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Autore: TheGreedyFox    04/10/2013    4 recensioni
Nessuno sembrava capire il motivo di quei baffi...
E John non aveva nessuna intenzione di dare spiegazioni in merito...
Erano i suoi baffi e solo lui ne conosceva la storia.
E non li avrebbe tagliati per nessun motivo al mondo.
Finché una mattina...
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: John Watson , Lestrade , Mycroft Holmes , Sherlock Holmes , Sig.ra Hudson
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Questa è la mia prima fan fiction su Sherlock. Ha sorpreso persino me, visto che non credevo ne avrei mai scritta una. Eppure eccomi qui, con questa one shot nata quasi per caso, in seguito al bombardamento mediatico subito dai baffi del povero John! Continuerò sempre a ripeterlo: adoro il fandom di Sherlock e la sua insuperabile ironia!!! E poi, in qualche modo, devo pure ingannare l'attesa per questa tanto sospirata nuova stagione!!!
Enjoy!
Sofy   
 


Moustaches

 

Nessuno sembrava capirli quei baffi. 
Non li capivano le donne con cui usciva, le quali si lamentavano sempre quando lui le baciava.
Non li capivano i suoi colleghi, che non facevano che digli quanto lo invecchiassero.
Non li capiva Mrs. Hudson, la quale li guardava sempre stringendo le labbra, con disapprovazione, ogni volta che lui andava a trovarla, e poi lo salutava scuotendo la testa, rivolgendogli uno sconsolato “John, caro...” e lo abbracciava un secondo troppo stretto e troppo a lungo, come se pensasse che avesse ancora bisogno di conforto, e poi correva a preparargli un tè, mentre lui si accomodava in poltrona. La sua vecchia poltrona.
Non li capiva Lestrade, quando si incontravano la sera per farsi una birra.
Greg ormai era un buon amico, eppure anche lui, ancora adesso, dopo ben tre anni, mentre era intento a parlargli dell’ultima combinata da Anderson, o della sua ex moglie, continuava a lanciargli veloci sguardi di sottecchi, sguardi pensierosi, preoccupati, pieni di compassione.
- Allora, non hai proprio intenzione di tagliarli? Ti danno l’aria stanca, lo sai? – Gli diceva sempre l’ispettore, con voce distaccata, come se fosse un’osservazione buttata lì per caso e non un consiglio che gli ripeteva ogni santa volta.
E quando John gli rispondeva che no, non pensava di farlo, Lestrade abbassava un attimo lo sguardo, imbarazzato, poi si schiariva forte la voce e gli diceva: - Sai John, se hai bisogno di parlare... – e non finiva mai la frase, perché in fondo non ce n’era bisogno, perché quel “io sono qui” che non aggiungeva mai, era insito nella ruvida simpatia che John gli leggeva negli occhi, della quale però, non sapeva che farsene.
Non c’era niente di cui parlare.
Erano solo baffi ed la loro funzione era chiara, solo che nessuno la capiva.
Neanche Mycroft, nonostante la sua sottile intelligenza.
Quando se lo trovava di fronte dopo averlo mandato a chiamare, Mycroft sembrava sempre sorpreso, quasi sbigottito, come se avesse bisogno di un momento per riconoscere dietro quei baffi l’uomo di un tempo. Poi la sorpresa mutava in rammarico, come se la condizione di John fosse qualcosa di cui incolparsi, di cui dover portare il peso.
Mycroft sembrava sempre un po’ più stanco e curvo, dopo uno dei loro incontri.
Ecco perché John non andava quasi più da lui.
Quando vedeva la limousine con accanto Anthea, faceva finta di essere sovrappensiero, o di essere in ritardo per un appuntamento. Passava dritto senza fermarsi e lei non lo chiamava, continuava a giocherellare col suo cellulare, perché probabilmente Mycroft le aveva detto di non insistere, di accompagnarlo da lui solo se John lo desiderava.
Del resto non avevano motivi per rivedersi ancora.
John non era più un famoso blogger, non era più la spalla di un geniale consulente investigativo, John era semplicemente un dottore, e di certo, l’uomo che da solo muoveva le fila del governo inglese, poteva fare a meno di lui e del suo modesto aiuto.
No, se Mycroft Holmes lo mandava a chiamare, era solo per rivivere i tempi che furono, per ricordare... o forse per dimenticare, anche solo per poco, che nulla sarebbe mai stato come prima.
Però i baffi di John lo ferivano.
Come sembravano ferire chiunque.
Eppure John, all’inizio, non li aveva neanche voluti, quei baffi.
Non erano stati una sua scelta.
Se li era ritrovati ormai folti sul viso all’improvviso, cresciuti senza che lui gli desse peso, durante le due settimane successive al disastro.
Era così che lo chiamava, “il disastro”, come se fosse stato un incidente e non qualcosa che lui avesse scelto. Un disastro sembrava qualcosa che non si sarebbe potuto evitare, sapeva meno di sconfitta, di abbandono, e faceva meno male.
John aveva tenuto insieme i pezzi fino al funerale, perché si era detto di essere un ex soldato e di aver già conosciuto la morte. Inoltre lui aveva sempre apprezzato la sua forza d’animo e quindi John non aveva voluto mostrarsi debole. Poi però, nei quindici lunghi giorni che erano seguiti, si era riscoperto apatico e spento, senza la voglia di uscire, di andare al lavoro o anche solo di guardarsi allo specchio.
Non era stato il dolore ad impedirgli di muoversi, di parlare con qualcuno o di alzarsi da quel divano, piuttosto un senso di stordimento, di incredulità.
Sherlock era morto.
Erano morti i suoi occhi, era morto il suo violino, la sua vestaglia, i suoi proiettili contro il muro.
Era morta la scienza della deduzione, era morta la voce profonda e sprezzante che lo spronava sempre a fare meglio, che lo spingeva a pensare... il modo in cui le sue labbra si curvavano quando gli si faceva un complimento.
Tutto andato. Sparito.
Tuttavia il mondo andava avanti lo stesso.
John Watson andava avanti lo stesso.
Non aveva senso.
Tanto per cominciare, senza Sherlock non ci sarebbe stato nessun Watson, non il Watson che ormai tutti conoscevano, quello in cui lui l’aveva trasformato. Il Watson che non zoppicava, che non aveva incubi, che poteva permettersi un appartamento in centro e che per hobby scriveva su un blog, raccontando avventure che senza Sherlock non avrebbe mai vissuto.
John non sapeva più come essere quell’uomo.
Da dove cominciare.
Poi, una mattina, si era guardato allo specchio e si era riscoperto con quei baffi.
E per un attimo gli era sembrato di essere tutta un’altra persona.
Non l’uomo che aveva vissuto a Baker Street ed era stato protagonista di appassionanti casi al limite del possibile ma un semplice dottore di mezza età, che aveva subito una grave perdita ma stava cercando di rimettersi in piedi.
Quell’uomo, di cui quasi non conosceva il riflesso, con quei grandi baffi dal piglio militare, sembrava un uomo che avrebbe potuto superare la tempesta, la confusione in cui la morte del suo amico l’aveva gettato.
Quell’uomo avrebbe saputo andare avanti.
La gente si aggrappa a strane cose quando cerca di superare un lutto... John si era aggrappato a quel riflesso nello specchio e a quei baffi, li aveva indossati come scudo contro il dolore, e giorno dopo giorno si era alzato dal letto impersonando quel ruolo, fino a quando non era quasi tornato a sentirsi se stesso.
Non il John di prima, quel John era caduto nel vuoto insieme a Sherlock e non sarebbe tornato mai più, ma un John in cui poteva riconoscersi, di cui poteva calzare le scarpe.
Ecco perché gli dispiaceva quando gli altri fraintendevano i suoi baffi e li scambiavano per la prova che lui si fosse lasciato andare.
Perché erano esattamente l’opposto e lo faceva sorridere che tutti gli suggerissero di tagliarli.
Il loro era solo fiato sprecato.
Non l’avrebbe fatto mai.
Non importava chi gliel’avrebbe chiesto.

