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Autore: CaskaLangley    01/10/2013    2 recensioni
«In questo siamo uguali, Makoto e io: due idioti senza tempismo. »
La fine dell'estate, l'autunno, e un'altra estate. [RinAi] [RinHaru] [MakoHaru]
Scritta per la Notte Bianca di "No, ma Free! loguardo per la trama, eh".
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Nitori Aiichirou, Rin Matsuoka
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Scritta per la Notte Bianca #1 di No, ma Free! loguardo per la trama, eh, scintillante pagina che potrei o non potrei essere io ad amministrare, mah, chi lo sa - sul promptIl neo di Nitori, il suo charmpoint. Già che ci siamo, buttiamoci anche la sfida dei 500 themes, per il prompt 1. Il vuoto lasciato dal tempo.
 

Da quando aveva nuotato nel medley relay, il senpai Rin si era fatto più dolce. Di una dolcezza che Aiichiro in passato aveva già intuito, nascosta dietro le sue asperità, una dolcezza indecisa, però istintiva, limpida un momento, celata in un altro. Come i bambini lui si vergognava, di quella dolcezza. La metteva in tasca di nascosto, a volte, fingendo che non ci fosse, però lo faceva sempre tardi, sempre dopo che per uno o due secondi aveva già brillato.
Ad Aiichiro piaceva, quello scintillio. Quando il senpai sorrideva in quel modo disteso, o rideva insieme ai suoi amici, sentiva che come nei fumetti gli batteva forte il cuore. E forse sì, in effetti non c’entrava niente, lui, con il cipiglio concentrato che c’era sul volto del senpai quando insegnava a Ryugazaki a darsi il giusto slancio (“facciamo così” sbottava sempre a un certo punto “o impari o ti affogo!”), né sapeva di cosa parlavano quando arrossendo urlava “ho pianto solo un po’, e comunque era normale, erano Makoto e Haru i mostri!”, né capiva…no, in realtà capiva, il modo in cui lui e il senpai Nanase a volte si guardavano.
Ma non voleva pensarci, adesso, non voleva più contare con i passi la distanza.
Da quando aveva nuotato nel medley relay, il senpai Rin lo chiamava “Ai”.
Quei momenti, quegli spazi di una sillaba, erano soltanto suoi.
 
Non c’erano solo il suo orgoglio, o il puro e semplice imbarazzo. A volte la dolcezza del senpai cadeva dentro gli strapiombi profondissimi del suo carattere e non c’era nient’altro da fare che aspettare. Gli sembrava così fragile, ogni tanto, specialmente quando guardava davanti a sé e sembrava che cercasse un paio di occhi azzurri appesi come un quadro al cielo.
Anch’io ho gli occhi azzurri pensò Aiichiro.
L’estate era finita e dalla finestra della loro stanza si scorgevano le prime foglie rosse.
Il senpai è fragile, scrisse sul suo diario, vorrei proteggerlo.
Arrossì e tirò duemila righe sull’ultima frase, sporcandosi d’inchiostro nero le mani.

«Che cos’hai sul viso?»
«Uh?»
Il senpai Rin si toccò vicino a uno zigomo. «Hai qualcosa sul viso.»
«Oh! Dici il mio neo, senpai?»
Lui lo guardò stupito e scoppiò a ridere. Era una risata sonora, la sua, un po’ graffiata, forse qualcuno l’avrebbe trovata anche maleducata, però a lui piaceva. Il senpai era stato silenzioso tutto il giorno, e averlo fatto ridere lo rise euforico, anche se lo stava prendendo in giro.
«Conviviamo da quasi un anno, credi che non abbia notato il tuo neo? Hai qualcos’altro, qui.»
Questa volta il senpai Rin lo toccò. Fu delicato, e le sue dita erano fresche.
«Oh» sussultò lui, e gli mostrò la mano «Deve essere inchiostro.»
«Ah. Credevo che ti fossi fatto male.»
«N-no, sto benissimo…»
«Bene» un breve silenzio «Facciamo due passi?»
Aiichiro annuì come se avesse detto “scappiamo, vieni via con me”.
Gli sembrava una frase che tutto sommato il senpai Rin poteva pronunciare.

