Anime & Manga > Captain Tsubasa
Ricorda la storia  |      
Autore: eos75    31/03/2008    10 recensioni
Stefan Levin come un moderno Orfeo compie il suo viaggio in cerca dell'amore perduto.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Stefan, Levin, Steve, Levin
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
orfeo

 

                                                               ORFEO


Pioveva sopra Stoccolma, una pioggia fitta e silenziosa, impalpabile e persistente, noiosa. Il fuoco scoppiettava nel camino e sul divano, avvolta strettamente in una coloratissima coperta a scacchi rossi e blu, la ragazza divorava con gli occhi un  piccolo tomo accomodato sopra ad un cuscino. Teneva il viso appoggiato sui pugni chiusi come una bimba e le guance dalla pelle nivea erano imporporate dall'evidente interesse per quello che stava leggendo. Non faceva in tempo a finire una pagina che già le dita sottili si posavano sull'angolo a destra, pronte a voltare il foglio. Le iridi azzurre correvano veloci sulle righe, scintillando estasiate e ogni tanto un sospiro sfuggiva dalle labbra rosee. Non si era minimamente accorta del giovane che da alcuni minuti la osservava stando appoggiato allo stipite della porta del bagno, un asciugamano legato in vita ed un altro gettato con noncuranza sulle spalle mentre qualche gocciolina scendeva dai biondi capelli ancora un po' umidi. Un sorriso beato aleggiava sulle labbra del bel attaccante che con gli occhi colmi di amore puro ammirava la sua dolce fidanzata persa nello studio della sua materia preferita.
Un solletichio sotto il naso lo aveva distratto un secondo, costringendolo ad una piccola smorfia che però non aveva sortito effetti. Il prurito era aumentato repentino e... etcì!
Karen aveva sollevato la testa di scatto, mettendo una mano aperta tra le pagine per non perdere il segno e una risata cristallina aveva riempito l'aria del piccolo salotto.
"Ecco, lo vedi cosa ci guadagni ad andartene in giro mezzo nudo per casa? Ti stai prendendo un raffreddore!" aveva riso canzonandolo. Un lembo della coperta era stato aperto come un invito ad intrufolarsi in quel rifugio che prometteva coccole e calore, e Stefan, tra uno sternuto ed una risata, aveva accettato di buon grado andando a stendersi accanto a lei. Il nido improvvisato era stato richiuso con cura, un braccio forte aveva cinto la vita della giovane stringendola al petto nudo nel quale il cuore aveva preso a battere forte.
Ne era nato un bacio dolce e profondo, dimentico del mondo circostante, del tempo e dello spazio. Quando però il Stefan aveva tentato di far rotolare un poco Karen, così da poterle stare sopra in un posizione più comoda e meno a sbalzo sul bordo del divano, la ragazza si era divincolata, sciogliendosi scherzosamente indispettita dal bacio che li legava "Ehi! Mi fai perdere il segno, così!" La mano sinistra era infatti ancora aperta tra le pagine ed il regista della Nazionale svedese aveva dato un sospiro volgendo gli occhi al soffitto prima di scoppiare a ridere nuovamente e poggiare la fronte a quella morbida dell'amata, sorridendo rassegnato "Tu sarai gelosa del pallone, ma io dici che non dovrei esserlo di tutti i tuoi dei, eroi, filosofi e chi più ne ha più ne metta?" aveva ridacchiato, scostandosi cercando di darle più spazio e nel contempo di non cadere dal sofà.
"Oh ma io non stavo studiando! Stavo progettando le nostre prossime vacanze!" aveva replicato lei, il viso serio ancora arrossato mentre sollevava davanti allo sguardo stupito del fidanzato il piccolo tomo, che aveva rivelato essere una guida turistica.
Una risata gli era partita dal petto ed egli aveva abbracciato la sua donna schioccandole un bacetto affettuoso sul naso.
“E ovviamente dove vuole andare il mio dolce amore? Grecia!”
Karen si era divincolata nuovamente, indispettita, e gli aveva puntato un dito sottile in mezzo al petto glabro, guardandolo con aria maliziosa “Non dirmi che non ti piace l’idea! Isolette solitarie, mare cristallino, ottimo cibo, divertimenti, non costa molto e sono solo poche ore di aereo!”
Levin l’aveva osservata ridacchiando ed aveva aggiunto all’elenco: “E templi antichissimi, rovine, teatri, musei, dei, eroi e compagnia!”
La ragazza per tutta risposta gli aveva fatto la linguaccia e, a tradimento, aveva cominciato a torturalo col solletico, fino a che il giovane non era letteralmente crollato sul pavimento.
“Così impari!” si era voltata stizzita, il mento all’insù e la mano destra che chiudeva la coperta intorno al corpo, ignorando totalmente che l’asciugamano che copriva le nudità dell’amato era rimasto impigliato tra i cuscini.
Il biondo attaccante se n’era rimasto lungo disteso sul pavimento, nudo, un braccio piegato su un fianco e l’altro che sosteneva la testa appoggiata sul pugno chiuso, un sorriso divertito sulle labbra e lo sguardo pieno in adorazione di quella dolce creatura che l’aveva appena scacciato.
“Ok, ok! Scherzavo! Dimmi un po’: cosa stavi progettando per le nostre vacanze?” aveva chiesto sorridendo, allungandosi per sbirciare sopra i boccoli dorati della ragazza.
Lei aveva taciuto per un po’, fingendosi indignata e continuando a far finta di nulla, fino a che Stefan non aveva puntato il dito su una fotografia che occupava mezza pagina “E questo casa sarebbe?”
Karen aveva sospirato, facendosi un poco da parte ma ridacchiando della vittoria che, lo sapeva, stava per ottenere “E’ il teatro di Epidauro…”
“Lo vedo che è un teatro!” Levin si era reintrufolato sul divano e pian piano stava cercando di rientrare sotto la coperta “Ma lo usano ancora?”
Effettivamente nella fotografia si vedevano un folto pubblico assiepato sulle gradinate e nel mezzo del palco alcuni attori stavano evidentemente recitando.
“Sì! E’ stato restaurato e da diversi anni viene riutilizzato per mettere in scena drammi greci e non solo…” gli aveva risposto la giovane, facendogli spazio sui cuscini e voltando pagina “Anche i teatri ai piedi del Partendone vengono usati a tutt’oggi!” Un sospiro le era sfuggito ed aveva posato il capo sulla spalla del fidanzato con aria sognante “L’Acropoli di Atene è uno spettacolo unico… E anche Delfi, Olimpia, Micene!”