Una mattina di Gennaio il telefono di John Watson vibrò per pochi secondi per poi quietarsi, e l’icona di un messaggio comparve sul display.
Poi ne arrivarono altri due, in sequenza ravvicinata.
Il dottore però non si accorse di nulla, occupato com’era nelle sue abluzioni mattutine.
Solo dopo, quando tornò in camera da letto, con ancora addosso il pigiama a righe ed un asciugamano buttato su una spalla, si accorse dei messaggi che lampeggiavano dispettosi.
Uno era di Molly. John si sorprese leggendo il suo nome. Erano tre anni che non la sentiva.

John, perdonami, ma davvero non ho avuto altra scelta. Mi ha vietato di dirti qualunque cosa.
E sai quanto è difficile rifiutargli qualcosa. Scusami ancora.
Molly.

A John, leggendo il messaggio, tremarono le mani.
“Impossibile” pensò, senza dare ulteriore forma al pensiero. Come se temesse che una volta concretizzatosi potesse volare via.
Aprì il secondo sms, di Mycroft stavolta, con tutti i sensi all’erta, come quando si annusa l’aria aspettandosi un temporale.

Sto mandando la limousine. Vi voglio entrambi al Diogenes Club tra trenta minuti. Voglio che me lo porti qui John. Hai capito? Non mi importa come farai, ti autorizzo ad usare qualunque mezzo, ma portamelo qui. Dobbiamo decidere come gestire al meglio la situazione.
Non credevo che avremmo mai visto questo giorno. Non credevo avesse qualche altro tiro in serbo per me.
E che sia dannato, non sono mai stato così felice di sbagliarmi.

