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Autore: ofarrowsandbows    04/10/2013    0 recensioni
"After all you put me through
You'd think I'd despise you
But in the end I want to thank you
'Cause you made me that much stronger"
 
Immagino che a qualcuno di voi avrebbe fatto piacere se avessi iniziato questa storia partendo col dire che essere un semidio o una semidea è un’esperienza bellissima. Per l’amor degli dei, lo è – nei momenti in cui i mostri non decidono di attaccarti – ma per il resto è una gran seccatura. I problemi peggiori arrivarono quando si presentò questo ragazzino, Percy Jackson. Col senno di poi, vedendo crollare il luogo in cui vivevo da neanche un anno, sarei scappata in Kazakistan, lontano dalla fortezza di Crono e dalla “bara” che conteneva colui che fino a qualche giorno prima era uno dei miei migliori amici. E confidente. E fidanzato. E padre di mio figlio. Ma andiamo con ordine. Sono Helena Novak, figlia di Atena. Avevo diciannove anni, quando mi ritrovai in questo gran casino.
Genere: Avventura, Commedia, Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altro personaggio, Luke Castellan, Nuovo personaggio, Quasi tutti
Note: What if? | Avvertimenti: Spoiler!
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La mattina andavo a scuola con il sorriso sulle labbra, vedevo schiere di bambini fare il muso lungo già a due chilometri prima dell’entrata della scuola, mentre mi fissavano increduli perché io volevo imparare le cose. Era questa la giustificazione al fatto che piangessi quando terminavo i compiti o che a otto anni avevo letto più libri di un ragazzo di quattordici, a dirla tutta a me questa cosa metteva i brividi, ma tralasciamo.

Oh, dimenticavo. Vivo a New Haven, insomma, chi non conosce questo bellissimo posto situato in Connecticut? Ripensandoci.. sarei dovuta nascere altrove.

Mio padre si chiama Jonathan, insegna letteratura a Yale, la cosa gli piace molto, perché tutte le volte la ricorda come il luogo in cui ha trovato l’amore. Immagino che parli di mia madre.

Ora, dovete sapere che fino ai dodici, tredici anni, non avevo la minima idea di chi fosse. Sapevo solo che papà era rimasto colpito dai suoi occhi grigi e la sua inestimabile saggezza e intelligenza, e che dovevo ritenermi fortunata ad averli ereditati, perché erano una rarità… certo.

Ma come stavo dicendo, non conosco mia madre, per quanto ne so è morta quando ero troppo piccola per ricordarmi di lei, e l’argomento,  a meno ché non lo tiri fuori mio padre, è un tabù. Giusto per tenervi al corrente del fatto che in casa Novak vige una dittatura stretta per quello che riguarda la famiglia.

Successe che a undici anni una signora abbastanza ambigua che stava camminando per fatti suoi quasi tentò di sbranarmi viva, quindi papà prese un paio di cose alla rinfusa e beh.. benvenuti a Westport.

Non fraintendetemi, è una città davvero carina, ma quando vivi per undici anni sempre nello stesso posto un po’ scoccia dover ricominciare tutto da capo e adattarsi. E per una come me adattarsi in mezzo a un branco di preadolescenti non era il massimo.

Il mio primo giorno di scuola fu disastroso, anche se, col senno di poi, disastroso era più che esagerato. Una penna spezzata in due – non chiedetemi come  sia accaduto – uno zaino che stava per andare a fuoco e il mio libro preferito finito in una delle tazze dei bagni. Si, ero così sfigata che sembravo avere un neon sopra la testa con scritto di tormentarmi per tutto l’anno.

Col passare del tempo, imparai a non portare più a scuola i miei libri e romanzi e soprattutto capii che c’era tanta gente come me, gente che si sentiva un po’.. fuori dal mondo.

Al contrario delle mie “amiche”, non credevo che i ragazzi avessero i pidocchi. Anzi, a scuola, quando arrivavano le comunicazioni, le prime persone a cui pensavo erano le bambine che si vantavano di avere i capelli più lunghi. Ma vabbè, come stavo dicendo, se dal lato femminile io risultavo essere l’asociale, dal lato maschile c’era un bambino che mi superava tranquillamente.

Si chiamava Luke, non indagai mai di più, almeno fino alla fine dell’anno. Aveva i capelli biondi e gli occhi di un azzurro che al confronto il cielo era niente. Se ne stava sempre in disparte, lo sguardo rivolto verso un punto fisso e un’espressione neutra in volto. Papà mi diceva sempre di stargli alla larga, e io lo feci. Più o meno. Col senno di poi mi sono accorta che non avevo fatto un gran bel lavoro.
Iniziò tutto il ventuno giugno, lo ricordo come se fosse ieri.

Era sera inoltrata, tutte le persone che di solito popolavano la città erano rintanate in casa al fresco di un ventilatore, o al mare, a godersi una meritata vacanza. Noi stavamo a casa, papà diceva che non potevo prendere il sole. Iniziai a pensare che fosse un tantino schizzato, ma lui era niente in confronto a May Castellan. Ma andiamo con ordine.

Stavo dicendo,  ero affacciata alla finestra, guardavo la luna piena e mi accorsi che qualcosa – o meglio qualcuno – stava uscendo velocemente dalla casa che stava di fronte alla mia, quattro metri a destra.

Non era la prima volta che vedevo questa cosa, ma quell’evento in particolare fece scattare la scintilla. E lo sanno tutti che le rivoluzioni nascono dalle scintille, appunto. Anche lui lo sapeva.

