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Autore: Mei_chan    24/10/2004    13 recensioni
L’ennesimo viaggio. L’ennesimo taxi, l’ennesimo treno, l’ennesimo aereo, l’ennesimo viaggio. Lontano. Lontano da qui. Fuggire di notte come un ladro di galline. Senza salutare, senza farsi vedere. L’ennesimo colore di capelli fatto in un bagno in una stazione di servizio. L’ennesimo cambio di stile, di accento, di modo di vivere. L’ennesimo nome falso. L’ennesimo colore di occhi. Blu. Blu come il cielo senza stelle delle tre di notte alla periferia di questa città. Blu come la terra, le colline in lontananza, la gente sul ciglio della strada. Blu come la paura densa e appiccicosa di questa notte d’estate in un taxi bianco che sfreccia sull’autostrada verso l’aeroporto mentre fuori la gente dorme ignara. Blu. E la luna se ne sta dietro il guard rail.
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Tsubasa Ozora/Holly
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
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INTRO

INTRO

Premessa a tutta questa storia alquanto assurda è che non è ancora terminata e che purtroppo avendo cominciato a lavorare da una settimana gli aggiornamenti ve li farò sospirare.. sorry!
Devo dire che avevo intenzione di finirla prima di pubblicarla ma qualcuno ( non facciamo nomi Ila, ovvero Eva, e Maja, ovvero Pè) ha tanto insisto che eccomi qui con questa follia…Fatemi sapere cosa ve ne pare...
Purtroppo non posso fare una lista dei personaggi perché interferirebbero con la trama...uffi...ma dovevo scrivere una storia così complicata...
In compenso ho la storia bene in mente e spero di trovare il tempo per metterla giù...
Un grande bacione ancora alle mie fan ( che dopo l'inizio della storia cambieranno idea anche se spero di no) Ila, Maja e alla mia adorata sorella rompiscatole Laura.


PROLOGO

L’ennesimo viaggio. L’ennesimo taxi, l’ennesimo treno, l’ennesimo aereo, l’ennesimo viaggio. Lontano. Lontano di qui.
Fuggire di notte come un ladro di galline. Senza salutare, senza farsi vedere. L’ennesimo colore di capelli fatto in un bagno in una stazione di servizio. L’ennesimo cambio di stile, di accento, di modo di vivere. L’ennesimo nome falso. L’ennesimo colore di occhi. Blu. Blu come il cielo senza stelle delle tre di notte alla periferia di questa città. Blu come la terra, le colline in lontananza, la gente sul ciglio della strada. Blu come la paura densa e appiccicosa di questa notte d’estate in un taxi bianco che sfreccia sull’autostrada verso l’aeroporto mentre fuori la gente dorme ignara. Blu.
E la luna se ne sta dietro il guard rail.



Il taxi si fermò con gran stridio di freni in mezzo alla piazza.
Dopo pochi secondi lo sportello si aprì lasciando scendere un uomo sulla trentina vestito di un gessato elegante e accompagnato da una ventiquattr’ore in pelle blu scura e un computer portatile di nuova generazione.
Chiuse lo sportello e il taxi ripartì sgommando nella calura quasi estiva di mezzogiorno di una giornata di fine maggio.
L’uomo estrasse un paio di occhiali da sole firmati e l’indossò per proteggersi dalla luce abbacinante e si avviò verso un piccolo alberghetto di periferia.
Il giovane, che aveva l’aria di provenire da una città, risaltava enormemente nello spazio aperto in centro alla piccola città di provincia in cui era arrivato non solo per l’abbigliamento, completamente fuori luogo, ma anche per la compostezza e la rigidità dei suoi atteggiamenti che contrastavano fortemente con la vivacità e familiarità della cittadina caratteristica.
Varcò la soglia e sia avvicinò al bancone dove una vecchietta lo aspettava in trepida attesa.
-Salve- lo salutò calorosamente. Gli stranieri portano soldi, pensava. Si merita un’accoglienza calorosa.


  • Salve. Ho prenotato una stanza.- la voce dell’uomo era forte e impostata in perfetta armonia con l’immagine che dava di sé.
  • A che nome?-
  • Hutton, Oliver Hutton. –
  • Si. Le porto subito la chiave- e sparì dietro una porticina .


