lo rinfrancava, tranquillizzandolo.

Strinse i pugni e li schiuse, le dita desiderose di risentire la consistenza di quel libriccino.

Un sommesso crac lo distolse dai propri pensieri, i suoi occhi saettarono nel buio, intercettando solo il profilo snello di un'ombra. Trattenne il fiato quando una nuvola scoprì la luna calante, che riversò il proprio bagliore sull'ombra che non era un'ombra, ma Matteo. Gettò le gambe oltre il basso davanzale, i piedi nudi che battevano passi silenziosi nell'erba soffice. Tirò ulteriormente su i pantaloni e s'assicurò che la canotta bianca fosse ben distesa sul corpo prima di palesarsi, muovendo passi più pesanti e rumorosi. Matteo si voltò, chiaramente spaventato, pronto a scattare in piedi, salvo poi sorridergli – di quel sorriso piccolo e storto – e battere una pacca accanto a sé, invitandolo a fargli compagnia.

– Non dormi?

– Il mare fa troppo rumore – rispose Matteo semplicemente, incrociando le gambe sotto di sé. Con discrezione, Gabriele ne studiò il profilo che la luna rischiarava: naso dritto, labbra lievemente corrucciate, occhi strizzati come per mettere a fuoco un punto lontano e capelli impennati sulla testa, puntati in ogni direzione, retaggio dell'insonnia e del tentativo di lenirla rigirandosi tra le lenzuola fino all'esasperazione. Era bello, Matteo, ma non nel senso convenzionale del termine. Ancora una volta, Gabriele pensò fosse anticonvenzionale. Desiderò allungare le dita e scostare una ciocca caduta sulla guancia, a coprire l'occhio verde che gli era dato di vedere. Strinse il pugno su un ciuffo d'erba, fredda contro la pelle.

– Rumore? – chiese, ascoltando una voce rauca e sofferente che stentava ad etichettare come propria. Perfino Matteo se ne accorse, scoccandogli un'occhiata bieca e perplessa. Si schiarì la gola, abbozzando un sorriso.

– Sì, le onde contro gli scogli... Quelle cose là. – Agitò la mano, usandola quindi per spingere indietro i capelli.

– E tu?, – domandò subito, svicolando, – Perché non dormi?

Gabriele si strinse nelle spalle. Non avrebbe affrontato quell'argomento né con Matteo, né con nessun altro. Un gradevole silenzio si dilatò nel poco spazio tra loro, che Matteo annullò quando smosse le spalle, sfiorando la sua. Strinse i denti, lasciandosi sfuggire un sospiro allarmato. Con cautela, si distaccò delicatamente, discretamente.

– Cosa fai quando hai troppi pensieri per la testa? Parli con Dio? – domandò all'improvviso, strappando un ciuffo d'erba e sfregando le dita per disperderlo nella brezza che spirava da nord. Gabriele osservò l'armonioso volteggio dei fili verdi sospinti dritti nella bocca nera del mare e solo quando sparirono oltre lo strapiombo rispose.

– Leggo, a dire il vero.

– Leggi? Cosa?

– Poesie, generalmente.

– Va be', – esclamò, distendendosi sull'erba, – magari un giorno me ne leggi una. Io non lo so fare – confessò candidamente, voltando la testa per guardarlo. Gabriele badò bene di tenere gli occhi puntati sull'orizzonte invisibile, fuso al mare. Le dita salirono al petto, dove la croce di legno svettava sul biancore della canotte. La rigirò tra le dita, se ne aggrappò come un disperato.

Mio Dio, aiutami. Aiutami a non cadere in tentazione. Liberami dal male, qualunque esso sia.

– Magari – acconsentì in un sussurro che si disperse tra l'erba bassa, scivolando giù fin nelle onde. E quando molte folate di vento ebbero scompigliato i loro capelli, Gabriele si tirò in piedi.

– Vado a dormire. Buonanotte, Matteo.

Lo vide annuire distrattamente, gli occhi verdi – grigi, nella notte – fissi sul mare.

