Il nero non
è un colore.
E'
l'assenza di essi.
E'
l'assorbimento di tutti loro.
E' come un
infinito buco.
E' il
vuoto.
C'è
in lui
la paura di essere assorbito, di venir risucchiato da quegli occhi.
Neri,
profondamente neri. Così scuri da mettere in dubbio la
presenza di una pupilla.
"Tremi."
Sono
tocchi, soltanto tocchi.
Ma pare
che, dalle lunghe dita forti, esca della tempera, dell'inchiostro.
Pesante,
opprimente.
Intorno alla
gola, a stringere, stringere – fin dentro i polmoni, ad
opprimerli, a strozzarli
– e gli risulta facile come togliere il respiro ad un bambino
addormentato.
Stai
soffocando, Fullmetal.
"Non
dica cazzate."
Cos'è
più forte in te, l'orgoglio o
il soffocare lento?
"E'
vero."
Detesta che
lui abbia ragione.
"Forse
tremo perchè lei mi ripugna fino a questo punto."
Soprattutto,
detesta dargliela.
"Non
dire cazzate."
Ed è solo
veleno bianco quel che esce dalle labbra, che come un ragno gli cammina
lungo
la gola.
"E'
così privo di idee sue da dovermi perfino copiare le frasi?"
E l’acido
coprirà la sua paura.
"Taci,
cazzo."
Anche le
sue labbra sembrano nere, mentre lo bacia. Lasciano marchi, impronte
indelebili
sul suo viso – bruceranno per giorni, come tracce di un
incendio, e ogni volta
che le sue dita capiteranno lì avrà un sussulto
per il dolore.
Allora il
più giovane non riesce a dischiudere le labbra.
Nero.
Nero.
Nero.
Talmente
tanto da fargli paura.
La bocca rimane
serrata, le labbra come cucite tra loro, e uccide persino le parole, e
i caduti
rantolano sulla lingua attaccata al palato. Le membra non smettono di
tremare.
Contro il
muro non ha possibilità di fuggire.
Sta
soffocando.
Sta
soffocando.
Sto soffocando.
Era
quasi
consistente. Una mano intorno al collo, una tarantola, un tumore.
Un grosso,
enorme cancro che lo stava uccidendo da dentro, mangiandogli gli
organi, i
polmoni per primi, impedendogli di continuare a vivere.
Si sente
così.
Diciott’anni,
l’esperienza del mondo che gli grava sulle spalle come un
macigno – come un universo
intero che concentra tutto il proprio enorme peso sulle sue ossa, rese
forti
dalle continue intemperie (ed insieme fragili, friabili) – e
il tremolio
costante delle membra.
Come aperto
in due.
Il dolore
che si diffonde come una macchia di petrolio – con la stessa,
terribile
velocità.
“Ti fa
male?”
Non ha mai
sentito da lui frasi del genere. Gli sembrano così
terribilmente fuori
personaggio, che gli viene da chiedersi se non sia solo gentilezza
forzata,
dettata dalla situazione, falsa. E questo glielo rende ancor
più odioso.
“Le
interesserebbe?”
Si morde un
labbro e serra gli occhi, cosicché non esca neppure una
lacrima delle cento che
urlano per rotolargli sulle gote.
Il maggiore
sputa un sibilo di strana natura, non disprezzo, come di rassegnazione
– arreso
alla triste constatazione che quello,
quel bambino che recita una parte da adulto che invece gli sta
così male – che
così tanto stona con tutta la sua persona, e non capisce
perché non riesca a
comportarsi come uno della sua età, senza sforzarsi e
rendersi ridicolo,
nuotando in quei pantaloni enormi che sono i trent’anni per
cui si atteggia –,
non accetterà mai un gesto, una parola gentile senza
sospettare alcunché. È
impossibile.
“Non lo
puoi sapere.”
E una nota
di dolore si aggiunge alla sgangherata melodia che cigola nelle ossa
del
Fullmetal.
Non
è vero interesse il suo. Ne sono
certo. Non sono altro che un corpo, per lui. Ne sono certo.
Essendo
Edward votato alla diffidenza con ogni essere umano, non riesce a
pensare altro
che male.
Gli piace
recitare la parte
dell’adulto premuroso. Crede di fregarsi, così.
È
terribilmente difficile fidarsi di qualcuno, vero Edward?
Lo odio, ne
sono certo.
È arduo
quasi quanto far cadere le proprie certezze per propria
volontà, vero?
È
solo piacere fisico, questo.
Nient’altro.
“Stai
bene?”
“La smetta
di chiedere certe idiozie.”
“E tu
smettila di essere così irrispettoso.”
“Non rompa
i coglioni, per favore.”
“Aah,
fottiti, non so neppure perché sto a preoccuparmi. Cazzi
tuoi, se ti si è
sfondato il culo.”
Non
c’è
altro che nero in lui. Nient’altro che questo. Ne era sicuro.
Smetti di
tremare, stupido corpo
inutile!
“Ti ho
fatto male.”
Non è più
una domanda – inutile farle, come palline rimbalzerebbero sul
muro del suo
silenzio per tornargli in faccia – ma
un’affermazione, a lui risponde con una
scrollata di spalle.
“E quindi?”
L’altro,
tacendo, gli stringe le spalle da dietro, senza emettere un fiato,
quasi senza
respirargli contro. E le lacrime del bambino escono mute
anch’esse, senza far
nient’altro che bagnargli le gote.
“Perché sei
venuto da me?”
“A scuola
non le hanno mai fatto il discorso delle apette e i fiorellini,
vero?”
“Fanculo,
stupido.”
“Se è
intelligente almeno la metà di quanto si atteggia, lo
capisca da solo e mi
lasci in pace.”
“Tu mi
odi.”
“Non la
sopporto.”
“Appunto.”
“Tendo a
scindere corpo e anima.”
“Cos’hai
seguito?”
“Indovini,
idiota.”
“… ti ho
fatto male?”
“Hanno
sempre detto che la prima volta fa male. Cazzi miei, no?
L’hai detto tu.”
È
così bravo a fare finta.
“Credi che
stia fingendo, vero?”
“E’ ovvio.”
“Perché?”
“Perché
sì.”
“Non mi
sembra una risposta.”
“Chissenefrega?”
“Fottiti.”
“L’ha già
fatto lei, con la delicatezza di un elefante.”
“L’hai
voluto tu.”
“Non mi sto
lamentando.”
“… dormi,
moccioso.”
“Si fotta,
vecchio.”
I bambini
hanno una terribile paura del buio
Eppure lui
– nonostante il volto da fanciullo – ha voluto
entrarvi, ed esplorarlo. E lì vi
rimane.