«Il mio problema è il tempismo» gli disse un giorno. Iniziava sempre a parlare così, senza un’introduzione, e Aiichiro doveva aggrapparsi al filo sporgente dei suoi pensieri e seguirlo come un aquilone. Non che fosse difficile, in quel caso: stavano tornando da Iwatobi.
«Parli di…»
Il senpai non lo lasciò finire, continuò come se lui non gli stesse nemmeno porgendo la domanda.
«La prima volta ero stato io, a non capirlo. Ero troppo piccolo. Non fraintendermi, lo sapevo che c’era qualcosa…ma a tredici anni, che cosa vuol dire? E’ tutto o niente o qualcosa
Aiichiro tacque, non annuì nemmeno. Il treno era quasi deserto e il senpai sembrava tranquillo, non digrignava i denti, non si mordeva le labbra, non torceva i pantaloni della tuta sopra le ginocchia. Sembrava qualcuno che, dopo aver nuotato con furia per ore, si lasciava infine asciugare senza fretta al sole.
«Haru lo sapeva, invece» continuò «soltanto adesso lo capisco. In modo vago, certo, e forse poco definito, però lo sapeva. Lui sapeva tutto. Vedeva ogni cosa, con quegli occhi, e rendeva ogni sforzo inutile. Lui ti guardava e tu ti sentivi…» si interruppe. Non si mosse, ma quando ricominciò il suo tono era cambiato. «La seconda volta, invece, l’ho capito. Non razionalmente. Lo sentivo a pelle, nella carne. Ho scelto di combatterlo. Avevo voglia di distruggerlo.»
Il treno fermò a una stazione. Aiichiro bisbigliò: «Ma ora è diverso.»
«Sì, ed è meglio. Questo che cosa ti dice, di noi?»
Aiichiro serrò le labbra. Si accorse che i pugni gli tremavano. Il treno ripartì e qualcosa dentro di lui urlava, si opponeva a quella verità del tempo che passava, delle cose che cambiavano, che assumono una nuova forma e a volte, semplicemente, quella forma non si adatta più alle nostre mani. Non era arrabbiato con Nanase, e in un certo senso non era nemmeno triste per il senpai Rin. Era però sia triste che arrabbiato con la vita, con questa illusione che alla fine è solo questo, un’illusione, perché se anche i sentimenti così forti, e i dolori così acuti, e i ricordi così dolci…se anche questo cambia, allora cos’ha senso?
«Comunque il tempismo non è stato l’unico problema» riprese il senpai.
Il treno rallentò e loro si alzarono.
«E qual era l’altro?»
«Te lo spiego se tu non ti metti a piangere.»
Anche se l’aveva detto bruscamente, Aiichiro notò la sua espressione imbarazzata, che aveva celato sotto la visiera del cappello. Capì che si era accorto della sua malinconia, e che si era preoccupato. Forse non avrebbe dovuto, però sorrise, gli disse «va bene!» con improvvisa allegria. Avrebbe conservato quel momento nel suo cuore, a dispetto del tempo, dell’implacabile azione del tempo, e allora forse capì – o era soltanto una consolazione? – che il senso era quello. Nient’altro che quello. 

Si presero il loro tempo, camminando verso la Samezuka nel fresco della sera, sul viale incorniciato dalle prime foglie rosse e gialle già cadute.
«Hai presente la storia del filo?» ricominciò il senpai.
«Del filo rosso, dici?»
«Quello, sì. E’ una bella storia, no?»
Aiichiro scrutò il suo profilo per capire se fosse serio, poi annuì, ancora indeciso: «Uh, sì.»
«Gli occidentali parlano di anime gemelle. E’ circa la stessa cosa. Dicono che certe anime sono create come una e in seguito divise, e che queste due metà poi passano la vita a cercarsi.»
«Oh. Anche questo è bello.»
«Mh.» Il senpai aveva un sorriso amaro, eppure in qualche modo dolce, mentre spostava lo sguardo da uno spicchio all’altro di cielo tra le fronde degli alberi. «Haru è un disastro, non sa sta al mondo. E’ una creatura acquatica, lui. Allora qualcuno gli ha legato il filo molto stretto al dito, e ha messo l’altra estremità molto vicina, in modo nemmeno uno sconsiderato come lui potesse andarsene troppo lontano. Era obbligato ad incontrare la sua anima gemella. E’ nato accanto a quello che le altre persone cercano tutta la vita. Romantico, vero?» stava ridendo, ma poi sospirò «Certo che vederlo lì, che non si muove a prenderlo, mi fa solo incazzare. In questo siamo uguali, Makoto e io: due idioti senza tempismo. »
 