– Andrea – lo sentì dire all'improvviso. Gabriele si voltò, tornò indietro di qualche passo e inclinò un poco la testa.

– Come, scusa?

– Il mio nome è Andrea, non Matteo.

Gabriele avrebbe preferito non saperlo. Gli era appena stato concesso un pezzo dell'altro e non era sicuro che fosse una buona cosa.

Sicuramente, non era una buona cosa il mezzo sorriso storto sulle proprie labbra e quello strano senso di qualcosa che s'addensò in petto. Proprio sul cuore.

 

 

 

 

5.

 

Andrea non andò via il mattino successivo. E neppure quello dopo, o quello dopo ancora.

I giorni si ammonticchiarono, diventando settimane. Le settimane s'accatastarono, diventando un mese, poi due, poi tre. Gabriele contava il tempo. Lo misurava in secondi e sensazioni ed emozioni. Non contava i minuti che lo separavano dal distacco da Andrea, ma quelli trascorsi dal loro incontro.

Contro ogni buon senso, diventarono amici. Gabriele provvide a separarsi dalla cassettiera, sostituendola con una branda ritrovata nella cantina di sua nonna. Condivideva la stanza con Andrea e talvolta chiacchieravano la notte, scambiandosi le vite, fino ai primi bagliori dell'alba. E mentre Gabriele spendeva le giornate in chiesa, Andrea disegnava. Gabriele stentava ancora a crederci, a credere a quanto fosse bravo. Sebbene analfabeta, incapace di leggere e scrivere, Andrea era capace di intessere sul foglio ciò che vedeva, riproducendolo con una dovizia di dettagli che lo impressionavano sempre. A tre settimane di convivenza, Gabriele aveva iniziato a disegnare volti di santi o scene tratte dalla Bibbia. Gabriele leggeva, lui disegnava. La sacrestia si riempì di disegni, così come la camera da letto e l'angusto corridoio che collegava la canonica alla chiesa.

Celebrava la messa del mattino e tutte quelle a seguire. Si sentiva sempre più bugiardo. Sempre più in conflitto con sé. Predicava di Dio, pensava ad Andrea. Percorreva la strada del Signore, cadeva in un baratro di pensieri proibiti su Andrea. Amava Dio, ma lo tradiva con Andrea.

Gli insegnava a scrivere, quindi a leggere. Si perdeva sempre nel guardare la mano sottile vergare lettere goffe, come di bambino, ritrovandola tanto rigida quanto era morbida mentre scivolava sul foglio, facendo sbocciare meravigliose raffigurazioni. Andrea si esercitava, Gabriele confessava le persone, badando però bene di non confessare se stesso. Troppe ombre si erano accumulate tra il cuore e lo stomaco, troppe ombre strisciavano risalendo sino al cervello, sino al cuore pulsante della propria volontà.

Con il protrarsi della loro segreta convivenza – Andrea era stato ossessionato da questo e quando tutti gli abitanti di San Sebastiano avevano scoperto che il giovane sacerdote ospitava il ragazzo, aveva dato di matto, senza mai però spiegare perché – giunse l'estate.

Estate significava porte aperte e finestre spalancate. Giornate lunghe e notti brevi. Calura umida e vento rovente che soffiava dal mare, sbaffando gli scogli di schiuma bianca.

Significava sudare nell'abito talare, alla messa delle undici, e toglierlo alle ventuno, ripiegarlo ben bene sul letto e, cauto come un ladro accompagnato dal complice, scendere giù, fin una nicchia scavata negli scogli, una bocca grigia aperta sul mare, discreta, ma in bella vista. Sprofondare nell'acqua sino in profondità, riemergere senza fiato. Stringere la mano viscosa e bagnata di Andrea per non perdere l'equilibrio, battendo il dirupo a ritroso.

Tre mesi diventarono quattro e l'estate andava raffreddandosi. Andrea sapeva leggere e scrivere, Gabriele cercava disperatamente Dio.

