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Autore: DK in a Madow    30/09/2013    5 recensioni
Non ho mai dimenticato quell’Agosto del ’79 e da allora io e Dave non abbiamo mai smesso di camminare sulla stessa strada, quando abbiamo capito che perdersi sarebbe stato più facile che sorreggersi. E a noi le cose facili non sono mai piaciute.
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: David Gilmour, Richard Wright
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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It’s not that we’re scared, it’s just that it’s delicate.

(Delicate – Damien Rice)

 

Now it's time to go from your sad stare.

(Smile – David Gilmour)

 

Mile after mile, stone after stone.
Turn to speak but you're alone.
Million mile from home you're on your own.

(Wot’s … uh the deal? – Pink Floyd)

 

 

 

 

She don’t lie.

 

 

 

 Agosto 1979

 

 

Non ho mai amato le distanze per un motivo. Prima o poi ti ritrovi a dover correre.

Correre per. Fuggire da. E in questo momento, mentre l’umidità di Los Angeles è solo una squallida imitazione del calore del sole che brucia all’orizzonte, devo correre. A dispetto della stanchezza, della noia e di un ago che punge la bocca dello stomaco cucendogli l’ansia addosso, corro. Le strade sono affollate di volti vuoti, di impegni presi o lasciati, di clacson assordanti che fanno vibrare l’aria divenuta irrespirabile.

Vai a recuperare quello stronzo!, ha detto Roger.

Sentivo la sua rabbia attraversare chilometri e chilometri di fibra ottica fino a ferirmi l’orecchio sul quale tenevo la cornetta, l’esasperazione che mi accartocciava il cuore e lo cestinava sul fondo dello stomaco, mentre nella mente una semplice domanda prese a far ruotare ogni singolo pensiero intorno a sé.

Perché?

Perché sempre io? Perché non Nick? Perché Rick ci sta facendo questo? Perché Roger non riesce a capire? Perché scaglia su di noi la frustrazione di un fantasma che lo insegue quando è stato lui stesso a crearlo?

Ho solo una certezza; sapere di essere l’ago della bilancia tra la pazzia di Roger e il rifiuto di Richard, sempre alla ricerca costante di un equilibrio che non raggiungeremo mai, di una parità andata perduta da quando Roger ha iniziato a credere di poter avere tutto sotto controllo.

L’aveva fatto con Syd, lo sta ripetendo con Rick.

Rick che fugge e io che devo correre da Dublino per riprenderlo.

Rick che si nasconde.

Rick che non parla.

Rick che non suona più.

Se non si da una svegliata lo faccio tornare in Inghilterra a calci in culo.

L’ultimatum di Roger è stato chiaro, senza mezze misure, o bianco o nero. Una volta era proprio lui quel prisma che riusciva a scomporre la realtà trovandone le sfumature, ma ora è troppo tardi per capire che la luce che era riuscito a catturare era quella riflessa da Syd. Solo lui riusciva a brillare, Roger no.

Mi porto una mano tra i capelli aspettandomi di doverne sciogliere i nodi, un gesto istintivo che non riuscirò a correggere per molto tempo; invece, correndo, non ho più quella sensazione di sentirli dappertutto , di doverli scostare nervosamente e quando mi ritrovo di fronte al vetro dello studio di registrazione, stranamente la mia immagine è impeccabile. Inizio a bussare nervosamente, ma non ottengo nessuna risposta, e quando provo ad abbassare la maniglia, scopro che la porta è chiusa a chiave.

- Rick, sono io, Dave!

Silenzio. E se questo vale come risposta, non è delle migliori.

- Rick, so che sei lì, apri! – dico alzando la voce e continuando a bussare frenetico.

Subito dopo, uno scatto lieve e morbido rompe la quiete, mentre un rumore di passi si perde dall’altra parte della porta. La apro e quando sono dentro, la stanza è immersa nella penombra. L’unica luce è quella di una piccola lampadina posta sopra al pianoforte, mentre Richard è di spalle, vicino alla finestra, le tapparelle socchiuse che lasciano filtrare quel che resta del tramonto californiano.

- Se sei venuto a farmi la predica … – sussurra, per poi prendere un respiro profondo, accompagnato da una specie di fischio sinistro –  … puoi andartene, Dave.

Non mi piace.

No, non le sue parole, ma quel fischio. Quel suono acuto così delicato ma perfettamente percettibile, come quando esci di casa e hai la sensazione di aver dimenticato qualcosa che ti serviva, che subito prende a scuotermi l’anima fino a farla cozzare dolorosamente contro le costole. O forse è il mio cuore che sta battendo troppo forte, preso dalla paura di trovarsi di fronte a qualcosa che non riuscirà ad alleviare tanto facilmente.

- Come stai, Rick?