Il biondo aveva ridacchiato, stringendola a sé “Ecco, lo vedi? Rovine e sassi!” Prima che lei lo scacciasse nuovamente, la aveva costretta in un bacio dolce che le aveva tolto il fiato. Quando l’aveva liberata s’era appoggiato con la fronte alla sua, parlando adagio “Ovunque vorrai portarmi, ti seguirò! Templi, musei, sassi e rovine! Ma dovrai perdonarmi se capirò un terzo di quello che dirai!”
Lei aveva riso e lo aveva baciato, rituffandosi poi nella sua guida “Guarda! Non ci sono solo sassi e rovine!” e gli aveva mostrato immagini di spiagge bianche su Creta, insenature dal mare smeraldino nelle Cicladi e, in ultimo, la baia di Santorini. Il mare increspato dal vento leggero rifletteva il sole sopra le nuvole, appese in un cielo argenteo. Un’isoletta, chiaramente vulcanica, galleggiava su quell’acqua resa metallica dalla luce e spiccava nera sul fondo mentre il resto dell’isola abbracciava la baia. Casette intonacate di bianco e chiesettine dalle mille campane facevano da cornice a quello spettacolo della natura.
La piccola mano di Karen si era chiusa su quella dell’amato che l’aveva abbracciata, baciandola sui capelli.
“Santorini… La chiamano “l’isola degli innamorati”… Mi piacerebbe andarci con te… Dicono che sia uno dei posti più romantici al mondo!”
Lui aveva sorriso e l’aveva stretta ancor di più, il cuore che batteva forte mentre un pensiero gli solcava la mente “Sarebbe meraviglioso… in viaggio di nozze…”


Un’onda birichina s’infranse con troppa energia sugli scogli, schizzando di fredda schiuma le gambe del giovane steso sulle rocce, il braccio destro piegato sugli occhi ed una catenella che spuntava dalle dita socchiuse.
Stefan si svegliò con un sospiro, abbassò il braccio e guardò l’enorme cielo che lo sovrastava: azzurro, immenso, di un colore così puro da potercisi perdere per sempre.
Infinito.
Si passò una mano sugli occhi, asciugando le lacrime che eran rimaste impigliate tra le ciglia e si levò a sedere, spaziando con lo sguardo sui luoghi desolati che lo circondavano. Scogli dalla linea frastagliata si tuffavano in un mare che si fondeva all’orizzonte con quel cielo perfettamente terso. Spoglia e bassa vegetazione spuntava qua e là, promettendo ombra ma in realtà regalandone ben poca. A tratti, le linee decise e nette degli steli delle acacie svettavano nell’azzurro, mostrando al mondo l’ultimo fiore prima di seccare per sempre.
Dall’altra parte della baia, unico segno dell’esistenza dell’uomo in quel luogo apparentemente dimenticato, una chiesetta bianca, il tetto rosso come il sangue che brillava in mezzo al monocromatismo che la circondava.
Pace.
Serenità.
Solitudine.
Tutto ciò di cui aveva bisogno in quel momento.
Un brontolio proveniente dal suo stomaco gli ricordò che, forse, la solitudine non era la soluzione ideale alla fame che le ore passate a nuotare in quel mare cristallino gli avevano fatto venire.
Abbassò lo sguardo sul medaglione che aveva tra le dita e l’aprì. Dalla piccola cornice dorata gli sorrise il viso meraviglioso della sua amata Karen.
“Avresti detto che, come il solito, sono poco poetico ma…” un altro brontolio e un sorriso triste sulle labbra sottili “Avevi ragione, qui è splendido e si mangia anche bene… Ma avrei preferito non cenare di nuovo da solo…”
Si alzò in piedi, tirando la schiena e guardandosi nuovamente attorno mentre allacciava la catenella al collo.
Raccolse la maglietta che aveva abbandonato lì accanto ed uno zainetto e si inerpicò per gli scogli fino a tornare in una piccola piazzola, dove l’attendeva la moto da cross che aveva noleggiato due giorni addietro.
Salì in sella e mise in moto, guidando adagio sulle strade polverose.
Avevano progettato quel viaggio nei minimi dettagli.
No.
Karen l’aveva progettato.
Il nord, le Meteore, incoronate dagli splendidi conventi, Salonicco, Atene, le Cicladi e Delfi.
Lo aveva studiato per settimane, cercando di organizzare una vacanza che piacesse anche a lui e non fosse incentrata solo sulla sua grande passione, nonché materia di studio: la storia della Grecia antica.
Karen non c’era più, e lui aveva deciso che quel viaggio l’avrebbe fatto ugualmente.
Per lei. Perché era certo che visitare quei luoghi che lei tanto aveva amato gliel’ avrebbero fatta sentire viva e vicina, anche, in qualche modo, fisicamente.
L’aveva udita mormorargli parole d’amore nella brezza del tramonto che dipingeva di rosso e d’oro le pareti lisce dei picchi delle Meteore. Aveva avvertito il suo profumo di viole nel buio profondo del Tesoro di Atreo e sotto il sole cocente che martellava la collina di Micene, mentre quasi gli pareva che le fresche dita sottili si fossero intrecciate con le sue dinnanzi alla Porta dei Leoni o sotto le svettanti colonne del Partenone.
La motocicletta scendeva sicura lungo le strade sterrate della microscopica isoletta che lei aveva scelto per staccare un poco da tutta quella storia antica. Per dargli un poco di tregua, o altrimenti sarebbe impazzito tra sassi e rovine.
Antiparos.
Piccola, tranquilla e semi sconosciuta.
L’ideale per un giovane campione e la sua fidanzata per trascorrere qualche giorno di mare nell’anonimato più totale.
Le colline rocciose si spensero alle sue spalle mentre una spiaggia di grossolana sabbia grigia si aprì dinnanzi a lui. Lo sterrato conduceva ad una sorta di catapecchia posta a pochi metri dalla battigia. Tra due pali sottili era teso un filo sul quale erano appesi ad asciugare una decina di polipi non troppo grandi ma dall’aspetto invitante.
Il biondo cannoniere scese dal suo mezzo e si andò a sedere ad un tavolino solitario sotto la veranda ricoperta di canne chiare.
Un ragazzo dall’aria allegra gli servì immediatamente del vino ambrato dal forte aroma resinato. Stefan lo sorseggiò adagio, perdendo lo sguardo nell’orizzonte irraggiungibile che aveva di fronte.
Dopo il Mondiale Giovanile aveva pensato molto alla sua vita futura, aveva riconsiderato l’idea di lasciare il calcio, ma alla fine il buon senso (e l’insistenza degli amici che sapevano cosa volesse dire per lui) avevano vinto.
Era tornato a casa, sconfitto ma tutto sommato felice, convinto di poter ricominciare a vivere.
Senza di lei.
Appena varcata la soglia del piccolo appartamento l’immagine di Karen gli era apparsa nitida dinnanzi agli occhi ed un dolore sordo e lancinante gli aveva invaso il petto.