Oliver si guardò intorno.
L’alberghetto era arredato in modo semplice. La carta da parati sui muri ripeteva un motivo a grandi fiori delle tonalità del lillà e del rosa.
Qua e là orchidee della stessa tonalità erano state posizionate nella sala d’aspetto e nella hall.
Piccoli divanetti e poltrone in bambù e tela grezza color avorio popolavano la sala corredati di tavolini e portariviste. Molto familiare, pensò. Non era certo quello a cui era abituato ma aveva visto luoghi peggiori.
L’arzilla vecchietta si presentò quasi subito.


  • Venga l’accompagno alla sua stanza.-


Saliron le scale fino a una porticina blu.
Camera numero nove.
La stanza rispecchiava lo stile della hall ma nella tonalità blu e turchese. Tutto ne era impregnato: il copriletto, le tende, i fiori della carta da parati, le candele profumate appese all’ attaccapanni, le rose nel vaso. Blu.


  • Le piace la stanza?-
  • Si.- rispose senza troppo entusiasmo.
  • Quanto ha intenzione di restare?-
  • Di sicuro una settimana. Forse di più. Dipende da quanto si prolungherà il mio lavoro qui. Ora se mi vuole scusare…-
  • Si certo me ne vado subito.- e sgattaiolò fuori dalla stanza. Peccato, non aveva detto che lavoro faceva. Avrebbe avuto pochi pettegolezzi per soddisfare la curiosità delle sue amiche. Di certo era un bel uomo con un lavoro di prestigio. Ma quale lavoro poteva portarlo così fuori mano?


Intanto Oliver si era spogliato della giacca e della cravatta riponendole nell’armadio come suo solito.
Sedutosi sul letto aveva aperto la ventiquattr’ore e ne aveva estratto un fascicolo per poi sparpagliarne i fogli, in modo ordinato, sul copriletto blu.
No, c’era qualcosa che non quadrava in quel caso. Le prove erano troppo schiaccianti, troppo perfette, troppo decisive. Eppure il caso era stato chiuso in fretta.
Colpevole. Colpevole di omicidio. E sparita nel nulla come non fosse mai esistita. Nessun documento, nessuna foto, nessuna impronta.
Nulla di nulla.
Svanita nell’aria dopo aver vissuto lì per sei anni. Aveva distrutto tutto il suo passato, ogni traccia minima persino nei registri dell’anagrafe, del comune di residenza.
Come diavolo avesse fatto nessun lo sapeva. Di lei era rimasta solo la sua scia ed un nome.
Patricia. Patricia Gatsby.


Perché?
Perché si muore?
Perché da un giorno all’altro improvvisamente si smette di esistere.
Si smette di vivere, di mangiare, di ridere, di cantare, di parlare, di fare.
Fare. Fare tutti quei gesti che ti rendono speciale. Di sfregarti il naso quando stai pensando. Di prenderti la testa fra le mani quando stai leggendo. Di camminare spedito quando sei felice e lento e pesante quando sei triste o arrabbiato. Smettere di essere.
Nessuna fossetta sulla guancia quando ridi. Non più la piega forte delle braccia, ne il mento volitivo o il ciuffo di capelli che non se ne vuole stare al suo posto. Solo un corpo freddo e rigido.
Smettere di vivere e di fare tutto ciò che ti rendeva speciale, che ti rendeva te stesso. Tutto quello che ti rendeva mio.
Guardo lo schermo della televisione accesa ma non vedo nulla. Gli occhi sono persi nel vuoto.
Perché non è la tua perdita che mi distrugge ma la tua assenza.
Mi manca il tuo profumo in casa mia, entrare in casa e trovarti sul divano a leggere l’ennesimo libro, mi manca il rumore dell’acqua della doccia che mi sveglia al mattino, le tue telefonate al lavoro, le passeggiate nel week end, i vestiti lasciati in giro.
Perché tutto, prima, eri solamente tu.
Ora più nulla.
E’ la tua lontananza che mi distrugge, non la tua perdita.
Quella non l’ho ancora realizzata.
Preferisco non pensare per adesso. Preferisco non capire che non ti rivedrò mai più.
Occupo la mia vita come posso, con le cose banali di tutti i giorni.
Ma manchi anche lì. Nella spesa quotidiana, nella pulizie di casa.
Tu eri tutto e facevi parte di tutto.
Ricomincerò, lo so. Ricomincerò da capo a respirare, a vivere, ad amare.
Per adesso devo solo riuscire a non pensare, devo solo riuscire a dimenticare, devo solo riuscire a rimboccarmi le maniche e occuparmi di qualcosa.
Devo solo riuscire a non piangere.