Non si volta, mi taglia via dai suoi occhi, il suo pianoforte che, per la prima volta, ci divide. E non so perché gli faccio questa domanda. Rick sta bene, è sempre stato impeccabile, sorridente, con quella presenza di vita che gli illumina gli occhi. Quegli occhi mi ricorderanno per sempre la primavera appena passata, quando ci fermavamo a scrutare la superficie del mare greco che splendeva sotto i raggi del sole per dimenticare per un attimo di esser stati cacciati di casa, di avere Roger alle calcagna e per tentare di fuggire, almeno per un po’, da quel sogno chiamato Pink Floyd e che ormai si è trasformato in un incubo.

- E come dovrei stare?

- Non è una risposta, Rick. – dico, già esasperato, prima di superare il pianoforte, mentre quella sensazione di paura si sta velocemente trasformando, chissà perché, in rabbia – E guardami in faccia quando ti parlo! – esclamo, imprigionando il suo mento sottile tra le mie dita troppo lunghe, troppo rozze per tanta delicatezza, e quando ho finalmente il suo volto di fronte al mio, scopro che la verità è più agghiacciante di come sembrava.

Rick non c’è. Al posto suo trovo un volto pallido, cadaverico, umido di sudore. I suoi occhi sembrano spariti dietro delle occhiaie scure come ombre di pioppi sulle lapidi di un cimitero e le sue labbra sembrano viola come un drappo funebre, mentre un piccolo rivolo vermiglio spunta come una piccola sorgente da una delle sue narici. Sotto le mie dita, la sua pelle è fredda, sotto i miei occhi i suoi sono spenti.

- No! – sussurro, mentre lui abbassa le palpebre dirigendo lo sguardo al pavimento – NO! – questa volta urlo, le mie mani che si spostano sulle sue spalle, spingendolo contro il muro vicino alla finestra, le lacrime che subito si impossessano dei miei occhi – Che cazzo fai?

- Non è niente, Dave, posso gestire la cosa. – la sua voce è un soffio.

- È lei a gestire te, lo capisci? – gli urlo strattonandolo, la mia voce strozzata dal pianto – Quella troia ti fotte il cervello e prima o poi si prenderà anche qualcos’altro, lo sai?

Non risponde, anche lui ha preso a piangere silenzioso.

- Perché ti fai questo, Rick? Perché punirti in questo modo?

Niente. Non reagisce.

Rick non c’è.

- RISPONDI, CAZZO!

- Lasciami stare Dave, mi fai male. – risponde, cercando di liberarsi dalla presa delle mie mani che lo stringono forte.

- Sei tu che ti stai facendo del male e ne fai anche a me. – gli sputo in faccia la verità, noncurante delle sue lacrime che rigano le guance, una mia mano che risale per raggiungere i suoi capelli, stringendoli piano. Quei capelli che ho sempre accarezzato con devozione, ricambiando quella che lui riservava per me, e che ora ritrovo ispidi, attraversati da qualche filo d’argento.

- Vattene, Dave! – sussurra, appoggiando il capo contro la mia mano, fallendo nel suo tentativo di cacciarmi da questa stanza, in una silenziosa e disperata richiesta di stargli vicino, di non interrompere quel contatto, di tenere ferma quella testa che potrebbe esplodere da un momento all’altro.

- No, Rick. Io non me ne vado. – sussurro.

Mi fa pena, mentre si piega in avanti come uno stelo appassito, troppo stanco per lottare, controbattere, troppo debole per salvarsi. Appoggia il capo sulla mia spalla, le sue braccia che si fanno strada attorno alla mia vita. Mi sta chiedendo di aiutarlo e io, per la prima volta, non so se ne sono capace. Posso rimanere qui, stretto a lui, fino a quando lo vorrà, ma non basto io per scacciare il veleno che gli sporca le vene. Posso ricambiare l’abbraccio, ma non basterà nemmeno quello.

- Non ti merito, Dave. – sussurra, guardandomi finalmente negli occhi, i suoi che sono diventati abissi di dolore, freddi e vuoti come una conchiglia dove il mare ha smesso di cantare – Lasciami solo. Fanculo l’album. Fanculo quella testa di cazzo.

Non ha mai parlato così e il fatto che non sia esattamente lui a pronunciare quelle parole non so se mi renda un po’ più tranquillo o meno. È lei che sta parlando, Rick non c’è più. Quello che ho tra le mani è solo l’involucro che conservava quell’anima sublime, quell’essenza poetica che ora è andata a finire chissà dove. Eppure, anche ora è fragile, celeste, così delicato che fa paura.

- Torna in te Rick! – lo prego, le lacrime che tornano a spingere negli occhi, una mia mano che gli accarezza una guancia – Torna da me, ti prego.

Non risponde, gli occhi fissi sembrano voler cercare nei miei una nota d’incertezza, di ripensamento che però non arriva. Perché è vero. Io non lo lascio. Io lo voglio con me, come è sempre stato deve continuare ad essere.

- Siamo la stessa voce, te lo ricordi Rick?

Annuisce e sembra quasi che il suo collo voglia spezzarsi: - Ogni giorno Dave.

- E allora smettila con quella roba e riprenditi il tuo splendore.

