Storie originali > Romantico
Segui la storia  |       
Autore: JaneD_Alexandra    29/09/2013    0 recensioni
Sequel di "An irish tale".
Giugno 2012, Dublino.
Anya è una promessa del tennis e molti dei suoi ammiratori, compreso il suo allenatore, sono pronti a scommettere sul match che la vedrà sfidarsi con la più giovane e famosa tennista inglese. Gli allenamenti si fanno duri, Mr. Harris, il mister, inizia a fare di tutto per vedere vincere la sua allieva, non sapendo in realtà che da un po' di giorni lei dorme male a causa di un sogno ricorrente: si rivede nelle campagne irlandesi di metà Ottocento, in una buia e uggiosa serata, mentre cammina verso una casetta al limitare di un villaggio. L'ambiente e le sensazioni sono così realistiche che decide di cominciare ad indagare.
Ancora una volta si ritroverà catapultata nel mondo della borghesia irlandese dell'Ottocento, due anni dopo gli eventi del 1856.
Genere: Romantico, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
An irish tale - Parte seconda

CAPITOLO IX

 


Dublino, 2012

 
Le palpebre si chiudevano di loro spontanea volontà.
E la cosa la infastidì.
Non c’era verso di allontanare la sonnolenza.
Sbuffando, cambiò posizione: spostò le gambe, incrociò le braccia al petto.
Oh, senti … è proprio comodo.
Ma … no. Non qui. Non nel Gate dell’aeroporto!
Un minuto. Un minutino solo. Poi mi alzo.
La testa ciondolò in avanti. Chiuse di nuovo gli occhi.
 
- Sa che è sconsigliato dormire in un luogo pubblico?
 Riaprì gli occhi con un sussulto.
Accidenti!
Fu come se avesse appena ricevuto una bastonata sul collo. Strinse la parte dolorante con un gemito, voltandosi di scatto (e pentendosene subito dopo) verso destra, da dove aveva sentito arrivare quel sussurro.
- Ma che cazz … P-Paride?… sei tu!
Lo guardò in viso con una punta di allarme. Lui era in piedi, con il borsone in spalla.
- Buongiorno – la apostrofò.
Lei riabbassò gli occhi con un ghigno affaticato e colpevole. – Buongiorno …
- Stavi dormendo o sbaglio?
Si stropicciò la faccia intorpidita, poggiando i gomiti alle ginocchia. Merda. Non aveva proprio resistito.
- Può darsi … - bofonchiò. Si alzò e … le gambe. Maledizione. Facevano male da morire. Rizzò la schiena con una smorfia e si avvicinò a Paride per salutarlo.
- Fatto buon viaggio?
Il ragazzo rispose dopo un momento. – Sì – annuì – tutto bene … tu? Che mi racconti? – mosse un sopracciglio – Ti sono mancato?
Anya gli carezzò il collo con le dita, facendolo rabbrividire. – Lo chiedo io a te.
- Non vale …
- Oh sì, invece - lo interruppe, guardandolo negli occhi. – Allora?
Lui le sfiorò la guancia con una mano, scrutandola con fare attento e curioso. Un angolo delle labbra si sollevò appena e Anya pensò che a breve l’avrebbe baciata. Era così che voleva che rispondesse. E invece Paride non si mosse, anzi; all’improvviso cambiò espressione, il sorriso si restrinse.
- Usciamo?
Anya aggrottò le sopracciglia.
- C’è troppa gente qui … - borbottò lui, sistemando la tracolla del borsone sulla spalla.
La ragazza annuì in silenzio e si scostò. Attraversarono l’aeroporto camminando vicini, chiacchierando del viaggio a Londra e di poco altro. Appena furono fuori Paride rallentò il passo e fece un bel respiro. Anya lo seguì ancora fino a che non raggiunsero il parcheggio, che non era tanto lontano, e mentre gli consegnava le chiavi della macchina lo guardò in viso, stranita dal comportamento di prima. Altre volte aveva rifiutato di baciarla, si era mosso in avanti e poi subito indietro, come un’onda, ritraendosi per motivi suoi. Non aveva mai domandato e lui non si era mai giustificato. La risposta arrivava sempre dopo, tacita, inaspettata. Paride si limitava a confermarla e ciò accadeva sempre tramite lo sguardo.
 
 
La strada fortunatamente era libera.
E Anya non aveva ancora fatto domande.
Benedetta ragazza … non avrebbe potuto essere più fortunato. I suoi amici si erano sempre lamentati delle loro fidanzate, perché non facevano altro che blaterare senza sosta. Lui non ci aveva mai creduto, convinto che gonfiassero il discorso ed usassero vocaboli esagerati per suscitare il riso; ma quando qualcuna di loro gli era stata presentata aveva subito capito.
Incontrando Anya era stato benedetto dal cielo.
Lei non solo era taciturna, ma prima di chiedere, prima di muovere un passo, osservava e rifletteva. Formulava ipotesi e quando ne aveva a sufficienza, quando cioè il suo cervello si era riempito fino all’orlo ed il turbamento era diventato intollerabile, chiedeva a quale teoria dovesse fare affidamento, a cosa doveva credere.
Questo lato di lei era ciò che lo aveva fatto innamorare più di ogni altra cosa. La rendeva talvolta difficile da comprendere, ma era anche scaltro da parte sua comportarsi così, perché lo induceva ad avvicinarsi, a sporgersi. A fare ciò che lui aveva sempre temuto.