Il giorno dopo il senpai lo trovò addormentato sul suo diario, trincerato dietro il caos della sua scrivania. Lo svegliò scuotendolo un po’ bruscamente, ma parlando con la voce bassa, soffice, che gli salì in punta di piedi lungo la schiena. Guardandolo così, mentre era ancora assonnato, pensò lucidamente che sì, il senpai era davvero, davvero bellissimo.
«Ai, mettiti a…» si fermò all’improvviso e si mise a ridere «Hai ancora la faccia sporca d’inchiostro.»
Aiichiro sussultò, mettendosi seduto, e si sfregò la guancia con la mano. La felpa che si era appoggiato sulle spalle scivolò sul pavimento e il senpai la raccolse. La appoggiò sopra al diario, ma non provò a leggerlo. Era stato un sollievo, per lui, scoprire quanto fosse riservato, e quanto rispettasse anche il riserbo altrui.
«Eri molto preso?» gli chiese, appoggiandosi alla scrivania.
«Mh. Stavo ripensando a quello che mi hai detto ieri, sulle anime gemelle.»
«Ah, certo, quando mi hai offeso.»
«Che…che cosa?» trasalì «Perdonami, senpai, se ho detto qualcosa che…»
«E’ quello che non hai detto, che mi ha offeso. “Senpai, da oggi in poi sarò io, la tua anima gemella!” Ecco cosa mi aspettavo che dicessi.»
Aiichiro si irrigidì sulla sedia e arrossì di colpo.
«N-non posso dire una cosa del genere!» urlò, in modo stridulo «Non si può diventare l’anima gemella di qualcuno!» In un breve silenzio, si rese conto che non era quello, il punto. Sapeva di dover aggiungere qualcosa, ma balbettò sillabe imprecise, che gli soffocarono in bocca.
Non è che non vorrei dirlo.
Non è che non vorrei seguire il filo e arrivare a te.
Il senpai gli appoggiò una mano sulla testa, come a un cane, e Aiichiro vide appena il guizzo di un sorriso, prima che lui si togliesse la felpa e si buttasse sul letto così com’era, in canotta e pantaloni della tuta. Osservò le sue spalle, le braccia, mentre si girava su un fianco e chiudeva gli occhi. Quando dormiva, i capelli gli scivolavano davanti al viso.
«Pensi di riaddormentarti?» borbottò.
«No.»
«Allora svegliami, tra un po’.»
Aiichiro annuì. Continuò a guardarlo, a guardare il suo corpo, lo spazio accogliente accanto al suo corpo.
 
«A volte ho voglia di baciarti, Ai.»
Glielo disse un pomeriggio, all’improvviso. Si era fermato a metà della seconda serie di flessioni e Aiichiro, che contava tenendogli le caviglie, quasi non sentì. Rimase attonito, sbattendo gli occhi. Lui lo fissava, privo di imbarazzo, ma anche di spavalderia. Sembrava quasi che stesse meditando, che la sua mente macinasse calcoli e formule, in quel momento, dettagli che a lui sfuggivano. Reagì con estrema lentezza «Che…che cosa?»
Il senpai Rin non gli rispose, continuò a parlare come se stesse pensando ad alta voce.
«Non so se ho voglia di farlo perché mi piaci, o se è perché mi sopporti mentre mi lamento.»
«Ma no, a me non…» si rese conto di cosa stava dicendo, di che cosa stavano parlando, e la sua voce divenne più incerta «…per me non è un problema. Sono contento quando mi parli, senpai.»
«Mh. Però non fraintendermi, so che mi piaci.»
«Ma non in quel modo» suggerì Aiichiro.
«No, non è questo. E’ che devo pensarci. Ho fatto del male a tutte le persone a cui tenevo, e ho capito una cosa, che è proporzionale. Che faccio più male a quelli che amo di più.»
«E’…è così per tutti, no?»
«Mh. Dicono così. E’ comunque una responsabilità.»
«Senpai, tu non…» si accorse di stargli stringendo forte le caviglie, ma non riuscì ad allentare la presa «…non devi prendertela solo tu…»
«Certo che devo. Sono il tuo senpai, che figura vuoi farmi fare?»
«Oh, giusto! Ti chiedo scusa.»
Il senpai Rin rise di lui, ma a bassa voce. Erano così vicini che sentì il soffio di quella risata sul viso, anche se forse era soltanto un’impressione. Poi lui allungò una mano e lo toccò sopra lo zigomo, ma questa volta lentamente, con il pollice. Si protese in avanti e lo baciò sul neo. Un bacio leggero, ma che a lui sembrò lunghissimo. Poi il senpai si allontanò, schiarì la voce, e disse: «Conta, dai».
Aiichiro ancora frastornato, immobile, contò.
 