La piccola guida turistica era ancora posata sul tavolinetto accanto alla televisione, tra le sue pagine spuntavano fogli e depliants vari.
Si era chiuso in casa due giorni, leggendo e rileggendo l’itinerario che la sua ragazza aveva studiato con tanto amore per loro, per quella vacanza che avrebbero dovuto fare insieme dopo il Mondiale.
E aveva deciso.
Una settimana più tardi si trovava su quella spiaggia desolata sulla quale regnava un’atmosfera come di tempo sospeso, tanto che quasi si aspettava da un istante all’altro di vedersi comparire accanto la bella fidanzata.
Musica allegra, ritmata, dalle sonorità vagamente arabeggianti era diffusa da una piccola radio. Una coppia di ragazze continuava a fissarlo, ridendo e lanciando fugaci occhiatine maliziose.
Finì di bere lo strano caffè dal fondo denso e si alzò per andarsene, lasciando i soldi sul tavolo. Passando accanto alle due fece finta di ignorare lo sguardo intenso della mora che l’aveva letteralmente spogliato con gli occhi, rapita dal corpo scultoreo che aveva costruito in quei mesi con allenamenti estenuanti e sovrumani.
Lo infastidivano quelle attenzioni, lo infastidivano i cinguettii estasiati delle ragazze sulle spiagge o le occhiate ammaliatrici che gli lanciavano.
Non gli interessavano. Nessuna donna, per quanto bella ed affascinante, lo interessava più.
Per lui esisteva solo Karen, anche adesso che non era più.
Tornò in paese guidando adagio, godendosi l’aria fresca della sera che gli accarezzava il viso e scompigliava i capelli.
Le stradine centrali della cittadina si erano riempite di vita: bancarelle di ogni tipo, negozi aperti, tavolini di locali e ristoranti che invadevano le vie, gente ovunque, musica e allegria.
Evitò la calca, lasciò la moto in un piccolo parcheggio esterno alle case e percorse le deserte viuzze periferiche fino al suo alloggio, un piccolo studios con cucina ed una bella terrazza grande.
Si sentiva spossato, il mare e le sue correnti l’avevano sfinito e la mente era finalmente vuota, libera da ogni pensiero.
D’improvviso qualcosa di morbido gli solleticò una gamba. Abbassò lo sguardo un poco assonnato e si trovò ad incrociarlo con quello luccicante di un gatto rosso. Il micio si fece carezzare una sola volta e poi trotterellò via, andando ad infilarsi in una porta socchiusa affiancata da una finestra incorniciata da una grande buganvillea in fiore. La luce all’interno era accesa e Stefan gettò un’occhiata veloce, fermandosi poi un attimo ad osservare meglio. Immagini sacre dallo splendente fondo dorato, arricchite di complesse cornici o semplicemente appese senza orpelli tappezzavano l’intera stanza ed una, ancora in lavorazione, attendeva paziente la mano del pittore stando posata su un cavalletto accanto al quale v’era una poltroncina ricoperta di velluto scuro.
Il giovane si soffermò un poco ad osservare il minuscolo atelier fino a quando uno sbadiglio lungo non gli ricordò il sonno che aveva.
La mattina seguente, di buon’ora, si alzò per andare a correre. Il cielo era terso ma il sole non ancora alto. Una brezza leggera e continua spirava dal mare, portando odore di salsedine e caffè.
Il paesino pareva deserto. Le stradine lastricate, affiancate dai candidi muri di case dalle imposte azzurre, risuonavano dei suoi passi e nessun altro rumore le disturbava.
Passò nuovamente davanti allo studio del pittore, trovando la porta chiusa e le finestre accostate e continuò il suo allenamento leggero, dirigendosi lungo la stretta spiaggia ghiaiosa.
Era l’ultimo giorno su quella piccola isola, la mattina successiva avrebbe preso il traghetto per il Pireo e da lì si sarebbe diretto verso l’ultima tappa del viaggio: Delfi ed il suo Oracolo.
Stava ripassando mentalmente gli orari di imbarco e le coincidenze con i pullman quando, girato un angolo, si trovò il passaggio sbarrato da un micio rosso comodamente sdraiato in mezzo alla strada. Il gatto lo squadrò con aria infastidita socchiudendo le palpebre, attraverso le quali s’intravedevano una paio di splendenti iridi dorate. Stefan rallentò il passo fino a camminare e si avvicinò piano alla bestiola ansando un poco e sorridendo.
Karen amava gli animali e stravedeva per i gatti…
Il felino lo guardò con fare regale, si stiracchiò facendosi lungo lungo e sbadigliando sguaiatamente, mettendo in mostra una fila di denti bianchi e aguzzi. Quindi si alzò e senza dar tempo al ragazzo di allungare una mano, si strusciò sinuoso tra le sue gambe facendo rumorosamente le fusa. Levin continuò a camminare adagio, ridacchiando di quella palla di pelo che, evidentemente, l’aveva preso in simpatia. Si asciugò il sudore col dorso della mano ed osservò il cielo nel quale il sole aveva ricominciato a splendere abbacinante.
Il gatto miagolò e si allontanò trotterellando con la coda dritta verso l’alto ed il giovane si accorse che si stava dirigendo verso la casa dell' artista. La porta era nuovamente socchiusa e la finestra spalancata, la buganvillea era un tripudio di fiori vermigli che spiccavano sull’intonaco candido del muro.
Il calciatore si avvicinò curioso alla finestra. La sera prima era troppo stanco per potersi godere appieno la bellezza delle icone racchiuse in quella microscopica stanza, e così si affacciò cauto sbirciando all’interno. L’oro degli sfondi, delle aureole, dei profili degli abiti scintillava ancor più che la notte precedente, riverberando la luce limpida del sole che entrava a fiotti dalle imposte aperte.
L’immagine posta sul cavalletto aveva qualche particolare in più ed una donna dai lunghi capelli corvini, raccolti in una crocchia scomposta sul capo, passava lente e sapienti pennellate lungo il panneggio dell’abito di una Vergine dal viso ieratico.
La mano della pittrice si fermò, le labbra si storsero in una smorfia e la donna si voltò verso la finestra, esclamando “Kalimera!” seguito da una sequenza di parole che il giovane non afferrò, e alle quali rispose con un “Hello…”  stentato.
“Mi scusi” riprese lei in un inglese quasi perfetto “ma se resta lì davanti, mi fa ombra…”
Solo in quell’istante Stefan si accorse che, in effetti, la sua ombra si stagliava netta esattamente sul dipinto.
Costernato, si scusò e fece per andarsene, ma la voce dall’interno lo fermò: “Resti pure, se desidera! Ma la pregherei di entrare così, almeno, non mi toglie la luce! Il sole di prima mattina è l’ideale per dipingere, non è forte, non è cocente e la luce è perfettamente pulita.” La donna non aveva smesso di lavorare mentre parlava. Gli aveva volto le spalle, rituffandosi nella sua arte ma invitandolo a condividerla.