Lo cercava di giorno, quando predicava un passo del Vangelo e Andrea lo fissava dall'ombra della sacrestia, gli occhi verdi e brucianti che sostavano sulla sua nuca adesso scoperta, libera dei ricci che aveva tagliato settimane prima. Lo cercava di notte, quando Andrea gli dormiva quasi accanto e la distanza dei loro letti era tale che spesso, nel sonno, il ragazzo allungava il braccio, sfiorando con le dita il proprio, nudo e sensibile.

I grani del rosario tremavano sempre più intensamente, stretti tra le dita. Quattro mesi e Andrea e le ombre e Signore, aiutami a resistere alla tentazione, aiutami, aiutami, mio Dio non abbandonarmi, aiutami, aiutami a non volerlo.

Estate significava disfatta e scoperta. E giunse nel ventottesimo giorno di agosto.

 

 

 

 

6.

 

– Non credo, no.

Andrea lo disse dopo un lungo sorso di vino allungato con l'acqua, così, senza alcun motivo, al di fuori di qualsiasi contesto. Gabriele depose la forchetta e attese. Non aveva specificato in cosa o chi non credeva, ma non ne aveva bisogno. L'aveva capito da tempo, dopotutto, e neppure quello era stato sufficiente a schiodare Andrea dalla propria mente. L'aveva anzi guardato con una sorta di strano rispetto: non credeva in Dio o nella parola della Bibbia, ma ne riproduceva su carta il contenuto e disegnava santi in preghiera. Sapeva perché lo faceva, ma non ne cercava mai conferma. Non era saggio, né prudente, né giusto, giacché di Andrea aveva capito anche tutto il resto. A sprazzi confusi, aveva rilasciato la propria vita, che Gabriele aveva faticosamente messo insieme. Somigliava alla sua, differenziata dall'assenza di un familiare comprensivo.

– Questo dovrebbe fare la differenza? – chiese infine, mordendo il pane. Era gomma sulla lingua, cartavetro nella gola secca.

Andrea si strinse nelle spalle. E aggiunse: – Non fa differenza nemmeno il fatto che mi piacciono i maschi? Che mio padre mi ha cacciato di casa, per questo? Che adesso a San Sebastiano tutti sanno quello che sono e sparlano su di noi?

E così glielo disse. Nel mezzo di un banalissimo pranzo, senza preamboli o introduzioni. Pensava di essere preparato, solo per accorgersi di non esserlo affatto. Il panino rotolò sul tavolo, precipitando sul pavimento. Gabriele non osava alzare lo sguardo; sapeva che adesso, nei suoi occhi, aleggiava la medesima verità e mai, mai sarebbe stato anche solo lontanamente pronta a condividerla con qualcun altro. Non l'aveva neppure fatto con sua nonna, non veramente, non esplicitamente.

– Gabriè? – lo chiamò, scuotendolo per una spalla. Fu più forte di lui: s'irrigidì, scostandosi. E non solo: commise l'errore di sollevare lo sguardo, incontrando i tanto cari occhi verdi pregni di dolore. Dolore fisico, proprio come se l'avesse schiaffeggiato.

Aprì la bocca per parlare, la richiuse, l'aprì ancora. Non parlò. S'alzò e marciò via, calciando erroneamente il panino ancora gettato sul pavimento, che si scaraventò contro lo stipite, lasciando dietro di sé una scia di briciole e mollica.

Mio Signore, aiutami. Tienimi con te, aiutami a capire, aiutami a restare sulla tua strada. Aiutami a fargli capire che non esiste deterrente per ciò che provo per– Aiutami, aiutami.

Pregò a labbra schiuse, i grani del rosario premuti contro esse, le ginocchia al pavimento duro, gli occhi appuntati al Cristo in croce. Pregò fino a che i fasci di luce colorata che filtravano dalle vetrate non si ritrassero, sostituendosi alle ombre del crepuscolo e, infine, al buio della sera.

E quando anche l'ultimo grano rotolò sulle labbra, successe.