Nessuno mai parla di quanto faccia male la speranza.
La speranza ha un dolore tutto suo, che non somiglia a nulla e che non ha nome.
John lo scoprì quel giorno.
Mentre passava al terzo messaggio pregando per un miracolo.
Un miracolo che aveva chiesto in un giorno lontano, ad una tomba a questo punto vuota, un miracolo che arrivava con tre anni di ritardo, e che a pensarlo non sembrava vero.
Il terzo sms era breve e stringato, il mittente sconosciuto.
John quasi non lo lesse, corse con gli occhi subito alla firma, come se quella fosse la chiave di cui necessitava per decifrarne il contenuto.
S.H. diceva lo schermo del cellulare.
S.H. ed ora la speranza sì che picchiava duro.

John, sono tornato. Vediamoci tra dieci minuti.
S.H.

Alle 10:23 di quella mattina di gennaio, la speranza vinse su John per K.O.
Un unico colpo ben assestato.
Niente aria nei polmoni e nelle orecchie il ronzio ipnotizzante del sollievo.
A John Watson girò la testa e venne quasi da vomitare.
Non vi fu nulla di poetico nella gioia che provava.
Era fisica, viscerale, invasiva.
E così simile al dolore di quel giorno di tre anni fa.
La stessa alienante incredulità.

Il cellulare vibrò ancora.

Ti aspetto da Mrs. Hudson.
S.H.

Per John fu come esser tornato indietro nel tempo, come se non fosse passato un giorno. Lui era sempre lo stesso. Sempre a presumere che si sarebbe fatto a modo suo.
Un’altra vibrazione.

Ogni volta che apro bocca scoppia nuovamente a piangere e quindi non riesco a chiederle di riaffittarci l’appartamento. Davvero deplorevole la tua scelta di andartene. Ci avresti risparmiato innumerevoli fastidi.
S.H.

Anche la sua arroganza non era cambiata.
John si chiese come sarebbe stato colpirlo con un pugno. Di nuovo.
Sorrise tra sé al solo pensiero.
Ennesimo SMS.
A quanto pareva, qualcuno sembrava voler recuperare il tempo perduto.
Dopo aver letto il messaggio, John chiuse gli occhi, alzo il volto verso il soffitto e rise.
Rise forte, fino a grattarsi la gola, fino a star male.
Rise per cancellare definitivamente la sagoma di Sherlock su quel tetto, rise per scacciare la tristezza, rise per disperdere il rancore. Rise di cuore, perché poteva farlo, perché era bellissimo, perché non sembrava più una bugia.
Rise perché nessuno a parte Sherlock Holmes poteva scrivergli un messaggio così.

John, prima di uscire, per favore, fai sparire quei baffi. Non ti si addicono.
S.H.

Quando riuscì a calmarsi, John posò con un sospiro il cellulare sul comodino.
Lo schermo continuò ad illuminarsi ma lui lo ignorò.
Lui aveva aspettato così a lungo, anche Sherlock avrebbe potuto aspettare.
Non sapeva cosa avrebbe fatto quando l’avrebbe rivisto.
Se l’avrebbe davvero preso a pugni o se l’avrebbe abbracciato, se sarebbe rimasto sulle sue o se l’avrebbe perdonato non appena lui l’avesse chiamato per nome.
John decise che non gli importava.
L’avrebbe deciso sul momento.
Davanti allo specchio del bagno, John sorrise alla sua immagine riflessa, un sorriso che era di ringraziamento ma anche di scusa per quel che stava per fare.
Poi iniziò a spalmarsi sul viso la schiuma da barba.

Quando venti minuti dopo uscì dal bagno, John si sentiva un uomo nuovo.
Più fresco, più leggero.
E molto più giovane.
Sapeva cosa avrebbero pensato tutti. E cosa Sherlock non avrebbe mancato di sottolineare.
Che aveva tagliato i baffi perché gliel’aveva chiesto lui.
Ma tutti si ingannavano. Persino Sherlock, con la sua prodigiosa abilità deduttiva.
Non era per quello che l’aveva fatto.
L’aveva fatto perché, col ritorno di Sherlock, miracolosamente, prevedibilmente, anche il vero se stesso era tornato e quindi quel riflesso nello specchio, quel riflesso a cui si era aggrappato per non annegare, finalmente poteva lasciarlo andare, non ne aveva più bisogno, così come dei suoi baffi.
Ora era di nuovo John.
John Watson.
Ex soldato in congedo, medico di professione, blogger per vocazione, aiuto impagabile e miglior amico di un insopportabile, insostituibile Sociopatico ad Alta Funzionalità.
Mr. Sherlock Holmes. 

  
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