Un giorno gli aveva chiesto: «Sai cos’è l’estate indiana?»
Lui aveva scosso la testa. Ricordava la mano del senpai, che stringeva la tracolla della borsa, e la colorazione quasi lucida dei suoi occhi al tramonto.
«Succede in autunno. E’ un ciclo di giornate soleggiate dopo un lungo periodo di gelo.»
«Oh. Sembra piacevole.»
«Sì» rispose il senpai guardandolo, come stupito lui stesso da quella risposta, e poi girandosi fece un sorriso disteso «Non l’avrei mai detto, ma sì.»
 
Erano gli ultimi giorni all’Iwatobi, l’acqua stava diventando troppo fredda per nuotarci. Forse avrebbero dovuto già da un pezzo cominciare ad allenarsi insieme alla Samezuka, però il senpai amava quel posto. Nonostante non ci si asciugasse più in fretta, e quando tirava il vento ci si coprisse di pelle d’oca. Nonostante i ricordi agrodolci. E in certi momenti, come quando Hazuki faceva rumore, e Gou-san lo riprendeva, Aiichiro forse capiva perché.
Cercò con lo sguardo l’asciugamano del senpai, per controllare che fosse asciutto ed eventualmente cambiarlo, quando in fondo alla vasca vide il senpai Nanase riemergere.
Una creatura acquatica, si ricordò, che è legata alla terra da un filo.
Stava aspettando qualcosa, Aiichiro non capì che cosa, poi vide; il senpai Tachibana che gli porgeva la mano. Lo aiutò a salire, anche se di certo non ne avrebbe avuto bisogno, sorridendo con quel suo sorriso mite, caldo come certe mattine di luglio. E anche Nanase sorrise – un sorriso minuscolo, semplice. Non c’era niente di strano, in quei gesti, nessun clamore, non c’era nei loro sguardi l’elettricità che c’era tra Nanase e il senpai Rin. Era qualcosa di caramelloso, denso come il miele, morbido e in un certo senso sensuale, un dialogo in una lingua muta, acquatica anch’essa.
«Ehi, Ai!» gridò il senpai, facendolo trasalire «Pensi di allenarti o di restare lì a fissare i maschi nudi come Gou?!»
«No, io non stavo…!» cercò di giustificarsi, e intanto Gou-san, seduta a bordo piscina, gli diceva: «Fratellone, in quanto a manager questo è il mio compito, non lo sai?»
«Non sarebbe proprio quello…» commentò il senpai Tachibana, ma a bassa voce, perché tanto era abituato a venire ignorato.
«Beh, non m’interessa, vieni qui. Non vorremo far umiliare la Samezuka da questo gruppo di dilettanti?»
«Dilettanti?!» fecero Hazuki e Ryugazaki in coro, anche se subito dopo Hazuki si girò verso di lui e precisò: «Beh, Rei-chan, tu sì che sei un dilettante.»
«Mh!» disse Aiichiro, sorridendo, mentre loro cominciavano a litigare «Arrivo, senpai!»
Si tolse la felpa pensando che sì, in fondo andava bene così, gli piacque anche solo l’idea che per ora fossero lì, adolescenti, con dei nomi da ragazze e un sole inatteso che ora scaldava le loro spalle, scintillando sull’acqua. Il senpai lo stava guardando, aspettando che entrasse, era lì, lo chiamava “Ai”, e in un pomeriggio qualunque aveva baciato il suo neo. Erano tutti insieme all’inizio di un limpido autunno, nel pieno di una breve, bellissima estate indiana.
  
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