Karen, pensò, non si sarebbe fatta ripetere l’invito due volte… E comunque anche lui era incuriosito da quella figura così particolare. Fece due passi e varcò la soglia della casa, che era fresca e accogliente.
“Prego, di qua!” si sentì chiamare e corrugando la fronte sorpreso si diresse verso la voce, spuntando nell’atelier attraverso uno spesso tendaggio arancione.
“Si accomodi pure!” fece lei indicandogli con la punta del pennello una poltroncina in un canto, senza però staccare gli occhi dal suo lavoro “Stamane la luce è perfetta, dovrei riuscire a terminare i panneggi…”
Il giovane si sedette, osservando la donna con curiosità: alta, il viso magro ma non scavato, le mani sottili ma forti, la pelle olivastra liscia, solcata solo da qualche ruga intorno ai grandi occhi castani dallo sguardo intento eppure perso nella concentrazione della creazione.
Un movimento sotto la poltrona ricoperta di velluto attirò l’attenzione del ragazzo che sorrise nel veder spuntare dalla stoffa la testolina rossa del suo amico a quattro zampe.
“Ehi!” gli disse “Ciao micio! E così questa è casa tua!” Il gatto lo stette a guardare, dette uno sbadiglio e quindi rivolse gli occhi dorati verso la padrona che lo vezzeggiò nella sua lingua.
“E così ha fatto conoscenza con Yorgos!” riprese lei in inglese, rivolgendosi al ragazzo.
“Yorgos? Ah, sì! Direi che è stato lui a portarmi qui… Piacere, mi chiamo Stefan…”
“Eleftheria. Piacere signor Stefan! Yorgos normalmente è un gatto piuttosto fifone, ma lei deve essergli davvero simpatico. E’ qui in vacanza?” gli chiese, sempre intenta al suo lavoro.
“Sì… “ rispose lui, sentendo nuovamente la tristezza calargli sulle spalle come un pesante mantello. Girò lo sguardo d’intorno, considerando automaticamente quanto sarebbe piaciuto quel posto a Karen e ridacchiando tra sé all’idea della marea di domande con le quali avrebbe subissato la povera artista.
“Le piace la nostra piccola isola?” domandò la donna, riportandolo al presente.
“Sì, è davvero molto graziosa! Soprattutto è molto tranquilla…”
“Già,” assentì lei “l’ideale per una coppia di innamorati…”
Il cuore di Stefan mancò un battito, la bocca si asciugò mentre un dolore lancinante gli attraversava il petto “Veramente…” riuscì a mormorare “Veramente sono qui da solo.”
“Oh.” L’artista fermò un istante la mano, portando l’attenzione su di lui e lo squadrò da capo a piedi. Quindi con un sospiro tornò a guardare la tavola che stava dipingendo, stringendo appena le labbra con disappunto “In cerca, allora…” azzardò.
“No!” Levin aveva quasi urlato, sollevando la testa di scatto e stringendo i pugni sulle ginocchia fino a sbiancare le nocche.
Il pennello s’arrestò a mezz’aria e lo sguardo castano si puntò in quello azzurro ghiaccio del giovane campione.
“Mi dispiace.” Le parole, seppur mormorate, risuonarono nitide nel silenzio del mattino.
“Lei non può capire.” Replicò lui, facendo per alzarsi.
“Un cuore spezzato è nulla in confronto ad uno che ha rinunciato ad amare.”
Stefan la sovrastava, immenso con la sua corporatura statuaria in quel piccolo ambiente “Lei non può capire… Lei non sa!”
“Ha ragione” continuò la donna, riprendendo a dipingere “Io non so. Ma ci vuole poco a capire. Nel suo sguardo si legge amore, eppure è qui da solo. E’ un cuore spezzato. Eppure non cerca consolazione, di nessun genere. Sta vivendo nel ricordo di qualcosa che non è più. Un moderno Orfeo. Ma Orfeo pagò cara la sua rinuncia all’amore.”
Stefan si risedette, poggiando i gomiti sulle ginocchia e chinando il capo tra le spalle.
Il suo dolore era tanto evidente che perfino una sconosciuta lo poteva leggere e percepire così chiaramente?
“E cosa sarebbe accaduto di tanto grave a questo Orfeo?” chiese lui ghignando. In realtà, non che gli importasse poi molto della risposta.
“Qual è la sua prossima meta, Stefan? Tornerà direttamente a casa da qui?”
La domanda lo spiazzò, ma servì a trarlo dal pozzo di dolore nel quale si stava rituffando “No, domani prenderò il traghetto per il Pireo e da lì andrò a Delfi…”
“Ah, peccato.”
“Perché?” chiese lui, più per riflesso condizionato che per vera curiosità.
“Tra due giorni daranno al Teatro di Epidauro l’ultima rappresentazione della stagione. Questa poi è piuttosto particolare, direi: un dramma greco rivisto da un grande autore romano ed interpretato da una compagnia italiana. Un evento insolito, molto particolare e, oserei dire, che farebbe assolutamente al suo caso…”
Epidauro…
Quel nome gli ricordava qualcosa…
In un lampo si ritrovò a casa, steso sotto una coperta accanto alla sua dolce Karen, la guida turistica aperta sulla fotografia di un antico teatro colmo di gente.
“Potrei andarci dopo essere stato a Delfi…” considerò ad alta voce.
La donna scosse il capo, stringendo le labbra “Non credo. L’ultima rappresentazione è dopodomani e Delfi è da tutt’altra parte.”
Il biondo sospirò, sistemandosi sulla poltroncina: l’Oracolo era l’ultima meta progettata da Karen, eppure la sua amata aveva più di una volta espresso il desiderio di assistere ad una di quelle rappresentazioni…
Poco prima che si congedasse, Eleftheria staccò un’ultima volta lo sguardo dalla tavola, sorridendogli  “La nostra mitologia è piena di storie di viaggi. L’importante, in un viaggio, non è il punto da dove si è partiti e, spesso, neppure la meta. La cosa fondamentale è il percorso che si è compiuto per raggiungerla.”
La mattina seguente l’orizzonte era rosa nella luce dell’alba, il traghetto borbottava piano nel silenzio dell’isola ancora addormentata.
Il giovane si mise lo zaino in spalla e s’avviò verso il porto.
La notte aveva rimuginato sulle parole della donna, ma alla fine aveva deciso: Delfi, l’ultima meta voluta da Karen.
Fermo nella sua convinzione si avviò sul molo, girando intorno a grandi mucchi variopinti di reti e lì, a pochi passi da lui, seduto nel mezzo del pontile, un micio rosso si stava pulendo il muso con una zampa.