La sua vicinanza lo aveva reso più coraggioso. E non solo nei suoi confronti.
Ma questo ermetismo era anche fonte di tribolazione. Senza parlare, per quanto ottimi osservatori si potesse essere, non era sempre facile intuire i pensieri dell’altro. Forse Anya indovinava i suoi, ma lui non non era capace di fare lo stesso con lei. Anya era troppo mutevole per essere svelata.
Quando capitavano situazioni come quella che stava vivendo, quando cioè era lui quello preda dell’ansia e delle inquietudini,  parlare e muoversi diventavano attività pericolose, che lo mettevano a nudo, perché il corpo, il suo corpo, sapeva parlare benissimo, senza bisogno di usare la bocca.
La strada era ancora libera.
E Anya non parlava.
Ma sentiva i suoi occhi addosso. Lo guardava, lo sapeva.
Amava il suo essere taciturna, ma la odiava quando si comportava così. Avrebbe voluto mettersi a  gridare.
Un piccolo ingorgo in lontananza lo indusse a rallentare. Poco dopo frenò.
- Le conferenze sono andate bene?
Quella domanda lo sorprese. Si voltò verso di lei e sorrise – Fortunatamente sì.
- Mmh.
- Mmh? Ne dubiti?
- Oh … no – fece spallucce lei, guardando la strada oltre il finestrino – certo che no.
- Orbene?
Anya sospirò. – Stavo cercando di capire cosa ti cruccia. Perché è ovvio che qualcosa non va.
Paride la guardò. – Ce l’hai con me per il bacio che non ti ho dato? Lo sai anche tu che quando c’è tutta quella gente …
- Non è per questo.
Lui sospirò, grattandosi la nuca.
- Sei silenzioso.
- Anche tu non parli molto, stamane.
Anya sbuffò, muovendo gli occhi e le sopracciglia come a canzonarlo e voltandosi verso il suo finestrino.
- È per questo che mi osservavi mentre guidavo?
- Anche – disse lei senza girarsi.
Alzò gli occhi al cielo, grattandosi il mento. – Stiamo litigando? – domandò guardando lei e la strada alternativamente.
- Nient’affatto.
- Perché non mi guardi allora?
La vide irrigidirsi. Le braccia che aveva incrociato al petto si serrarono con maggior forza e testardaggine. Si voltò con uno sbuffo, puntandogli contro i suoi occhi d’acquamarina. Odiò ammetterlo, ma si pentì di quella scelta. Sotto lo sguardo di Anya, sopraffatto com’era dall’ansia e dai sensi di colpa, si sentì improvvisamente scoperto. Distolse gli occhi con la tacita scusa di dover tener d’occhio la strada.
Fortunatamente Anya smise di fissarlo nello stesso istante in cui si era girato. Le parole del luminare di biologia incontrato a Londra tornarono a ronzargli nelle orecchie. Tentò di scacciarle, ma, come una mosca su un pezzo di carne cruda, quelle tornarono presto alla carica.
Si ricordi Langley: non posso concederle più di tre giorni per pensarci. Le ho concesso una lauta proroga e non posso farlo di nuovo. Rifletta attentamente sulla mia proposta.
Gli occhi non poterono che cercare ancora una volta quelli di Anya, ma di lei non scorse che il profilo, presa com’era dall’osservazione del panorama esterno. La osservò per un po’ e il cuore parve trovare la pace perduta.
Aveva ragione ad avercela con lui. Eccome se ne aveva. Le aveva mentito per più di due settimane con quella storia degli studi. Ora non poteva più continuare. Gli rimanevano due giorni per confessarle tutto. Due giorni per convincerla che quella che gli veniva offerta era una grande opportunità. Due giorni per convincerla che dopotutto il tempo che avrebbero trascorso lontani sarebbe passato in fretta, come sempre. Ma soprattutto quei due giorni erano un tempo appena sufficiente per persuadere se stesso e rimuovere ogni forma di colpevolezza dal proprio animo.
Cazzo.
- Cosa fai oggi?
- Mmh?
- Dicevo, hai qualcosa di importante da fare, oggi?
Anya fece spallucce, senza girarsi. – Avrei dovuto passare un po’ di tempo con il mio ragazzo, ma a quanto pare lui non è in vena.
Si lasciò scappare un sorriso, ma avrebbe voluto arrabbiarsi. Prese tempo.
- Risponde al nome di Paride Langley, per caso?
- Ma guarda … lo conosci anche tu?
- L’ho incontrato stamattina. Diceva che anche lui avrebbe dovuto trascorrere un po’ di tempo con la sua ragazza, ma l’ha trovata che dormiva su una sedia del Gate dell’aeroporto … l’annoiava la prospettiva di rivederlo, forse?
Anya aggrottò le sopracciglia ad una tale velata acidità e lo guardò. Sembrava tranquillo come quando l’aveva visto all’aeroporto; ma, lo sapeva, dentro ribolliva d’inquietudine. Lo vedeva dal modo in cui serrava le dita intorno al volante e di come si passava la mano sul mento e fra i capelli. L’unica cosa che non comprendeva, adesso, era quella battuta. L’unica. Per il resto era chiaro che non vedeva l’ora di smaltire quel malessere di cui non si decideva ancora a parlare.