Fu il rumore di vetro frantumato a farlo alzare. Fu il grido di dolore di una voce troppo cara a farlo correre lungo lo stretto corridoio, fino a sbattere la porta d'ingresso e riemergere nella canonica, ansante e terrorizzato. Era lì. Andrea era carponi sul pavimento, la mano premuta contro la tempia – la stessa che, ricordò, aveva già sanguinato, in passato – e l'altra rannicchiata su una piccola cassetta di ferro. La riconobbe. Gliene aveva parlato solo qualche notte prima.

– Questa cassetta... Ci sono tutti i soldi delle offerte. Li raccolgo per, sai, il mio sogno. Aprire la casa–famiglia per gli orfanelli – aveva spiegato, carezzandone la superficie laminata.

S'inginocchiò accanto ad Andrea, stringendogli una spalla.

– Che è successo?

– Ladri, – tossì, tirandosi indietro fino a restare sulle ginocchia, – ma quando mi hanno visto sono scappati.

Gabriele scosse lentamente la testa, incredulo.

– E questa? – continuò, tamburellando sulla scatola di latta.

Andrea non rispose. Si tirò in piedi, ciondolando instabile, aggrappandosi all'abito talare di Gabriele per non cadere. Gli venne naturale stringerlo e pensare a come Andrea si confacesse così bene alle proprie braccia, che lo contenevano senza sforzo, in un perfetto anello di pelle e carne. E Andrea, Andrea lo fissava con una tale intensità che il verde dei suoi occhi pareva innaturale, alla luce del lampadario sbrecciato.

Arrossì. E si sentì uno sciocco, si sentì scaraventato nell'estate dei suoi dieci anni, quando arrossire era facile come respirare. Prima della riscoperta di sé. Prima del controllo sulle emozioni. Prima di tutto.

– Vieni, – mormorò, – hai bisogno di essere medicato.

Adattandosi alla sua neonata zoppia (Ho sbattuto il ginocchio contro la gamba del tavolo, non è niente), lo condusse nel piccolo bagno, obbligandolo a sedere sul water mentre recuperava ovatta e alcol. Divaricò le gambe per farsi vicino, lasciando che quelle di Andrea si perdessero tra le molte pieghe del proprio abito. Il polso batteva così forte da instillare un tremito nervoso nelle mani. Sentiva il cuore contro il petto, contro la pelle delicata del collo, dove la vena pulsava istericamente.

Una stilla di sudore colò lungo la guancia, tradendo il nervosismo. Ma Andrea, che guardava fisso nei suoi occhi, parve non notarlo. Al contrario, cercava di carpire tutto ciò che le iridi scure serbavano. Non avrebbe trovato nulla perché Gabriele non voleva che trovasse alcunché. C'erano ombre, ma ad occhi non suoi erano solo macchie scure senza alcun senso. Eppure c'era una tale ostinazione, scritta nei suoi lineamenti, addensata nella piega della bocca contratta, che Gabriele tentennò, l'ovatta ora rosa e bianca a pochi centimetri dal taglio sanguinolento.

– Perché non gliel'hai lasciata prendere? La cassetta, dico – domandò, deglutendo diverse volte e spostando la propria attenzione sulla ferita. Non più di tre centimetri rosso scarlatto, non più di un paio di rigagnoli sottili che segnavano la guancia, fluendo lentamente. Tamponò lievemente e Andrea tirò bruscamente indietro la testa, esalando un Ah! di dolore.

– Sta' fermo. E rispondi – lo incitò con più durezza di quella che avrebbe voluto. Si scusò. Andrea gli disse di non farlo, ché non c'era bisogno di scusarsi per ogni stupidaggine, come era sua consuetudine.

– Perché era il tuo sogno, no? Aiutare i bambini, no? I soldi ti servono – rispose, dopo un lungo silenzio e molti tamponamenti.