Stefan s’immobilizzò un istante, poi sorrise e fece per passare oltre. Di gatti rossi su quell’isola ce n’erano a bizzeffe! Perché mai avrebbe dovuto essere proprio Yorgos?
Un dubbio, la curiosità, un sesto senso lo fermarono. Si girò verso il gatto e lo chiamò per nome.
Il micio si voltò con aria superiore, si alzò stiracchiandosi la schiena e gli si fece incontro, attaccando a fare le fusa non appena gli ebbe sfiorate le gambe.
Il ragazzo lo guardò sollevando un sopracciglio e scrollando un po’ il capo “Certo che non ti arrendi proprio mai tu, eh?” disse alla bestiola carezzandogli il pelo morbido.
In quel mentre arrivarono altri passeggeri ed il micio trotterellò via veloce, saltando in cima ad un ammasso di reti sul quale era steso un telo cerato. Levin salì a bordo del battello che l’avrebbe portato sull’isola maggiore, Paros, dove l’attendeva il traghetto per il continente. Si sedette in poppa, appoggiandosi alla balausta con un braccio e volgendo un ultimo sguardo in direzione del piccolo porto. Reti colorate, verdi, viola e arancio rallegravano il grigio cemento del molo. Sopra una di quelle collinette multicolori spiccava una piccola figura pelosa. Stefan rimase imbambolato a fissarlo, certo di sentire sulla pelle quello sguardo dorato penetrante.
Quando il micio non fu più che un ricordo dette un sospiro, chiudendo gli occhi e gettando il capo all’indietro, i pensieri confusi e accavallati mentre le parole della pittrice continuavano a risuonargli nelle orecchie.
Sette ore più tardi le gru del porto del Pireo svettavano ai lati del traghetto, formando una selva irta e spoglia che puntava rami secchi verso un cielo grigiastro.
Auto e camion scesero dall’imbarcazione facendo un gran rumore. Il calciatore fendette la folla, dirigendosi a passo deciso verso il capolinea degli autobus.
Si fermò nel casottino della biglietteria, cercando gli orari ed i numeri della linea che lo avrebbe portato a Delfi. Trovato un tabellone tolse lo zaino dalle spalle per prendere carta e penna, ma quando si rialzò l’occhio cadde su una delle pubblicità appese lì accanto. L’immagine di un teatro antico, immenso, campeggiava sul cartellone e faceva da sfondo al ritratto di una giovane attrice.  Il programma riportato in calce diceva che l’ultimo spettacolo sarebbe stato la sera del giorno seguente.
Stefan sfilò un depliant in inglese da un espositore e si mise a sedere su una delle panchine che davano sul piazzale degli autobus.
L’Orfeo, dalle Georgiche di Virgilio, regia di Andrea Sisti.
Moderno Orfeo l’aveva chiamato Eleftheria, e gli aveva suggerito di andare a vedere proprio quella rappresentazione. In un teatro antico, antichissimo per la verità, uno di quei luoghi che Karen avrebbe amato alla follia.
Sull’ultima pagina del depliant, gli orari dei battelli che portavano dal Pireo ad Epidauro passando per alcune isolette.  L’ultimo sarebbe partito di lì a poco.
In un viaggio l’importante non è la meta in sé stessa, quanto il percorso che si compie per raggiungerla…
Le parole gli tornarono in mente come una cantilena e gli parve di risentirle davvero mentre la sirena di una nave salutava il porto facendovi il suo ingresso.
Poche ore più tardi era sul ponte superiore di un piccolo traghetto. L’aria fresca carica di salsedine gli scompigliava il ciuffo biondo e lo sguardo freddo come ghiaccio era puntato verso il mare aperto.
Il sole era ormai quasi tramontato quando scese dal pullman e poté finalmente sgranchirsi le gambe. Le foglie argentate di decine di ulivi brillavano nella luce rossastra e un sentiero tra essi era delimitato da torce accese che indicavano il percorso. Il sito archeologico era enorme: ogni dove erano sparse colonne poggianti su quelli che erano gli antichi perimetri di templi e altari. Il percorso si snodava tra gli alberi fino a un grande spiazzo. Lì una struttura moderna in tubi e metallo sostituiva l’antica scenografia che chiudeva il palco del teatro. Stefan consegnò il suo biglietto e prese il libretto che gli veniva dato sul quale era riportata la traduzione in inglese del dramma.
Salì i logori scalini andando a sedersi al suo posto e si guardò intorno colpito: il grande teatro si apriva sotto ed intorno a lui in tutta la sua ampiezza, le scalinate di pietra chiara riverberavano la poca luce della luna che stava sorgendo pigra e quella baluginante delle torce accese lungo il perimetro. Unica fonte artificiale, dei fari che colpivano il centro del palco circolare, anch’esso in marmo avorio.
Il suono profondo di un grande gong annunciò l’inizio della rappresentazione.
Si fece buio, solo un fascio di luce illuminava il cerchio chiaro, al centro del quale era apparso un giovane vestito alla moda greca classica. Tra le mani teneva uno strumento di fattura antica dal quale iniziò a trarre poche note che risuonarono acute e limpide nella sera che si faceva sempre più fresca.
La musica si diffondeva d’intorno avvolgente e penetrante, senza necessità alcuna d’amplificazione. La struttura perfettamente studiata del teatro faceva sì che essa si diffondesse uniformemente e che pure gli spettatori seduti più in alto non perdessero una sola nota.
Il giovane iniziò ad accompagnare lo strumento col canto e, nonostante Stefan non capisse una parola, il senso di quella melodia lo colpì al cuore.
Un amore puro, profondo, struggente.
La brezza si levò dal mare e gli portò alle narici, insieme a quello caldo della salsedine, un profumo dolce e semplice, delicato eppure tanto forte da stordirgli i sensi.
Il profumo dei ricordi.
Avvertì come il tocco di dita fresche sulla propria mano che artigliava spasmodicamente il ginocchio, ma quando si voltò non vide altro che l’anziana coppia seduta accanto a lui.
Riportò l’attenzione sul palco ed in quell’istante un gruppo di fanciulle danzanti fece il suo ingresso, volteggiando attorno ad una giovane donna dai lunghissimi capelli biondi, raccolti in un’acconciatura intrecciata e complessa, la quale unì la sua voce a quella dell’uomo.
Orfeo cantava per la sua amata, Euridice, ed il biondo campione ripercorreva la sua breve ma intensa storia con Karen: il primo incontro a scuola, la sensazione di assurdo smarrimento ogni volta che lei gli rivolgeva la parola. Lui, che era sempre stato un ragazzo forte, carismatico, un leader già da giovanissimo, si scioglieva letteralmente come neve al sole dinnanzi a quel sorriso e a quegli occhi.
E poi il primo bacio.