- Non sono un diamante, Dave, quello era Syd e Roger sta cercando di ripetere con me quello che ha fatto a lui. Ma io non sono Syd. Io non sono Syd! – ripete, portandosi le mani sulla testa come se un’emicrania gliela stia lacerando. E forse è così.

- No. Non sei Syd. Nessuno di noi lo sarà mai per quanto Roger si ostini a provarci. – dico serio, per poi appoggiare le labbra sulla sua fronte fredda e devo mettermi quasi in punta di piedi per poterlo fare – Tu sei Rick. – un bacio sulla guancia – Il mio Rick. Non posso permetterti di distruggerti, mi trascineresti con te. Non posso permetterti che tu sparisca perché io non saprei dove andare senza di te, capisci?

Cristo, voglio smettere di piangere, ma non posso farne a meno se lui mi guarda come un randagio abbandonato. Perché quando dico che lo vorrei splendente come un tempo, non mento. Anche lui è un diamante, lavorato d’Arte e Musica e, senza la sua, la mia luce non basta a illuminare la nostra strada.

- Dave, non piangere. – supplica, le sue mani callose e affusolate che si poggiano sulle guance, i suoi pollici che raccolgono le lacrime – Sorridi, Dave. Se sorridi mi sento a casa. – poi mi passa una mano tra i capelli, ormai corti, la stempiatura che inizia a farsi notare -  Erano belli un tempo.

Non riesco a rispondere, mi lascia inerme con poco.

Come faccio a dirgli che tutto era più bello un tempo senza fargli del male? Come posso impedire a me stesso di avvicinare il mio viso al suo, trasmettendogli tutto il calore di cui sono capace con un bacio? Con che coraggio dovrei fermarlo mentre mi si aggrappa addosso disperato e cadiamo a terra?

E, forse, è meglio così.

A volte è meglio cadere insieme che continuare a combattere uno contro l’altro. Prima o poi ci si stringe, ci si sostiene e insieme ci si rialza. Quando si combatte si è soli e lui da solo non può starci; e io sono troppo stanco di oscillare.

Così mi abbandono e l’ago della bilancia cade tra le braccia di Rick.

Il mio Rick.

 

 


 

 

26 Agosto 2006

 

 

- Guarda, Rick! Guarda quanta gente!

Gli occhi di Dave brillano più del cielo di Danzica. Ha lo sguardo fiero di chi non vede l’ora di salire sul palco, anche se i suoi gesti freddi e moderati non lo danno a vedere. Si passa una mano sulla testa, ormai diventata argentata, senza però incontrare la folta chioma setosa di un tempo. Che ci volete fare? È solo un’abitudine.

- Sì. È meraviglioso.

Si volta a guardarmi, col suo bellissimo sorriso che va da una guancia all’altra.

- “Meraviglioso” è averti qui. Lo sai, vero?

Annuisco imbarazzato. A differenza sua, sorrido sotto le labbra, come se avessi paura di farlo, mentre una sua mano mi lascia una carezza tra le fila candide dei miei capelli. Siamo così cambiati eppure siamo gli stessi. Sempre insieme, fino alla fine.

Non ho mai dimenticato quell’Agosto del ’79 e da allora io e Dave non abbiamo mai smesso di camminare sulla stessa strada, quando abbiamo capito che perdersi sarebbe stato più facile che sorreggersi. E a noi le cose facili non sono mai piaciute.

Adesso ho il suo braccio attorno le spalle. Non ha mai smesso di proteggermi.

- Pronto? – chiede.

- Se lo sei tu, lo sono anche io. – dico, sollevando un sopracciglio – Siamo ancora la stessa voce, vero?

Non risponde, la sua fronte si aggrotta per via di un pomeriggio di Agosto ancora vivo nella memoria; si limita a poggiarmi le labbra sulla fronte, proprio come ventisette anni fa. Saliamo sul palco e in un battito di ciglia le canzoni passano sotto le nostre dita, ogni nota un battito del cuore, ogni parola un ricordo.

Sono vivo grazie a Dave e non gli sarò mai abbastanza riconoscente.

Eppure, a lui sembra bastare la mia presenza. Gli basta voltarsi alla sua sinistra e sapere che ci sono, esattamente dietro di lui, a rispondere alle domande della sua chitarra col mio pianoforte. Lo capisco mentre su Wot’s … Uh The Deal mi rivolge gli occhi e un sorriso e sono così preso alla sprovvista che rispondo solo con uno sguardo sorpreso.

Ma so cosa volesse dirmi, lo so da sempre.

Siamo la stessa voce, te lo ricordi Rick?



















Angolo della pazza:
Rieccomi! :D
Ecco, questo è il mio problema. Una volta che mi metto a scrivere slash nessuno mi ferma.
Questa è una Wrightmour che tenevo incastrata tra cuore e gola da troppo tempo e mi sono detta che se avessi aspettato ancora, non l'avrei scritta più.
Mi sono buttata e così eccola qui.
E' una cosetta piccola piccola, non prendetela sul serio.
Alla prossima,
Franny

   
 
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