Oliver ricontrollò il fascicolo fino all’ora di cena quando cominciò a sentire i morsi della fame.
Decise che era il caso di farsi vedere a cena prima che chiudessero la sala da pranzo e lo lasciassero a secco.
In effetti non aveva toccato cibo dalla mattina quando aveva fatto colazione all’aeroporto.
Ma erano state le sei e dovevano essere passate più di dodici ore. Gli brontolò lo stomaco.
Sì, era proprio ora di scendere. A come trovare la signorina Gatsby ci avrebbe pensato domani.
Ora era il momento di cenare.
La sala da pranzo rientrava perfettamente nello stile della locanda. Cominciava ad avere la nausea di quei grossi fiori alle pareti.
Un po’ andava bene ma così era troppo. Erano ovunque.
Persino sui piatti.
Sospirò. Tanto paga l’ufficio.
L’arzilla vecchietta lo accolse con molti riguardi. In effetti non c’era molta gente e di certo la sua presenza era alquanto gradita. Soprattutto per le casse dell’albergo. Lo fece accomodare ad un tavolo in giardino, nonostante fosse sera, e impedendogli di ordinare qualcosa si affrettò a spiegare che ci avrebbe pensato lei a portargli qualcosa di buono tipico della zona. Oliver si sedette indeciso tra il bloccarla e ordinare qualcosa lui e il lasciarla fare. Alla fine, dopo essere rimasto per un attimo a metà, decise che non era il caso di interromperla e di rovinare il rapporto con lei. Aveva l’aria di conoscere tutto di tutti e poteva essergli molto utile.
La vecchietta riapparve sulla soglia tenendo in bilico una bottiglia di vino rosso, un paniere ricolmo e una scodella di coccio che conteneva qualcosa di fumante. Roba da equilibristi.
Quando arrivò al tavolo Oliver la invitò a sedersi.


  • Le posso fare un paio di domande? Sono per il mio lavoro.-
  • Certo. Ma mangi che si raffredda.-


Oliver intinse il pane nella zuppa rossastra e se lo portò alla bocca. La zuppa era buona. Piccante ma buona.


  • Vede il mio studio mi ha mandato a cercare una persona. Il problema è che non sappiamo nulla di lei a parte che è una donna e che si è trasferita qui da meno di sei mesi. Lei sembra sapere molto sulla gente di questa città e mi chiedevo se potesse aiutarmi. Non pretendo che lei sappia dove si trovi ma che almeno sappia indicarmi la gente nuova di questa città.-
  • Signor Hutton io di solito mi faccio gli affari miei ma, avendo una locanda in centro è inevitabile non venire a sapere certe cose. Ma comunque la gente nuova gliela sa indicare chiunque anche perché qui ci conosciamo tutti.


Se lei cerca qui in paese non troverà nessuno. Siamo tutti abitanti storici, nati qui e cresciuti qui. Ma alla periferia nord hanno costruito parecchi edifici nuovi nell’ultimo anno e quindi di gente nuova ce ne è in giro molta. E purtroppo per lei ho sentito dire che ci sono anche parecchie donne sole. Ma di questo troverà conferma al municipio.-
- La ringrazio molto signora. Il suo aiuto mi sarà prezioso. - Ma sarà comunque un lavoro interminabile, pensò Oliver addentando un altro pezzo di pane.



Lavoro.
Mi sono buttata nel lavoro.
Ventiquattr’ore al giorno. Neanche un attimo di pausa ne di respiro.
Solo tenermi occupata per non pensare a tutto quello che è successo fino ad ora.
La paura, le fughe notturne, i continui cambiamenti, l’attesa interminabile di un domani sempre identico. Le accuse e la mia difesa. Inutile. La tua mancanza. Svegliarsi e ritrovare tutto cancellato con un colpo di spugna.
E la nausea tremenda che mi prende ogni mattina, ogni volta che penso che non ci sei, ogni volta che penso al perché di tutto questo. Vorrei solo che la smettessi di tormentarmi. Per ricominciare.

  
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