La prima volta…
Un refolo d’aria spirò tra le foglie d’ulivo andando a carezzargli le labbra sulle quali s’erano spente due lacrime non trattenute.
Karen era la sua Euridice, la donna amata più della stessa vita e persa in un istante per una tragica fatalità.
La voce di Orfeo riempì l’aria immota del teatro ed il suo canto di dolore risuonò nell’anima di Stefan che riandò a quel giorno maledetto: la gioia per aver vinto il Campionato cancellata dalla notizia della morte della sua dea.
Il mondo che gli crollava addosso.
Quel mondo del quale non gli importava più nulla perché senza di lei neppure il calcio aveva più un senso.
E la sua personale discesa all’Inferno…
Orfeo cantava, blandendo Caronte, acquietando le Furie, commovendo Persefone fino a convincerla a chiedere la grazia ad Ade suo sposo per quell’uomo distrutto dal dolore e dall’amore.
Il capitano svedese provò un moto d’invidia per quel suo compagno di sventure, al quale era stata data un’opportunità così grande, la possibilità di ricominciare a vivere… Quell’opportunità che lui, si disse, non avrebbe sprecato con un gesto tanto sciocco, no! Questo pensava nel momento in cui le luci si spegnevano ed i tamburi rullavano cupi, mentre Euridice svaniva e il poeta si disperava per aver avuto fretta di guardare nuovamente la sua amata, perdendola così per sempre.
Orfeo, solo al centro del palco, gridava folle la sua disperazione, si struggeva, dandosi la colpa dell’accaduto, piangendo le proprie disgrazie fino a giungere ad una drastica conclusione: mai più avrebbe amato. Il suo cuore era solo per lei e nessun’altra l’avrebbe avuto.
“Mai nessun’altra…” sussurrò piano il giovane sugli spalti, sentendo nel petto il cuore battere adagio e rimbombare come in un antro vuoto.
Anche ora che non era più, Stefan viveva per lei.
Era tornato a giocare a calcio mettendoci impegno a passione perché così Karen avrebbe voluto. Perché non voleva deluderla. E ogni partita, ogni vittoria era per lei.
Aveva rifiutato gli inviti di diverse ragazze e scansato i tentativi dei compagni di squadra di organizzargli incontri galanti, rispondendo con un sorriso che no, lui stava bene così.
Si riconosceva in quella figura solitaria sul palco, il capo chino e gli occhi persi a rimirare un viso che solo lui poteva vedere, nel cuore e nella voce un solo nome…
D’improvviso il cerchio chiaro si animò: giovani agghindate con corone di foglie e frutti cominciarono a danzare intorno al figlio di Calliope, cantando allegre, rivolgendogli dolci inviti, mostrandogli tutte le tentazioni della vita, ricordandogli quanto facesse sentire vivi l’amore, quello vissuto davvero e non solo nel ricordo.
Ma Orfeo le scacciò, richiudendosi su sé stesso, rifiutandosi di ascoltarle.
E allora l’ira delle baccanti fu grande.
E fu la fine.
Le luci si spensero,  così il canto triste delle muse, le cui ultime note risuonarono nel petto del biondo attaccante in una lunghissima eco.
Il teatro si svuotò pian piano, le candide gradinate baluginavano al tenue chiarore della luna ormai alta mentre una brezza fresca spirava dal mare lontano.
Stefan rimase seduto sulla fredda pietra fissando il palco ormai vuoto e spento.
Moderno Orfeo…
Le parole di Eleftheria gli risuonavano nella memoria, facendosi sempre più chiare.
Aveva perso la sua donna ma non si era dato per vinto. Aveva compiuto quel viaggio per ritrovarla, per averla vicina una volta ancora, per sentirne sulla pelle il tocco delicato ed assaporarne il profumo inebriante. Perso nell’illusione di poterla riportare a casa.
“Se si deve vivere la vita senza amare, rifiutando l’amore persi nel ricordo di un fantasma del passato, allora non ha senso vivere, perché, in fondo, si è già morti. Dentro.”
La voce femminile alle sue spalle lo fece sussultare e si voltò di scatto, trovandosi accanto una figura alta, avvolta in un caldo scialle di lana nera tessuta finemente.
La donna non lo guardò, si andò semplicemente a sedere accanto a lui senza staccare gli occhi castani dal palco deserto.
“Sono felice che alla fine lei abbia deciso di venire fin qui, Stefan.”
Levin la guardava imbambolato, stupito ed interdetto dalla sua apparizione.
Sollevando un sopracciglio biondo chiese titubante: “Ma lei… Cosa ci fa qui?”
L’ artista si voltò, ridacchiando “Sono venuta a vedere l’ Orfeo, mi sembra ovvio!”
Il giovane la guardò sempre più basito, ma Eleftheria riprese “Ha tratto giovamento da questa rappresentazione?”
La domanda, posta così, a bruciapelo, lo lasciò un istante senza parole. L’azzurro ghiaccio dei suoi occhi si fece cupo, rivelando il tormento che quella serata aveva portato alla luce dopo settimane di menzogne e finzioni.
Lei si alzò, invitandolo  con un cenno del capo a seguirla “Venga,” disse “vorrei farle conoscere una persona interessante.”
Dietro le quinte gli attori ridevano e scambiavano battute mentre si struccavano e cambiavano d’abito.
“Andrea!”  Un uomo alto dai corti capelli neri si volse a quel richiamo e sorridendo si fece loro incontro, andando ad abbracciare l’accompagnatrice di Stefan, il quale si trovò faccia a faccia con Orfeo.
L’attore fece tanto d’occhi alla vista del giovane campione e chiese spiegazioni alla donna, che li presentò.
“E’ davvero un grande onore conoscerla, signor Levin!” disse l’uomo in un buon inglese, tendendo la mano con un gran sorriso e contemporaneamente continuando a tamponare il collo con un panno nel tentativo di togliere parte del trucco.
“Lei mi conosce?” chiese Stefan stringendogli la mano, stupito.
“Certo! Il calcio è la mia droga quando sono fuori dal teatro! Un gran peccato la partita col Giappone, ma quei samurai non si arrendono davvero davanti a nulla!”
L'attaccante sorrise al ricordo. In fondo quella sconfitta a qualcosa era servita…
“Mi fa davvero piacere averla qui! E’ appassionato di teatro greco? Le è piaciuto lo spettacolo?”
“Veramente…” il campione si trovò spiazzato, il suo sguardo saettò veloce in direzione della donna che sorrise e rivolse al compagno poche e brevi parole nella loro lingua.
Andrea annuì serio, rivolgendo al giovane un’ occhiata intensa. Quindi sorrise, ponendogli amichevolmente una mano sulla spalla “Non è mai il Caso a condurci in luoghi che non ci aspettavamo di visitare, ma il Fato. E spesso queste piccole deviazioni nel nostro viaggio portano grandi cambiamenti perfino nella meta da raggiungere. Venga, le mostro una cosa.”