Il batuffolo di cotone scivolò via, affondando senza suono nel vicino lavabo. Sgomento e a bocca aperta, Gabriele avvertì nitidamente la gola serrarsi ad un nodo di emozioni fortemente intrecciate, ma distinguibili, una ad una. Il loro collante era la commozione, che premeva dietro ai propri occhi e faceva tremare il labbro inferiore. Se mai qualcuno gli aveva parlato con tanta leggera dolcezza, con tanto sottinteso rispetto, con tanta pericolosa possessività, non lo ricordava.

Accadde. Quella parte di sé che aveva sempre, sempre tenuto a bada e incatenato nell'angolo più lontano della sua coscienza si liberò delle sue catene, ammantandolo, soverchiandolo. Si chinò fino a sentire il suo respiro sulle proprie labbra. Tremava.

– E qual è il tuo, Andrea?

Andrea chiuse gli occhi. Lo vide deglutire, increspare la bocca in un sorriso. Sussurrò una sillaba, piano, piano, ma Gabriele la ascoltò con il fragore di un tuono. Quello che seguì rimase così impresso nella memoria che dubitava fortemente di poterlo mai dimenticare, in quella e nella prossima vita e in tutte quelle a venire.

Andrea sollevò piano la mano, rannicchiò le dita sul suo collo, spingendolo con lentezza esasperante verso sé. Era calda la sua bocca, come avvicinare il palmo alla candela e impregnarlo del suo calore. Affiorò un ricordo. Un sé quattordicenne, poco prima di partire per il seminario, con una ragazza di cui non ricordava neppure il nome o il viso. Ricordò la sensazione sgradevole che si era diramata dallo stomaco, il disagio, il flash di un viso sotto le palpebre. Un viso di ragazzo, non della lei che stava baciando.

Con Andrea, nondimeno, esisteva solo calore, calore, calore. Se quello era l'inferno, Gabriele avrebbe quasi potuto cedere.

Quasi.

Si scostò quando la lingua di Andrea tracciò il profilo delle proprie labbra, ansimando come un atleta dopo la corsa. Non scappò, tuttavia. Arretrò lentamente, senza guardarlo. A tentoni, rintracciò la maniglia, abbassandola. Solo dopo aver chiuso la porta, scappò. Nell'unico luogo che potesse rinfrancarlo.

Quando varcò la soglia della chiesa, la sillaba risuonò nelle orecchie, amplificata dal senso di colpa.

Tu.

 

 

 

 

7.

 

Si affrontarono nel buio della camera da letto che adesso sembrava impossibile da condividere. Non dopo aver condiviso un bacio. Rubato, meglio.

Andrea lo braccò come un patetico animaletto selvatico, l'abito talare stretto nei pugni, premuti contro la gola. Gabriele non oppose resistenza, giacché aborriva la violenza in ogni sua forma. Si lasciò trascinare come una bambola, inchiodare alla parete.

– A che gioco stai giocando, Gabriè?

– Gioco? – ripeté, instupidito, – Quale gioco? Di che parli, Andrea?

– Io credevo... Credevo che tu... Tu... – farfugliò, improvvisamente incerto, allentando la stretta, ma solo di poco. Gabriele sorrise, di un sorriso mesto e sconfitto e cupo.

–Guarda, – ringhiò, strattonando il collarino ecclesiastico per tenerlo sospeso tra i loro visi – guarda.

Andrea indietreggiò come se l'avesse spintonato. Badava bene di non entrare in contatto con il pezzo di stoffa che l'altro teneva ancora sollevata, come una spada snudata impugnata per difendersi sino alla morte. Gabriele se ne aggrappava disperatamente e per un terribile attimo non seppe più se voleva stringerlo o gettarlo via. Le fondamenta del suo mondo tremarono, distorcendone l'asse. C'era una parete, dietro la sua fronte, nella sua mente, oltre la quale aveva murato tutti i dubbi di una vita. I mattoni esplosero, scaraventandosi via. Le certezze defluirono e il collarino scivolò sul pavimento. Lo fissò come fosse una piccola creatura moribonda. Era in conflitto; voleva Andrea, ma voleva anche Dio. Voleva tenere fede al proprio giuramento, ma voleva anche stringere Andrea, possibilmente per sempre. Voleva, ma voleva anche.