- Questo tuo amico dimentica che quella ragazza si è messa in macchina nonostante la notte non avesse dormito e nonostante avesse tutte le fibre del corpo invase da un malefico acido lattico … e che non ha neppure fatto colazione per poter arrivare in orario all’aeroporto, salvo poi prendersi in quel posto la notizia che “per problemi tecnici” l’aereo di Londra avrebbe avuto un ritardo di due ore!
Lo guardò con atteggiamento di sfida, per nulla impietosita dal proprio stato; poi si mise a fissare la strada.
Lo udì serrare la mascella. Invano attese una risposta. Per dei minuti il silenzio fu animato dallo sfregamento delle sue dita sul mento irsuto e dai suoi sbuffi spazientiti. Era più nervoso di prima, si deduceva dalla spinta del piede sull’acceleratore, e l’ingorgo non aiutava. Il procedere della macchina divenne un perpetuo singhiozzare, con repentine accelerazioni e sussultanti frenate. Poi, finalmente, la strada si liberò e il viaggio riprese nella normalità.
Fu mentre muoveva il cambio che finalmente si decise a parlare. Il tono era più calmo, quasi pentito.
- Non farlo più.
Anya si riscosse. – Cosa?
- Metterti in pericolo per così poco.
- Che intendi?
Le scoccò un’occhiata rapida, sorprendentemente preoccupata. Le bastò quella per capire.
- Non ero digiuna … avevo bevuto due caffè.
Lui scosse il capo - Ti sei messa alla guida piena di sonno. Avresti potuto … - scacciò quel pensiero con un brivido – Non farlo mai più.
 
 
Come di consueto quando soggiornava a Dublino, Paride prese alloggio in casa Bacott. Le origini italiane di Kate si rivelarono ancora una volta e per lui non ci fu verso di rifiutare nessuna delle sue offerte. Lui che era un irlandese puro non aveva mai compreso a fondo i modi spicci e affettuosi della signora, ma non aveva neppure il cuore di negarle la felicità di averlo a casa, né di rifiutare le sue generose offerte.
Mangiò tutto quello che Kate gli caricò nel piatto, suscitando l’ilarità di Linda che trovava divertente la sua difficoltà a far comprendere quanto poco fosse abituato a pasti del genere; poi si allontanò per sistemarsi nel suo angolino del soggiorno.
Nel pomeriggio Anya e Linda andarono ad allenarsi al circolo. Conoscendo i programmi dell’allenatore si separarono e Linda si recò in un campo a parte con un’altra tennista. Anya occupò il campo che Mr. Harris le aveva fatto assegnare e dove aveva portato una serie di attrezzi e macchinari per l’allenamento e iniziò a riscaldarsi, sperando di guarire con la corsa il bruciore dovuto all’acido lattico; mezz’ora dopo l’allenatore non si era ancora fatto vivo, ma il dubbio fu presto risolto da Jack.
- Si è assentato per malattia. Non ha avvisato neppure me, sto’ stronzo.
Accolse la notizia con sollievo. Non aveva nessuna voglia di vederlo effettivamente e avrebbe potuto trascorrere quel tempo in compagnia di Paride. Il solo pensiero le fece tornare il buonumore.
Si fece una doccia veloce e si recò alla reception per chiedere alla segretaria di avvisare Linda che sarebbe tornata a prenderla alla fine degli allenamenti. Mentre parlava, entrò Paride. Aveva l’aspetto di chi si è svegliato da poco e ha tentato in tutti i modi di cancellare i segni del sonno. Le ispirò tenerezza e rapida scorse la sua figura coperta di una polo beige, un cardigan blu e un jeans stropicciato, probabilmente quello con cui aveva dormito.
- Ehi! – lo salutò.
Lui la ricambiò con un sorriso sorpreso. – Ehi …
- Come mai qui?
Il ragazzo fece spallucce. – Sono venuto a vederti.
- Oggi non mi alleno.
- Perché?
- Mr. Harris non c’è.
- Ah … - inarcò le sopracciglia - … che culo.
La segretaria rise sottovoce. Perfino lei conosceva l’astio di Mr. Harris nei confronti di Paride, principale fonte di distrazione della sua campionessa.
- E Linda? – riprese lui dopo – È qui?
- Si sta allenando.
- La aspettiamo?
- Non è necessario … le ho lasciato un messaggio per farle sapere che mi sto allontanando. Ti andrebbe un frappé?
Lui ci pensò su. – A te va?
- Ad essere sincera non ne sento il bisogno … chiedevo per sapere …
- Te la prendi se ti dico di no?
Lei scosse il capo. – No – mormorò, interdetta – certo che no.
Le venne voglia di proporgli qualcos’altro, ma fu frenata dalla direzione del suo sguardo che puntava il vuoto. Scelse il silenzio, ma sperò vivamente che qualcosa lo riempisse. Sfiorò con gli occhi la segretaria al lavoro, le foto sulle pareti, il colletto della polo di Paride.
- Stavi andando via, quindi?
Lei annuì.
Il ragazzo indicò il borsone con un cenno del capo. – Ti andrebbe una partita?
- Certo.
