Il mio Inno Nazionale
Red, white,
blue’s in the sky,
summer’s in the air and, baby,
Heaven’s in your eyes.
Il té ambrato si rovesciò sulla
bandiera che utilizzava come tovaglia per mostrare l'orgoglio della propria
nazione ad ogni ospite che aveva l'onore di mettere piede in casa sua, e con
esso si rovesciò anche il capo dell'Inghilterra, lì accanto alla macchia che si
espandeva, la mano sinistra che stringeva piano la bandiera, quell'onore ormai
macchiato dal peccato, mentre quella destra indugiava tra le gambe. Inghilterra
respirava forte contro la macchia di té, poi digrignava i denti e lasciava che
la schiena sussultasse a causa dei singhiozzi che gli chiudevano
improvvisamente la gola.
«L'onore del paese... Macchiato da una potenza straniera,» borbottò arrabbiato
fissando la tazzina rovesciata ma pensando a come il suo intero essere si fosse
rovesciato. Provava rabbia, disgusto, odio, ammirazione, passione, attrazione,
repulsione. Nel petto palpitava l'orgoglio, la voglia di prevalere, ma le sue
gambe sentivano la sottomissione, il suo corpo era prigioniero. E non si
trattava di un cuore o di un corpo, ma del cuore e del corpo dell'Inghilterra.
L'Inghilterra e tutti i suoi abitanti. L'Inghilterra combattuta tra la
concessione e la resistenza, tra la volontà di reclamare la supremazia del
proprio paese su tutto il mondo e quella di regalarsi, di donarsi ad altre
culture, di mettere in altre mani le sorti del proprio Inno Nazionale. Quando
Inghilterra prese a strofinare il polso contro il cavallo dei pantaloni, iniziò
a pensare che quello che stava bevendo non fosse affatto té. Il fardello di
opinioni contrastanti nel suo cervello lo avevano costretto a mandare giù il
liquido ambrato, qualunque cosa fosse, sperando che in quel modo potesse
cancellare almeno la metà delle voci che gli rimbombavano in testa.
«La bandiera...» quasi la graffiò seguendo le linee della Union Jack. «La mia
bandiera...» spezzò la sua frase in un singhiozzo, poi sbottonò i pantaloni con
la mano destra e si permise di toccare là dove non aveva mai osato avventurarsi
da solo. Non da solo. «... voglio che sia sua.»
Non voleva dare un significato a quelle parole ansimate contro il tavolo, nè
voleva chiedersi per quale motivo adesso si stesse alzando e si stesse
preparando ad uscire di casa. Nel suo cervello le voci continuavano a fare a
botte, a contestare i suoi movimenti, ma la voce di Arthur si riconosceva fra
tutte, e urlava forte, urlava un altro nome, e il corpo della nazione obbediva
a quegli ordini tanto insistenti.
Una volta oltrepassato il confine, Inghilterra sapeva già di aver tradito il
suo paese, se stesso, per un attaccamento fisico e psicologico a cui non era
mai riuscito a rinunciare. Portava con sè la bandiera, la teneva sulle spalle
quasi fosse un mantello, quasi a proteggersi dalla diversa natura dell'aria
americana, dalle maldicenze che l’avrebbero colpito.
America l'aveva fatto sentire inferiore sin dalla sua Dichiarazione
d'Indipendenza, ma non lo faceva apposta, non era tra le sue intenzioni mandare
Inghilterra su tutte le furie. Quando quest'ultimo lo andava a trovare, America
lo prendeva un po' in giro, quello sì, ma aveva già preparato la sedia e il té
in modo che potesse accomodarsi.
«Ti prendi gioco di me,» lo aveva accusato Inghilterra una volta. «Sei più
potente e influente di me, adesso. Quindi ti prendi gioco di me.» E America non
aveva saputo come rispondere, con la paura folle che qualunque cosa avesse
detto avrebbe allontanato ulteriormente quella che per lui era stata per secoli
la nazione più importante, il suo punto di riferimento, la sua unica famiglia.
«Dacci un taglio. Non voglio che mi tormenti. Mai più,» disse invece quella
sera una volta messo piede nel territorio americano.
«Cosa ho fatto?» domandò America guardando come trascinava la bandiera e i
piedi, procedendo in modo obliquo.
«Tu... esisti. E questo basta a non farmi dormire la notte.»
America sospirò e incrociò le braccia subito dopo aver spostato una sedia per
farlo accomodare.
«Perché mi odi?» domandò con il tono tra lo spazientito e il lamentoso, quasi
fosse una scena ripetuta già un numero impreciso di volte. Fece qualche passo
in avanti convinto a voler poggiare la mano sulla spalla di Inghilterra. «Perché
dobbiamo stare divisi quando potremmo unirci?»
«Non voglio più unirmi a te,» borbottò Inghilterra stringendosi nella bandiera
e senza accettare l'invito a sedersi da parte del proprietario di casa.
«Neanche io lo vorrei,» ribattè America con fatica scuotendo la testa e
rinunciando a toccargli la spalla. «Ma Alfred lo vuole. Intensamente.»
America era tornato ad essere serio, il tono di uno che sa cosa vuole, il
cipiglio così differente da quello che aveva ogni giorno davanti alle altre
nazioni. Quello sguardo contenuto che adottava solo in sua compagnia, come non
esistesse nessun altro al mondo. «Lascia parlare Arthur anche tu,» aggiunse
quando s'accorse delle mani dell'altro ancora legate alla bandiera che
tremavano e le ginocchia che davano segni di cedimentto. I denti digrignavano
dal nervoso e dalla vergogna mentre cadeva piano sulle ginocchia e spostava la
bandiera inglese sulle mani, quasi a volerla offrire all'uomo in piedi davanti
a lui.