Mio Dio, perdonami.

Gli artigliò il polso. Seguì una breve colluttazione, o qualcosa di molto simile, fatta di grugnii di disapprovazione, strattoni che non li allontanavano, ma li rendevano più vicini. Infine, Andrea si lasciò abbracciare. Ancora una volta, Gabriele riuscì solo a pensare a come si conformasse perfettamente al proprio corpo, a come la differenza nella statura era tale che Andrea incastrava perfettamente la propria testa nella curva della sua spalla, a come le proprie braccia circondassero perfettamente la sua schiena, senza centimetri in eccesso o in difetto. E non era forse anche quella opera della mano di Dio? Non c'era forse un'ironia non trascurabile nel fatto che Lui si fosse adoperato tanto per creare due persone così compatibili ma impossibilitate a stare insieme? C'era un senso, in tutto quello?

– Ho fatto una scelta, Andrea – sussurrò tra i suoi capelli. Profumavano di carta e grafite.

Le sue labbra mormorarono contro il collo di Gabriele. – Allora cambiala.

Tirò indietro la testa, fissandolo negli occhi. Verdi, non come la speranza, ma come la disperazione.

– Scegli me.

Gabriele chinò la testa sulla spalla dell'altro, stringendo forte gli occhi, come quando era bambino ed era convinto che, in questo modo, i mostri sarebbero andati via.

Gli venne da piangere quando capì che, alla fine, non c'è alcuna scelta da prendere o modificare.

 

 

 

 

8.

 

Il mare spumeggiava sotto i suoi piedi, che ciondolavano oltre il dirupo.

L'orlo dell'abito talare sventolava piano. Non sembrava il custode della sua missione, quanto il sudario dei propri desideri. Giocherellava distrattamente con il collarino ecclesiastico, fissandolo come in cerca di una risposta, o un'illuminazione, o la stessa presenza di Dio. Puntò lo sguardo sulla linea sbiadita dell'orizzonte, dove il cielo azzurro digradava nel blu del mare, sbaffato di bianco e rilucente d'argento. C'era così tanta tristezza, in lui, che neppure quel trionfo di bellezza naturale riuscì a lenirla. Non era astratta. Era, anzi, una presenza concreta al centro esatto del petto, proprio dove poggiava la croce di legno scheggiata. Setacciò nuovamente gli eventi della mattina precedente, così indelebilmente incamerati nella memoria.

Si era svegliato dopo una notte assai agitata, turbata da sogni spaventosi e dai colori accecanti, con l'unico desiderio di sciacquarsi il viso, refrigerarlo. Notò immediatamente che qualcosa non andava; era un sussurro sulla nuca, un formicolio che precede un'inevitabile tragedia. Andrea non era nel proprio letto. Le lenzuola non erano sfatte. Il tessuto, quando vi poggiò la mano, era gelido.

– Andrea? – aveva chiamato, ignorando l'affanno del cuore che probabilmente aveva già capito ciò che la mente rifiutava. Si rimpallavano quella scomoda verità, irritandolo e confondendolo. Si aggrappò alla croce che pendeva dal collo, setacciando la casa. Trovò solo un pezzo di carta incastrato tra il tavolo e la ciotola della frutta. Riconobbe la grafia; e d'altra parte, aveva trascorso lunghi, placidi pomeriggi a scrutare la spola di quella mano che vergava le medesime lettere, dapprima goffe e abbozzate, poi snelle e precise.

Lesse le parole, una, due, tre volte, senza mai razionalizzarle. Scivolavano via dagli occhi, via dalla comprensione.

Dicevano qualcosa a proposito di un treno da prendere e di una partenza e qualcosa sul fatto che non poteva restare. Assurdità. Falsità. Menzogne.

Lo cercò ovunque, mostrando perfino l'ardire di bussare a casa dei suoi, i quali si mostrarono invero piuttosto contenti della scomparsa del figlio. Almeno, la madre assecondò i deliri del padre, ma Gabriele non avrebbe mai dimenticato le lacrime nei suoi occhi. Verdi, come i suoi.