Lo accompagnò nel campo dove poco prima di era riscaldata e posò il borsone sulla panca. Indossava una tuta con dei pantaloni lunghi che la facevano sentire un po’ a disagio, dato che era abituata ad allenarsi a gambe scoperte, ma si sarebbe trattato di una breve partita e cercò di non badarci. Tolse la fodera alla sua racchetta e passò a Paride quella che si portava sempre di riserva. Lui la prese senza fiatare ed in silenzio ne saggiò distrattamente la rete.
- Però … ti tratti bene.
- Quando si parla di tennis non bado a spese.
Lo guardò, aspettandosi di vederlo sorridere, ma rimase delusa. Si liberò della giacca e mentre la metteva da parte prese tre palline dal borsone.
- Riesci sempre a farmi paura quando ti metti quella faccia.
- Quale faccia?
- La smorfia concentrata e pericolosa di chi non vuole perdere.
Anya non gli rispose. Gli mise in mano una palla e si girò per raggiungere la propria metà campo.
- Hai degli impegni stasera?
- No, nessuno – disse lei con un’alzata di spalle. – Vuoi uscire?
- Può darsi.
Prossima alla rete, si fermò e gli cacciò un’occhiata sbilenca. Paride non la ricambiò, probabilmente neppure se ne accorse, perché riprese a fissare il vuoto come aveva fatto nella reception. Ipotizzò si trattasse del sonno, ma a parte l’aspetto trascurato, sembrava perfettamente padrone di sé. Non poté fare a meno di pensare agli eventi di quella mattina, al bacio negato e alla sua agitazione. Adesso i pensieri parevano soffocati da qualche particolare riflessione, per cui non si azzardò a formulare neppure mezza teoria, ma c’era qualcosa che continuava a minare anche la sua di pace ed era intenzionata a scoprire le sembianze del sentimento che aveva assunto.
 
Fece rimbalzare la palla sulla rete della racchetta.
Una, due, tre volte. Poi se la fece sfuggire di mano.
Più avanti Anya raggiunse la sua metà campo e si poggiò alla racchetta, presumibilmente aspettando che battesse.
Il cuore gli salì in gola.
È il momento, idiota. Togliti questa mola dolorante e falla finita.
Si era svegliato di soprassalto. Aveva dormito tanto e male, sognando che lui e Anya si lasciavano e che le relazioni sul parco Tongariro andavano a fuoco, scatenando l’ira di tutti i professori che avevano fatto affidamento su di lui.
Si era scoperto sudato e solo. Kate era tornata in ambulatorio e gli aveva lasciato una macedonia sul tavolo che non aveva mangiato. Si era sciacquato il viso ed era uscito.
L’agitazione gli aveva fatto venire i crampi allo stomaco. Prese fiato ad occhi chiusi e scoccò un’occhiata alla sua avversaria. Anya stava sistemando i lacci di una scarpa. Decise di approfittarne.
- C’è una cosa che devo dirti.
- Ti ascolto.
- Non mi dà pace da quando sono tornato …
La ragazza si rialzò in piedi e lo guardò in modo strano. – Me ne ero accorta.
Deglutì a vuoto. Stava scherzando? L’aveva notato davvero? Eppure aveva fatto attenzione a non lasciar trasparire neppure l’ombra di un sentimento, era stato lontano da lei con la scusa delle relazioni e quando era tornato a Dublino c’era stato così poco che …
- Hai trascorso la giornata a crucciarti – spiegò.
- Oh … no … - sospirò. I polmoni si gonfiarono di sollievo. Si grattò una tempia – non è da stamattina … è un pensiero più vecchio … - indugiò brevemente, mordendosi un labbro – Non te ne ho parlato subito perché temevo che il torneo ti andasse male.
Anya studiava la superficie villosa di una delle due palle da tennis che aveva in mano. Le osservava molto da vicino, ma Paride intuì che fosse solo un pretesto per non farlo sentire a disagio mentre parlava e gliene fu immensamente grato; ma quando finì di esprimersi notò un leggero crucciarsi delle sue sopracciglia rosse e quel dettaglio lo gettò nella confusione.
- Di cosa si tratta?
- Ho ricevuto una proposta …  – cominciò lui, riscuotendosi – da Christopher Jones. È un noto scienziato inglese … - spiegò – uno dei promotori e insieme finanziatori delle spedizioni studio in Nuova Zelanda.
Le iridi azzurre della giovane si levarono, attente.
- L’ho incontrato a Londra, dopo la mia prima conferenza. Stavo uscendo dall’università, quando mi ha fermato e ci siamo messi a parlare e ... ed è venuto fuori l’argomento Parco Tongariro. Ha detto che ha letto le mie relazioni ed è rimasto molto soddisfatto del mio lavoro, della mia capacità organizzativa e analitica ... e anche che ha avuto modo di parlare di me con il professor Gregory …
Concluse il discorso nella sua mente e l’ansia lo soffocò. Non osava immaginare come avrebbe reagito Anya. La conosceva troppo bene per non paventare i suoi occhi e i suoi silenzi. Probabilmente la sua mente correva già verso il cuore del discorso o forse l’aveva già raggiunto e si burlava di come Paride titubasse a dargli vita tramite quello stupido grumo di parole. Non voleva pensarci. Non doveva.
Maledizione …
Deglutì forzatamente e la guardò. Gli occhi d’acquamarina non avevano cessato di osservarlo. E i polpastrelli carezzavano distrattamente la superficie di una palla, salvo poi tentare di strappare con le unghia il villo verde chiaro.