Mi armai di un coltello da cucina, di quelli che la gente normale usa per sbucciare le mele o che so io. Nonostante tutto ero una bambina irrequieta, devo ammetterlo. Trovarmi allo stesso posto per più di cinque minuti era già troppo. Immagino che in un certo senso, papà se lo aspettasse, che scappassi così, senza dire nulla.

Seguii il “bandito” fino ad un vicolo cieco, prima ancora lo avevo spiato mentre disintegrava un paio di quelle tipe strane che avevo visto anche io. E dire che a suo tempo io urlai come se avessi visto chissà cosa. guardandolo sembrava quasi naturale, addirittura un qualcosa bello da vedere. Per quanto possa essere bello vedere un undicenne che sgozza mostri.

- Perché mi stai seguendo, Novak?

Non si era nemmeno girato, ma così, per puro istinto, mi ritrovai a guardarmi intorno spaesata.

- Cosa?

- Perché mi segui, cosa vuoi?

- Niente – dissi, portando le braccia dietro la schiena – Sei strano, diverso.

Luke si voltò mostrandomi l’arma ancora un po’ sporca.

- Non sono un assassino, Novak. Non puoi capire..

- Li vedi anche tu, vero Luke? – esordii, sovrastando quello che stava per diventare un inutile monologo. Luke inarcò le sopracciglia e capii che ci avevo visto giusto.

Non sapevo bene perché, ma qualcosa mi diceva che c’era un non so che di strano di quel bambino, strano nei limiti del normale, se così si può dire. Sembrava come.. spaventato, sempre alla ricerca di qualcuno o qualcosa che lo distraesse dai momenti che doveva passare a casa.

- Non dovresti essere qui. Non sai come si combattono.

- Non so tante cose. Credo.

- Ma a scuola vai bene, sei la più brava e sei dislessica.

- Siete delle capre svogliate – dissi schifata – non ci vuole molto.

Mi parve quasi di vedere un sorriso comparire sul suo volto.

- Sono figlio di Ermes. So che vuoi saperlo. - disse ironicamente.

- Infatti.

- Ora lo sai. Tu di chi sei figlia?

Stetti in silenzio. Non sapevo nemmeno cosa dire per sviare la conversazione.

- Ecco, appunto. Indeterminata. Magari aspetterà la tua morte per riconoscerti.

- La mia morte? – chiesi in un misto di curiosità e paura. Luke sospirò tirando fuori il suo coltello.

- Sai lottare?

- Anche no? – risposi sarcastica.

- E allora ti insegnerò io.

E fu così per più o meno tutta l’estate, quel vicolino distante dalla città era diventato una specie di scuola per accoltellatori di mostri, poi, l’ultimo giorno d’estate, arrivò la proposta.
No, non quella di fidanzamento. Io e Castellan eravamo soci – se così si poteva dire – in combattimento e sconosciuti durante le ore diurne.

- Voglio andare via. – disse mettendosi a sedere sull’asfalto in modo scomposto.

- Sei pazzo.

- Ci sono tanti ragazzi e ragazze come noi, non dovremmo più uccidere mostri di notte e menate varie. Potremmo essere ragazzi normali.

Nel corso dell’estate appresi che i semidei, così venivamo chiamati, erano tutto tranne che normali. Alcuni ragazzi dicevano che avevano degli insegnanti mostri e io naturalmente credevo alle loro parole. Non mi stupivo più di nulla, avevo capito che in un certo senso, tutto quello che mi avevano raccontato come “storie per spaventare i bambini” alla fin fine nascondevano un fondo di verità.

- Non posso venire Luke. – dissi tenendo lo sguardo fisso su un sassolino, neanche potesse iniziare a ballare la macarena li in mezzo a noi – Io.. non pensi a tua madre?

Avevo avuto l’occasione di conoscere May Castellan, una volta, e mi sembrò una signora fantastica, finché non mi urlò in faccia di scappare via, lontano dal figlio, perché poi me ne sarei pentita. Ora dicono che la vecchia May sia svalvolata al massimo, ma credetemi, ci aveva visto giusto.

- Tuo padre è normale – disse con disprezzo – lei.. lei è pazza, mi fa paura a volte.Vieni a casa mia allora. – dissi. Beata innocenza. Luke sorrise tamburellando con le dita sull’asfalto.

- Non è così semplice. Due semidei nello stesso posto sono più rintracciabili di due che si vedono solo di notte per cacciare mostri e allenarsi insieme. E poi.. non credo che a tuo padre farebbe piacere.

Riuscii a capire il senso di quella frase solo quando, tornata a casa, papà mi disse che stavo diventando una signorina e non me ne potevo andare a giro da sola con un compagno di classe, chiunque egli fosse.

Lui non seppe mai del perché ci vedevamo, gli dicevo solo che facevamo i compiti insieme, ma quando iniziai a sparire da un momento all’altro, durante la notte, per poi riapparire nel mio letto la mattina dopo, un paio di domande se le era fatte – giustamente.

Avevo circa tredici anni, si, quando Luke partì per una meta non definita. Immagino che alla fine avesse deciso di andare a raccattare semidei in giro per l’America. Io rimasi a Westport, con la promessa che un giorno, forse, ci saremmo rivisti in un luogo in cui potevamo avere degli amici che non ci avrebbero classificati come asociali e che avrebbero voluto bene per quello che eravamo.
   
 
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