Scrutò ogni strada e vicolo di San Sebastiano, indugiando nella piazza, scendendo fin sotto alla scogliera, addentrandosi nella piccola grotta scavata nelle rocce macchiate di sale, trovandola nuda e vuota. Era tornato a casa, ciabattando nelle vecchie scarpe nere che, passo dopo passo, scavavano una voragine sempre più larga, sempre più cupa.

Andrea se n'era andato. Lo accettò quando sedette sull'erba morbida, che s'incastrava nello spazio morbido tra un dito e l'altro. Lo accettò quando fissò il mare del primo pomeriggio, sentendo accanto a sé lo spettro dell'assenza di Andrea, forte come solo la sua presenza era stata. Capiva perché era andato via. Ancor peggio, lo condivideva.

Non avrebbe forse fatto la stessa cosa, se le parti fossero state invertite? Non avrebbe forse trovato d'improvviso intollerabile l'idea di continuare a vivergli al fianco, sapendo quanto il nodo stretto dei propri sentimenti sarebbe infine stato deleterio?

Eppure.

Eppure il campanile della chiesa madre aveva battuto solo pochi rintocchi e già il senso di mancanza dilagava, espandendosi come olio sulla superficie dell'acqua. Eppure continuare senza Andrea era impossibile come imporsi di non respirare: avrebbe potuto resistere solo per un breve lasso di tempo, prima che i polmoni bruciassero per il debito d'ossigeno.

E Gabriele stava già bruciando.

 

 

 

 

9.

 

Non so cosa accadrà adesso. Non so quale strada intraprenderò, non so se esisterà mai un perdono per quelli come me, che giurano e tradiscono.

Non so se il mio Signore avrà pietà delle mie debolezze, se assolverà la mia anima, al momento del trapasso.

Non so se sarò mai capace di convivere con questo spezzato me, fatto di due metà che non riescono più a combaciare. Non so quanto mi mancherà la morbidezza dell'abito talare contro i vestiti, o quanta nostalgia proverò per quel posto dietro l'altare che non mi sarà più concesso di occupare.

Non so quanto, quando e se me ne pentirò.

Ma so che le coincidenze non esistono, so che Dio ha un progetto anche per me. So che se ha inviato Andrea sulla mia strada, allora non devo allontanarlo. So che c'è un senso, qualunque esso sia, ovunque esso sia.

So, adesso, che questa parte di me, quella omosessuale, non è un errore, ma amore. So che mi è rimasta sempre dentro, senza mai ritrarsi, senza mai rimpicciolire. So che ciò che sono lo devo anche a lei.

Perciò, mio Dio, sii indulgente con me.

Sii comprensivo con la mia scelta che è cambiata.

 

 

 

 

10.

 

Andrea tamburellava con le dita contro il vetro lercio dell'Intercity diretto a Roma. Ad occhi chiusi, navigava ricordi che avrebbe dovuto far naufragare. Tendeva i nervi ed esasperava la pelle fino a sentire la pressione delle sue braccia sulla propria schiena, stringeva le labbra sino a sentire quelle di lui sulle proprie. Cercava Gabriele. Incapace di averlo, incapace di lasciarlo andare. Così andava via lui. Aveva organizzato una partenza di fortuna, su due piedi, ed era fuggito nel cuore della notte, raccattato un passaggio sino alla stazione di Lecce, triste, scarna e polverosa, comprato un biglietto di sola andata con i pochi risparmi ammonticchiati, lavoretto dopo lavoretto. Un tubo che perdeva qua, un filo elettrico da saldare là lo avevano infine portato dove avrebbe dovuto essere già quattro mesi prima: esattamente su quel treno, in partenza per la capitale, in fuga dall'opprimente vita di provincia, l'unica cosa che San Sebastiano aveva da offrire, oltre ad un mare blu zaffiro che si spandeva fino a dove l'occhio arrivava a vedere.