- Mi ha proposto di ripetere l’esperienza … si tratterebbe di partire all’inizio del mese prossimo …
Finalmente Anya si mosse, ma quando incontrò il suo sguardo, Paride avrebbe voluto darsene quattro in testa.
- E tu cosa gli hai detto?
E qui veniva il difficile. Trasse un lungo respiro. – Anya, ascolta …
- Hai accettato? – lo interruppe, tesa. – Hai accettato, non è vero?
Lui abbandonò la sua postazione, superò la rete. – Anya, ti prego, ascolta …
La ragazza indietreggiò, guardandolo con una punta di sospetto. – Perché hai detto che ci pensi da quando sei tornato dalla Nuova Zelanda? – la sua mente fece un rapido calcolo e i suoi occhi furono attraversati da una strana consapevolezza. – Non è stato solo questo scienziato a proporti di ripartire, vero? Avevi già ricevuto un’offerta simile prima di tornare …
Lui la afferrò dolcemente per un braccio, tentando di rabbonirla. – Anya …
- … e l’hai accettata.
- Ascoltami …
- Perché non me ne hai parlato subito?
Sospirò. – Te l’ho detto, non volevo impensierirti … stavi disputando il torneo. Mr. Harris mi avrebbe ucciso se solo avessi aperto bocca!
Ma Mr. Harris l’avrebbe ucciso a prescindere, era risaputo.
Anya picchiettò la racchetta sul terreno, come se stesse trattenendo uno scatto rabbioso. E infatti ciò che disse e soprattutto il modo in cui lo fece dimostrò quale sforzo facesse per non mettersi a gridare.
- Dio! – esclamò in un urlo strozzato, liberandosi dalla sua presa. – Per che cosa mi devo incazzare, prima, eh? Per che cosa? – Lo superò e si fermò dopo pochi passi, dandogli le spalle. – Sono passate più di tre settimane. Tre settimane, accidenti! E me lo dici solo adesso? – Si girò. – Perché?!
Lui sospirò stancamente, serrando la mascella. - Perché mi è rimasto poco tempo …
- Poco tempo? Che intendi?
Doveva? No, questa avrebbe potuto risparmiarsela. Avrebbe voluto risparmiargliela.
Ormai è fatta. Una in più che differenza fa?
- Mi è rimasto poco tempo prima di partire.
Anya si irrigidì. Lo guardò dritto negli occhi.  – Eh già … - sbottò a bassa voce, ricordando quello che lui aveva detto poco prima. – Due settimane …
Paride le si avvicinò, allungando una mano verso il suo polso. – Anya …
Lei si ritrasse in silenzio, senza smettere di fissarlo. Tradita, ecco cosa diceva il suo sguardo. Delusa, offesa. Il petto affannato parlò al suo posto, gonfiandosi di rancore e sgonfiandosi con esitazione.
Preda del ribrezzo verso sé stesso, Paride abbassò lo sguardo.
Aveva sempre odiato vederla soffrire, l’aveva sempre consolata quando piangeva, si era sempre fatto in quattro per aiutarla a risolvere i problemi che la tormentavano, anche i più insignificanti; avrebbe picchiato chiunque avesse osato toccarla o farle del male.
E ora a bagnarle gli occhi era lui. Ad arrossare quegli occhi azzurri, non altri era che lui.
Sbuffò; poi le afferrò il polso e tirò dolcemente, avvicinandola a sé.
- Anya, ascolta …
Lei si ritrasse. – Non mi toccare.
- Per favore, Anya …
- Non mi toccare, ho detto!
La lasciò andare, alzando le mani in segno di resa, ma la situazione incominciava a farsi pesante. Più di quanto si era immaginato. Fino a quella mattina, mentre l’aereo di Londra lo riportava a Dublino, si era prefigurato questa conversazione. Era stato angosciante pensarci: lei si era arrabbiata, aveva pianto, lo aveva addirittura schiaffeggiato; ma alla fine si era lasciata abbracciare, ammansire, coccolare. Aveva capito le sue ragioni e lui si era lasciato rapire il cuore e la mente da quelle dolci riflessioni, aveva goduto dello sfarfallio allo stomaco e aveva trepidato al pensiero di rivederla.
Ma, si sa, l’immaginazione è una crudele ingannatrice.
Strinse i denti, esasperato, e si passò le mani sul viso come se in quel modo, nel buio, trovare una soluzione fosse più semplice. Quando le riabbassò si accorse che Anya si stava asciugando le guance e che le sua labbra tremavano, esibendo la lotta fra i sentimenti e l’autocontrollo che cercava di nasconderli.
- Anya, cerca di capire – mormorò, ricercando il suo sguardo.
- Mi hai mentito! Per più di tre settimane! – esclamò, trattenendo altre lacrime. – Cosa devo capire ancora?!
- È tanto tempo, lo so! – esclamò lui a sua volta, attirando la sua attenzione – Molto! ma ti sei chiesta perché ci ho messo tanto a dirtelo? È stato più forte di me – continuò con un tono più dolce, guardandola negli occhi – Sapevo di fare la cosa sbagliata, ma temevo di ferirti. Ogni volta che venivo a trovarti, ogni volta che passavo del tempo con te, tentavo di parlartene, ma non avevo mai il coraggio. Non lo trovavo … - allungò piano le dita verso il suo braccio e lo strinse. – Anche adesso ho paura. Ho ancora paura di fare la cosa sbagliata, ma non posso più trattenere questo peso opprimente. Ho bisogno di parlartene perché mi sembra di impazzire.