L’attore invitò il suo  ospite a seguirlo. Si diresse verso la grande tenda che separava le quinte dal palco, la scostò un poco, facendo strada.
Visto da laggiù, il teatro pareva ancora più grande, immenso.
Le ampie scalinate avvolgevano il palco, alte, imponenti, silenziose.
La luna era velata da nubi leggere ed il candore del marmo ne rifletteva appena la fioca luce lattiginosa e la volta celeste era ormai invasa dalle stelle.
Il tempo si era fermato, o forse era tornato indietro. Oppure, in quel luogo, semplicemente non esisteva.
Andrea si sedette in terra, le gambe piegate e le braccia stese sulle ginocchia, lo sguardo che vagava senza meta sugli spalti d’intorno.
Levin gli si fece accanto, osservandolo in silenzio.
“Ho letto della disgrazia che l’ha colpita. Mi dispiace.” La voce dell’uomo risuonò bassa ma chiara nel silenzio della notte.
“Grazie.”
“Stasera era la prima volta dopo tre anni che tornavamo a mettere in scena l’ Orfeo.” Di nuovo, le parole furono pronunciate quasi in un soffio “Tre anni fa ho perso mia moglie. E ho smesso di vivere.”
Stefan si voltò di scatto, gli occhi spalancati dalla sorpresa ma non poté dire nulla, l’altro aveva ripreso a parlare “Mi sono gettato corpo e anima nel lavoro. Senza darmi tregua, senza fermarmi mai, fermo nella convinzione che non avrei amato nessun’altra perché potevo amare solo lei.”
Il biondo annuì piano, fissando il profilo netto e regolare dell’uomo che aveva di fianco. Sapeva cosa provava.
“Smisi anche di mettere in scena l’Orfeo…” Andrea ridacchiò, scuotendo il capo.
“Perché?” la domanda fu formulata come un pensiero ad alta voce.
L’altro levò lo sguardo al cielo e chiuse gli occhi, sorridendo un sorriso triste “Quello di Euridice era il ruolo preferito di Maria…”   fu la risposta.
Rimasero in silenzio per un po’, ascoltando la musica lontana e monotona delle cicale. Poi la voce profonda riprese a raccontare: “L’anno scorso una donna si presentò dopo che avevamo terminato l’ Agamennone. Era un’amante del teatro classico e mi chiese perché non mettessimo  più in scena l’Orfeo. Le risposi piuttosto sgarbatamente e feci per cacciarla, quando mi chiese se non avessi imparato nulla da quella storia che tante volte avevo interpretato.”
Si voltò, guardandolo negli occhi con uno sguardo sereno, mentre in quello del giovane si leggevano i segni della lotta che si stava svolgendo nel suo animo tormentato.
“Orfeo è uno sciocco, Stefan. Non vuole arrendersi all’ineluttabilità della vita e quello che riporta dall’Ade non è che il fantasma della sua donna. Orfeo parte solo per il suo viaggio e torna solo, e non può essere che così. Ma il suo errore più grande consiste nel perseverare in quell’amore che è solo ossessione, precludendosi l’amore vero che è vita. Le baccanti uccidono il suo corpo, ma egli, in realtà, era già morto.”
Fuori dal teatro era ormai buio. Le fiaccole s’erano consumate ed il sentiero tra gli ulivi non era altro che un nastro grigiastro steso tra l’erba secca.
La compagnia teatrale l’aveva invitato sul pulmino che li avrebbe ricondotti in città.
Camminava piano seguendo gli altri stando lontano qualche passo quando delle voci alle sue spalle lo fecero fermare e voltare: Andrea ed Eleftheria passeggiavano mano nella mano, chiacchierando e ridendo sottovoce, fermandosi a tratti per scambiarsi un bacio a fior di labbra.
Stefan sorrise scuotendo il ciuffo biondo e si riavviò.
La brezza leggera della sera gli carezzò il volto e gli parve di scorgere, mischiato al sapore del sale, un tenue profumo di viole.
Lei non avrebbe mai voluto vederlo in quello stato.
Lei odiava le menzogne.
E in quei mesi la sua vita non era stata altro che una menzogna.
Lei non l’avrebbe mai voluto vedere morire a quel modo.
La coppia alle sue spalle lo superò. I due lo guardarono con un sorriso ma non si fermarono, lasciandolo ancora un poco solo coi suoi pensieri.
Le cicale cantavano e l'aria era rinfrescata da un leggero venticello.
Si fermò, voltandosi un'ultima volta a guardare il grande teatro che in quel momento appariva come un'enorme voragine intagliata nel fianco della collina.La Via Lattea ammantava il cielo con miriadi di stelle ed il giovane sorrise triste, ricordando le notti passate abbracciati dopo aver fatto l'amore, facendo a gara a chi riconosceva le costellazioni. Karen, ovviamente, lo batteva sempre...
Diede un sospiro, affondando le mani nelle tasche.
Mai in quei mesi solitari si era sentito tanto vicino a lei come in quei luoghi.
Fece per dare le spalle alla grande struttura quando un balenio soffuso ai piedi delle grandi colonne che chiudevano il palco attrasse la sua attenzione.
La luna era ormai tramontata e nessuno era rimasto nei camerini improvvisati.
Guardò meglio, ed il sangue si gelò un istante prima di ricominciare a scorrere veloce, spinto dal cuore che batteva rapidissimo.
"Karen..."
In quel luogo di tempo sospeso credette di stare vivendo la realizzazione del suo sogno più grande. Fece un passo in direzione di quella che gli pareva una figura umana vestita di bianco, una figura conosciuta ed immensamente amata.
Poi un altro ed un altro ancora.
La brezza di mare gli portò il suo profumo ed un suono ovattato che era la sua voce lontana.
Stava per mettersi a correre, per andare da lei, stringerla tra le braccia, baciarla, annientarsi nel suo profumo di viole e nel suo sapore di pesca.
E riportarla a casa
Abbandonò lo zaino e si mise a correre, lo sguardo fisso in quel punto tra le fronde degli ulivi e sulle labbra il nome di Karen ripetuto all'infinito. Uscì da sentiero, scansando i resti di colonne e capitelli sparsi a terra ma l'oscurità lo beffò. Si trovò in ginocchio, dolorante, i palmi graffiati dall'erba secca e dal pietrisco. Lacrime amare rigavano il volto mentre ad occhi serrati non aveva il coraggio di rialzare il capo e cercare quello che sapeva essere solo follia.
Un fruscio lì accanto fece perdere un battito al suo cuore. Spalancò gli occhi nel buio.
Si voltò adagio.
E sorrise.