Gabriele era stato solo una deviazione che, e si odiava per questo, aveva sperato potesse diventare il corso principale. Ma Gabriele era anche un clericale, un sacerdote. Promesso a Dio, legato a Lui per sempre. C'erano scelte soggette a modifiche a posteriori, ma non quella. Più ci pensava, più non riusciva a scrollarsi di dosso la sensazione che quel voto sapesse di patto diabolico. Pena: la dannazione dell'anima. O qualcosa del genere.

Voleva solo salvare Gabriele, dopotutto. E anche se stesso. Rivide, dietro le palpebre, la sua mano vergare parole sterili e vacue, che parlavano di una partenza e di un abbandono.

Basta!, urlò dietro la propria fronte, Basta, basta. Finiscila. Finiscila e basta.

– Come hai detto che ti chiami? – domandò il suo vicino, un vecchio barbuto stretto in una divisa da lavoro indaco.

– Andrea – mormorò seccato, senza riaprire gli occhi. Qualcosa batteva ritmicamente contro la carena del treno, rumore di carne contro la lamiera. Non vi badò.

– E senti, che, lo conosci quello che sta correndo urlando il tuo nome?

Quasi balzò in piedi, tanto forte fu il sussulto. Effettivamente, dopo un primo, iniziale momento di smarrimento, si rizzò sulle gambe, premendo le mani contro il finestrino. Bastò un'occhiata fuori per spingerlo ad afferrare la propria sacca da viaggio, uscire nell'asfissiante corridoio e sgomitare tra i passeggeri per raggiungere le porte, l'attimo prima che queste si chiudessero alle sue spalle e il treno iniziasse a scivolare, arrancare, sulle rotaie.

Era proprio lì. Blue jeans, maniche di camicia sollevate fino ai gomiti, le familiari scarpe nere ai piedi. Era lui, ma allo stesso tempo non lo era. Niente abito talare, niente collarino bianco, niente croce sul petto, niente rosario tra le mani. Si domandò se non stesse proiettando i suoi sogni ad occhi aperti, ritrovandosi vittima e protagonista della più meravigliosa delle allucinazioni.

– Gabriè? – chiamò, prima di farsi travolgere da un paio di braccia che l'avevano sempre stretto con impensata perfezione. Qualcuno scoccò occhiate biasimevoli e disgustate, altri li fissarono apertamente, perplessi.

– Vieni.

Lo afferrò per una manica, trascinandolo fin nel sottopassaggio deserto e sporco e ombroso. Il neon sulle loro teste ammiccò un paio di volte prima di fulminarsi.

– Ma che stai facendo? Perché sei venuto?

– Perché, – iniziò, tremando, – non esiste nessun voto, nessuna convenzione, nessuna religione, nessun Dio che possa tenermi lontano da te. Ho combattuto questa cosa, ci ho provato con tutta l'anima, ma non era quello che lei voleva. Non era quello che io volevo. Lascerò la Chiesa, Andrea; la mia scelta è cambiata.

Andrea sentì che gli tremavano le dita mentre gli sfiorava il collo, prendendolo tra le mani. I suoi occhi non erano mai stati più lucidi e determinati. E c'era un sorriso, sulle sue labbra, che era estraneo entrambi. E Andrea seppe. Quello era il vero Gabriele, quello stretto nei jeans e nella camicia, così diverso dalla sua controparte ecclesiastica. Quello era l'uomo di cui si era sventuratamente innamorato. L'uomo che si era sfilato la tunica nera e tutto ciò che rappresentava, quello che aveva scisso il diabolico patto. Quello che aveva trovato il coraggio necessario per compiere qualcosa di meraviglioso e terribile. Quello che lo teneva inchiodato al muro lercio. Quello che aveva deliberatamente incrociato le loro strade, deviando la propria per intersecarla con la sua.

Quello era Gabriele.

– Ho scelto te.

   
 
Leggi le 5 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Romantico / Vai alla pagina dell'autore: Roxar