Studiò la sua espressione, nel timore di scorgervi un segno di fastidio, ma trovò solo lacrime da asciugare e si maledisse perché a far bagnare quelle guance era stato lui.
- Per tutto questo tempo ho provato la sensazione di avere le mani legate, come se ci fosse una catena a limitare i miei movimenti, come se un muro mi separasse dalla mia vita di sempre. Il pensiero di questo viaggio è stato una dannazione e lo è ancora, perché non passa secondo senza che l’aspettativa di starti lontano … una seconda volta non torni a dannarmi. Non sai quante volte ho provato a liberarmi e andavo e venivo da Waterford, facevo la spola da casa mia a casa tua pieno di pensieri, di inquietudini e preoccupazioni … sempre sul punto di dirti tutto. Ma poi ti vedevo e non ce la facevo  … non volevo farti soffrire. – Avvicinò una mano al suo viso, nel tentativo di asciugare le sue lacrime, ma Anya lo bloccò. - Ho accettato di partire – sospirò – quando ero ancora in Nuova Zelanda. Mancavano due giorni al mio rientro e non vedevo l’ora di tornare da te, di riabbracciarti … - tentò una battuta – … anche di rivederti giocare con quel tuo grugno aggressivo, perché no … non vedevo l’ora di tornare, ma allo stesso tempo pensavo a noi due, facevo progetti per il futuro … e lo faccio ancora adesso. Partendo di nuovo acquisirò una nuova fetta di notorietà presso l’università di Dublino, perché mi verrà data la possibilità di scrivere una tesi su queste ricerche e … - scansò per un istante lo sguardo, perché di questo non era sicuro -  … e di conquistare una cattedra al dipartimento di biologia … ti prego, Anya,  fidati di me – sussurrò, ricercando la sua approvazione– Ho sbagliato a non parlartene subito. Sono stato un debole, perdonami.
Anya tacque. Contrariamente a ciò che si era più volte immaginato e a quanto si aspettava, non gli mollò nessuno schiaffo, né gli lanciò la racchetta sul naso. Imperturbabile, continuò ad osservarlo, di nuovo perfettamente padrona di sé, gli occhi arrossati ma asciutti, le labbra ferme. Paride evitò a lungo il nero delle sue pupille e il ghiaccio delle sue iridi, perché sentiva che l’uno l’avrebbe fatto sprofondare nel ribrezzo di sé e l’altro l’avrebbe tagliato come una lama; ma poi la sentì sospirare debolmente e con la coda dell’occhio vide la sua mascella muoversi e le sopracciglia corrugarsi.
La sua voce era ferma. – Quanto starai via, stavolta?
Lui deglutì, colmo del desiderio di scappare, di fuggire da quella situazione che gli stava sfondando il petto. La guardò, abbassò gli occhi; la guardò di nuovo.
- Paride? Quanto tempo starai via?
Sospirò. – Dieci settimane … forse dodici.
Anya annuì piano. Con fredda cortesia mosse il braccio per liberarlo dalla sua presa e in silenzio si allontanò verso il bordo del campo. Fu così lenta e delicata che neppure se ne accorse. Gli parve un sogno, un brutto sogno da scacciare con una manata come volute di fumo. La seguì con gli occhi e provò l’impulso di abbracciarla, perché conosceva quell’espressione, quei modi di fare, e sapeva che a breve si sarebbe rimessa a piangere. La raggiunse con pochi passi, mise da parte la racchetta che ancora aveva in mano.
- Anya …
- Stai zitto, non parlare! – esclamò senza voltarsi, mentre con movimenti svelti e pratici rimetteva la racchetta nella fodera e chiudeva la cerniera tutt’intorno.
Lui iniziò a spazientirsi. – Anya – la chiamò di nuovo, posando una mano sulla sua spalla.
- Lasciami in pace, ho detto! Lasciami! Non voglio più starti a sentire!
Mosse la spalla per liberarsi dalla sua presa, una, due volte. Poi gettò con malagrazia le palle da tennis a terra e con uno scatto si girò verso di lui. Paride non la vide nemmeno. Avvertì solo un forte rumore e subito dopo un bruciore pazzesco alla guancia sinistra. Restò al suo posto, basito e più irritato di prima, guardando Anya rimettersi a ordinare la sua attrezzatura sportiva con un nervosismo poco contenuto.
- Sei un bugiardo … - cominciò lei – Un maledetto bugiardo. Mi hai mentito per tre settimane … hai preso una decisione come quella … senza dirmi niente. Per dieci settimane, forse dodici – sollevò un sopracciglio, canzonandolo – te ne andrai all’altro capo del mondo, a venti ore di viaggio, dopo averlo deciso da solo … e mi chiedi di capirti!
Cominciò a singhiozzare in silenzio, mordendosi le labbra e artigliando la spalliera della panca perché non era rimasto nulla da sistemare. Trasse un respiro profondo e proseguì.