Una gatta candida, evidentemente incinta, miagolò sommessamente e gli si fece vicina, andando a strusciarsi voluttuosamente contro le sue braccia ancora tese a parare la caduta a terra.
Stefan rise, sedendosi tra i bassi sterpi e pulendosi le mani dalla sabbia, e carezzò la bestiola che per ripagarlo cominciò a fare le fusa.
Con un sospiro amaro alzò gli occhi nella direzione in cui stava correndo.
Buio.
Solo freddo e tetro buio.
Afferrò la catenella che portava al collo, levando lo sguardo al cielo.
"Un moderno Orfeo..." disse tra sé, scuotendo il capo e rialzandosi adagio.
Scrollò i pantaloni dalla sabbia e diede un'ultima carezza alla micia mentre s'apprestava a recuperare lo zaino. La brezza gli sfiorò il volto ed egli l'aspirò a pieni polmoni, riconoscendovi quel profumo che era solo nei suoi ricordi. Rialzò la testa, portando automaticamente la mano al medaglione.
"Ti amo." Sussurrò.
Un miagolio  risoluto lo richiamò all'ordine ed egli ridacchiò, chinandosi a sfiorare la testolina morbida "Agli ordini!" esclamò grattando la micia sotto la gola "Andiamo, signorina? Ah, no! Signora!" Così dicendo fece qualche passo, ma la bestiola si sedette con fare marziale, portando la lunga coda attorno al corpo fino a coprire le zampine. 
Stefan ristette, fissando incantato per secondi eterni il suo sguardo in quello ammaliatore e misterioso della gatta.
"No." disse scuotendosi "No, tu devi rimanere qui, non è vero? Ed è giusto che sia così."
Le diede le spalle e si avviò con passi risoluti verso le luci lontane del piazzale dove l'aspettavano gli altri.
Non si voltò. Non ne aveva più bisogno.
La vita gli scorreva davanti e Karen non avrebbe mai voluto che lui si fosse fermato sulla riva di quel fiume meraviglioso ad appassire.
Avrebbe ricominciato a vivere e sì, anche ad amare.
L' avrebbe fatto per lei, perché vivere ed amare sarebbero stati il tributo più bello alla sua memoria.
E lui non l'avrebbe dimenticata.
Mai.
Diciotto ore più tardi il suo aereo atterrava nella fredda Stoccolma.
Il cielo era terso, limpido ma il sole che brillava nel cielo non era quello bruciante della Grecia. Il suo calore era tenue, sopportabile. Aveva il tepore di casa.
Il capitano della Nazionale giovanile svedese attraversò la zona degli arrivi salutando e concedendo brevi sorrisi ai fan che lo riconoscevano.
Camminava svelto, senza guardare avanti, intento a riaccendere il cellulare quando si sentì chiamare da una vocina squillante.
"Capitano!" Un paio di codini castani spuntarono tra la folla che s'accalcava fuori dalle porte scorrevoli.
"Shelly! Ma cosa ci fai qui?" chiese il capitano alla manager andandole incontro con un sorriso.
La ragazza arrossì vistosamente, dimenticando all'istante le scuse che s'era inventata per quell' occasione.
"Allora?" incalzò lui.
"Beh ecco... sapevo che saresti tornato e allora..."
In quel momento il cellulare di Levin si mise a squillare "Pronto! Ciao Michael! Sì, sono arrivato giusto adesso! Cosa? Una cena a casa tua con i ragazzi?"
Stefan guardò Shelly che annuì con energia. Sorrise dell'evidente imbarazzo della giovane ma continuò a parlare col compagno di squadra "Sì, ok, fammi andare a casa a farmi una doccia e poi ti faccio sapere se ci sono o no. Ok? A dopo!"
"Oh capitano, dai! L'hanno organizzata per te!” intervenne la ragazza con calore “Dopo il Mondiale sei sparito, abbiamo saputo solo per caso che eri partito, hai staccato con tutto e con tutti, eravamo preoccupati e..."
Non terminò di parlare, il dito indice del suo capitano posato leggermente sulla labbra ad impedirle di continuare mentre le faceva l'occhiolino con un sorrisetto allegro.
"Shelly... Non ho detto "no". Ho detto che se non crollo addormentato dopo la doccia, vengo, ok?" Le liberò le labbra, che erano diventate istantaneamente bollenti sotto quel tocco mentre le guance, già imporporate, avvampavano del tutto.
"Sì, capitano." Gli rispose con un fil di voce.
"Bene!" riprese Stefan, stiracchiando la schiena "Allora, visto che ci sei, che ne dici di accompagnarmi a casa?"
Lei lo guardò esterrefatta, la bocca aperta sulla quale pian piano si dipinse un enorme sorriso.
"Dì, sbaglio o ti ha fatto davvero bene questo viaggio, capitano?!"
"Sì," rispose lui, le iridi chiare che s'incupivano un istante in ricordi lontani per poi tornare limpide e vive come non lo erano da mesi "questo viaggio mi ha fatto bene..." e portò istintivamente una mano al medaglione.
La ragazza notò il gesto, rattristandosi un poco. Stefan vide quell'ombra sul suo viso e le sfiorò il mento sottile con un dito, costringendola a sollevarlo e a guardarlo negli occhi "Non ho viaggiato solo... Ma sono tornato solo. Ed è giusto che sia così."
Sorrise, dolce e sereno e lei ricambiò quel sorriso, annuendo adagio, non comprendendo il significato di quelle parole ma avvertendo intimamente che qualcosa era cambiato. Il cuore del suo capitano aveva ricominciato a battere e, forse, si apriva per lei una piccola speranza di conquistarlo.
Uscirono dall'aeroporto fianco a fianco, chiacchierando e ridendo.
Il cielo era sereno ed il sole stava già tramontando, tiepido e placido.
Lontano, in un luogo fuori dal tempo, una gatta bianca camminava indolente su una candida superficie di marmo, dalla quale emanava il tepore raccolto nelle ore del dì sotto la calura estiva.
Si sedette al centro del grande cerchio chiaro, regale nonostante la pancia prominente le sformasse la linea dei fianchi, e girò lo sguardo sornione sull' ampio catino intagliato nella roccia che si stendeva attorno a lei.
La brezza della sera le arruffò un poco il pelo. L'annusò, socchiudendo le palpebre morbide sulle iridi dorate, valutando quel profumo dolce e sconosciuto che si mischiava con quello noto del mare e della terra.
Nel silenzio della sera che calava pigra su quelle pietre antiche, il vento cessò e le cicale cominciarono il loro concerto, riprendendo possesso del grande teatro.
E quando di nuovo la brezza spirò dal mare, portò soltanto il sapore caldo della salsedine.

 

 

 

 

 

   
 
Leggi le 10 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Captain Tsubasa / Vai alla pagina dell'autore: eos75