«Dimmi che sono il tuo Inno Nazionale,»
mormorò, impercettibilmente, le braccia sollevate, il capo abbassato, le gambe
e il respiro tremanti. America si sistemò gli occhiali e si strofinò un occhio,
incredulo, poi abbassò le palpebre e andò a toccarsi istintivamente sul petto. Prese
un respiro e spronò Inghilterra ad alzarsi per poi riavvolgere attorno alle sue
spalle la bandiera.
«Vieni con me,» gli disse, la mano che scivolava nella sua e lo guidava per
tutta la dimora sino al gigantesco balcone, che sembrava affacciarsi
sull'intera America. Lassù sembrava di stare in cima al mondo. Metteva i
brividi e le vertigini e Inghilterra sentiva la testa girare ancor più di prima
e aveva quasi la sensazione di essere rimpicciolito. «Ti piace?»
«Mi stai prendendo ancora in giro?» sbottò Inghilterra, ancora restìo a
lasciare il posto all’irruenza di Arthur.
«Volevo solo dirti che ogni volta che guardo tutto questo, penso a te. Penso a
cosa ne sarebbe stato di me se non ci fossi stato tu.» America alzò le spalle
un po' imbarazzato, come un bambino che ha appena confessato il proprio amore
alla ragazza che gli piace. Arthur sollevò lo sguardo sul profilo di Alfred, e
quando anche lui si girò, vide nel cielo dietro di lui aerei che trascinavano
scie rosse blu e bianche, avvertì l’estate nell’aria e il paradiso in quegli
occhi. Pensò che quei colori erano gli stessi della sua bandiera, e che almeno
in quel frangente, riusciva a pensare a lui e Alfred uniti in un solo essere,
sotto gli stessi colori, sotto lo stesso Inno Nazionale. L'Inghilterra e
l'America si spensero nel momento in cui Arthur e Alfred si avvicinarono per
baciarsi. Di nuovo, come ogni volta che si incontravano. Non poteva che finire
così, era inevitabile, era il rituale, era l'unica strada da intraprendere per
potersi liberare dai demoni della nazione. Anche se solo per un'ora.
«Dimmi che sono il tuo Inno Nazionale,» ripetè Arthur nel momento in cui Alfred
lo adagiava sul cuscino con la mano sulla nuca. Alfred perse ancora un po' di
tempo a torturare quel corpo segnato dalle ferite di guerra leccando nei punti
in cui quelle ferite ancora faticavano a guarire. Arthur era così perso
nell'oblìo che pensava solo a quante volte ancora avrebbe voluto far l'amore
con Alfred. E mentre ancora aveva i pensieri fissi sulle cicatrici del compagno
che strisciavano sulle sue mentre si faceva spazio nel suo corpo con passione
sempre nuova, quello recuperò la bandiera inglese e con essa coprì il proprio
corpo e quello di Arthur ora accanto a lui.
«Siamo sotto la stessa bandiera, adesso,» disse con quel suo fare genuino, gli
occhi che senza gli occhiali sembravano ancora più grandi e profondi. «Così ti
senti meno in colpa?»
«Sta' zitto,» borbottò l'altro, la coscienza di nazione che voleva tornare a
galla più in fretta del previsto. Si aggrappò al petto di Alfred e schiacciò la
guancia contro la sua spalla. Quell'evasione durava sempre troppo poco.
Quello che era tornato ad essere il solito Inghilterra recuperò la propria roba
con lo sguardo freddo di chi è tornato alla realtà e non ha intenzione di
riportare alla memoria i momenti in cui è stato a letto con il nemico.
«Inghilterra,» lo chiamò America prima che mettesse piede fuori dal suo
territorio. Quello si girò con il volto scuro, e America gli sorrise.
«Sei il mio Inno,» disse poi, sempre con quel sorriso stampato in faccia.
Inghilterra piegò il capo di lato, quasi non ricordasse, quindi America mise
una mano sul cuore. «Sei il mio Inno Nazionale,»
e quell'affermazione fu tanto forte che accese di rosso il volto di
Inghilterra, ancora troppo provato dall'ennesima serata passata tra le braccia
di America per poter rispondere. Quindi si limitò ad annuire impercettibilmente
e a girare i tacchi, con America che non smetteva di sorridere, convinto che nel
giro di qualche sera, il suo Inno Nazionale sarebbe venuto nuovamente a suonare
fuori dalla sua porta.
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Mia prima apparizione sul fandom di
Hetalia. Salve a tutti!
Da come si sarà intuito, l’ispirazione proviene da “National Anthem” di Lana
del Rey. La ascolto in loop da ieri pomeriggio, è diventata un’ossessione. Il
bello è che la coppia che preferisco in assoluto è Germania/Italia e tra UsUk e
FrUk shippo FrUk. Quindi non so che demone abbia guidato le mie mani sulla
tastiera la scorsa notte.
Porgo i miei saluti alla pagina di cui sono amministratrice, Hetalia, pls.
Non so se scriverò ancora su questo fandom, poco probabile, ma non si sa mai ;)
Grazie per aver letto!
Mirokia