- Perché devo essere informata sempre all’ultimo delle tue decisioni, Paride? Perché mi hai fai questo? Cosa ci sto a fare io, qui, se non hai mai il coraggio di parlarmi dei tuoi problemi? Perché hai paura? Cosa ho fatto? – allargò le braccia, con i palmi rivolti al cielo – Mi pare di non essere mai stata invadente con te. Ho sempre rispettato i tuoi spazi, le tue scelte, ho sempre cercato di fare del mio meglio, venendoti in aiuto ogni volta che ne avevi bisogno. Non mi sono mai impicciata nei tuoi affari perché mi fido di te. – Rimarcò particolarmente le ultime parole e lo scrutò, soffermandosi brevemente sulla chiazza rossa dello schiaffo e trattenendo a stento un singulto colpevole. - So che non mi faresti del male – continuò con voce più bassa - e che sei sincero, nonostante i silenzi. Ma ciò che non capisco e che mi scoraggia di più è il motivo di questa tua paura … perché vuol dire che non hai fiducia in me. Già una volta hai mentito sul viaggio. Mi hai avvisata solo quattro giorni prima di partire, quando avevi già fatto il biglietto aereo e avevi deciso gli scali. Non ho tentato di frenarti, lo sai, perché non sarebbe stato giusto. E nonostante tutto, nonostante la mia comprensione, tu hai deciso di replicarti. E adesso te ne vai, per più di due mesi non avrò la possibilità di vederti, né di starti vicino come vorrei fare da un sacco di tempo, perché tu devi pensare ai tuoi progetti per il futuro … alla tua cattedra universitaria.
Anche io ho dei progetti, delle ambizioni … e dei pensieri per la testa che non mi danno pace neppure quando dormo. La gente si aspetta un sacco di cose da me … e mi sembra di impazzire, perché la mia vita è diventata un inferno. Sono pressata su ogni fronte, il mio sangue è diventato cibo per sciacalli, passo il tempo ad agognare il momento in cui ti avrò finalmente con me, perché solo tra le tue braccia riesco a sentirmi in pace …
Si asciugò in fretta le lacrime, come avesse notato solo in quel momento di stare piangendo, e alzò gli occhi al cielo, battendo le palpebre per riprendersi. Strofinò le guance con i palmi tremanti e vista la racchetta di Paride poggiata alla rete, lo superò per prenderla. Riprese a parlare mentre la riponeva nella fodera.
- E invece ultimamente mi sono ritrovata a temere i nostri incontri, a temere te, perché non sapevo cosa ti passasse per la testa, se ce l’avessi con me o … se avessi intenzione di lasciarmi! Sono arrivata a pensare di tutto, perfino che avessi un’altra, ma continuavo a ripetermi che tu non sei come gli altri,  che sei diverso … - la cerniera si inceppò e dopo due tentativi di farla scorrere gettò tutto all’aria – E adesso te ne esci con questa storia del viaggio! Mi hai sconvolto tutto! Non so più cosa pensare … se mi ami ancora o se preferisci concentrarti sulla tua vita, anziché su noi due! Se … se hai bisogno di tempo per riflettere o per stare da solo o … Accidenti! Avresti dovuto dirmelo prima, Paride! Avresti dovuto parlarmene … non ti avrei impedito di partire di nuovo, lo sai, ma avresti almeno potuto considerarmi!
Paride la ascoltò con la stessa espressione che aveva assunto dopo lo schiaffo; ma mentre lei parlava lo sbigottimento fu mitigato e poi sostituito da una serie di emozioni e sentimenti diversi e contrastanti, che si sommarono alla raffica di parole e lo annientarono con i pianti.
Dimenticò il bruciore alla guancia nel momento in cui la vide singhiozzare per la prima volta e, sebbene lo desiderasse con tutto sé stesso, non disse una parola per timore di farla arrabbiare ancor di più. Ma la voglia ardente di calmarla, di abbracciarla e ammansirla come aveva fatto nei suoi sogni crebbe di minuto in minuto, fino a diventare intollerabile e a spingerlo ad allungare le braccia per stringerla a sé. Perché se era arrivato lo schiaffo, nulla gli proibiva di pensare che si sarebbe avverata anche la restante parte del sogno.
Anya, però, si mosse verso il borsone e le mani di lui carezzarono il vuoto, contraendosi e iniziando a rassegnarsi.
- Passerò il mio tempo con te, queste due settimane, se lo vorrai – disse, inacidito, mentre lei finiva di riporre la propria attrezzatura in borsa. – Staremo insieme ogni giorno, senza preoccupazioni o pensieri di alcun genere.
- So che dovrai tornare a casa per prepararti, cosa credi? Mi hai preso per un’ingenua?
- Sono serio.
Ed effettivamente, quando lo guardò, Anya capì che diceva il vero; ma non poteva dargliela vinta, non dopo che lui le aveva nascosto i suoi intenti per intere settimane. Smise di fissare di colpo le sue iridi verdastre, scuotendo il capo.
- Non funziona così, Paride … non puoi prima dirmi quanto questa spedizione sia importante per il tuo futuro e poi farmi credere che saresti disposto a metterla da parte per stare con me.
Paride si spazientì. Digrignò i denti – Non sto fingendo, dannazione! – gridò. - Voglio trascorrere veramente questi giorni con te!
- Per far cosa? – ringhiò lei in risposta, sfidandolo con lo sguardo – Per continuare a prendermi in giro? No, grazie! Torna pure a casa tua, se devi, tornatene a Waterford e non farti più vedere!
A quel punto cadde il silenzio. Anya afferrò la giacca della tuta e tornò indietro nel campo per raccattare le palle che aveva tirato nello scatto di rabbia di prima. Le ficcò in malo modo in una tasca del borsone e si guardò subito intorno, cercando la terza. Si bloccò quando ricordò di averla data a Paride, che probabilmente la teneva ancora in mano, e chiuse la cerniera della tasca, disponendo tutto per andare via.
Diede il discorso per concluso, anche se rifiutava di soffermarsi maggiormente sul peso delle proprie parole, ma quando si spostò per prendere il borsone dalla panca vide la mano del ragazzo aperta davanti a lei, con la palla sul palmo. La conservò rapidamente in tasca.
- Vuoi che me ne vada, quindi?
Serrò i denti, lo guardò, stavolta evitando le iridi grigio verdi. Sentiva su di sé una delle sue tipiche occhiate sbilenche e respirava pesantemente, segno che qualcosa lo agitava dentro. Si morse le labbra, un groppo alla gola che prometteva nuovi sfoghi.
Tacque a lungo, trattenendo le lacrime, e probabilmente Paride la interpretò come una risposta, perché assentì piano col capo, senza smettere di guardarla.
- Ci rivediamo fra tre mesi, allora – mormorò, asciutto. – Stammi bene.
Le diede una pacca sulla spalla, indugiando ancora un po’; poi, con un sospiro, la superò e si allontanò. Lo seguì con l’udito fino a che il silenzio non inghiottì il suo passo spedito.
Poi si lasciò ricadere sulla panca.
 
 
 
Il sole era tramontato quasi completamente quando uscì dal circolo.
A casa trovò Kate, ma non le disse nulla della lite che aveva avuto con Anya, perché non voleva preoccuparla; sapeva che Anya avrebbe fatto lo stesso. Trovare una scusa plausibile per spiegare la sua improvvisa decisione di tornare a Waterford, però, non fu semplice. Kate continuava a circuirlo con domande invadenti e dovette ricorrere a tutta la sua buona volontà per non cedere all’irritazione. Celò ogni atteggiamento sospetto con dei sorrisi amabili e scacciò le parole di Anya che gli ronzavano senza posa nelle orecchie visualizzando mentalmente l’autostrada per Waterford.
Alla fine, però, Kate si convinse a lasciarlo andare, ma non prima di avergli messo in mano due vaschette di macedonia ed un panino al prosciutto e pomodoro. Paride raccattò in fretta le sue cose dal soggiorno e uscì.
Caricò i bagagli nell’auto con la vana speranza di rivedere Anya, anche solo da lontano; ma ricordò presto che era Sabato e il Sabato sera, dopo gli allenamenti, lei e Linda cenavano fuori. Non c’era nessuna possibilità, dunque, ma lui covò fino all’ultimo l’illusione che il nervosismo la portasse a rinunciare ai divertimenti e a tornare a casa in anticipo.
Salì in macchina con uno strano sentore. Notò Kate alla finestra e si sporse verso il parabrezza per salutarla, sforzandosi di sorridere. Poi mise in moto e abbandonando ogni remora si allontanò.
L’imbocco dell’autostrada era fortunatamente vicino e già dieci minuti dopo avanzava ad alta velocità nel dedalo buio, i fari accesi ad illuminare i segnali catarifrangenti sui cigli della strada. C’erano poche macchine in giro e di ciò ringraziò il cielo, ma non la fortuna, che quel giorno l’aveva abbandonato.
Si grattò il mento con la mano destra, il gomito poggiato allo sportello.
Avrebbe davvero rinunciato ai preparativi del viaggio per stare con lei quelle due settimane. L’avrebbe fatto sul serio. Si sarebbe arrangiato con quello che si era portato a Londra e avrebbe comprato quello che mancava.  Sarebbe stata una bellissima vacanza prima di rimettersi a lavorare. Non ci aveva pensato che per pochi attimi, ma aveva già immaginato come sarebbe stato portarla al cottage di campagna dei suoi e passare un fine settimana da soli. Lui e lei. Era stato poco più che un baleno nella mente, una riflessione spicciola e semplice, ma gli era piaciuta da morire e il cuore aveva fatto un salto di gioia.
Anche adesso, pensandoci, l’idea lo allettava tantissimo e aguzzò istintivamente lo sguardo alla ricerca di cartelli stradali che indicassero una svolta per Dublino, prima di darsi del deficiente e premere il piede sull’acceleratore.
Un idiota, ecco cos’era. Le aveva sbattuto in faccia un buon motivo per odiarlo.
Non c’era da meravigliarsi che l’avesse cacciato via.
Chissà quanto ci avrebbe messo a perdonarlo … uno, due, tre giorni? Una settimana? O forse due?
Lui in ogni caso non sarebbe partito senza rivederla. Non gliel’aveva detto per una questione d’orgoglio, ma non sarebbe mai andato via senza salutarla. La amava troppo.
Ci pensò a lungo, picchiettando le dita sul manubrio e sbuffando a intervalli, agognando il momento in cui l’avrebbe rivista e pregustando la sua espressione sorpresa; e non avrebbe dovuto, perché ciò lo distrasse dalla guida.
E quando se ne accorse era ormai troppo tardi.
 
  
Leggi le 0 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Romantico / Vai alla pagina dell'autore: JaneD_Alexandra