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Autore: silencio    07/10/2013    0 recensioni
Alle belle dee che siedono sul monte Elicona dedico il canto. Levo la prece e la cetra depongo ai piedi in attesa dei loro favori, sì che versino nel mio orecchio le voci di quegli spiriti dolenti la cui sorte nel mondo fu avversa, e avverso l'animo. Non di eroi, ma dei vinti io reco le storie, di quanti soffersero e mali portarono sulla vasta terra che oltre lo sguardo si stende. Di belve e orrori, terribili a vedersi.
Muse dal candido piede, che al Cronide dedicate e danzi e cori, compagne d'aedi e di sovrani vincitori, di bende il mio capo avvolgete ed un ramo d'alloro donatemi così che la vostra arte io tenga senza fallo e onta al vostro nome.
La presente altri non è che una modesta raccolta di racconti brevi e storie autoconclusive (one-shot) ispirate ai miti greci, in particolare alle figure mostruose che li popolano. A mio modo intendo rivisitarle, cercando d'osservare le cose sotto luci nuove.
(Ho cambiato il titolo alla storia, sì che fosse più confacente ai racconti in essa presenti che, come al solito, si scrivono piuttosto autonomamente e non seguono i dettami originali)
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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L’Ingorda




Τό παιδί τό ʹπνιξε η Λάμια
(detto popolare greco)


Ninna nanna, ninna oh,
questo bimbo a chi lo do?
Glielo do all’Uomo nero,
che lo tiene un anno intero.

Chi sono?
Cosa ci faccio io qui?
Che strane domande. Mi sembra d’essere appena nata, sorta da chissà dove e qui improvvisamente scaraventata.
Fame. Bisogno. Vuoto incolmabile… necessità costringe.
La mente è un pozzo profondo. La mente è l’Abisso. “Non guardare”, sussurra la Luna oltre le tende. “Non sporgere la curiosa vista oltre il bordo. È brutto. È cattivo. È Verità”… la verità è mostruosa. Meglio dimenticarla. E l’Oblio mi avvolge come un manto, come il velo scuro dietro il quale mi nascondo.
Ma tu non sei reso inquieto da simili pensieri, tu che ancora non hai passato da cancellare, nella tua culla.
Come son piccole le tue manine, paffute e rosee. Profumano di fresco e di nuovo, un po’ zuccherine.
Solo soletto nella tua culla, bimbo bello, te ne stai e tanti bei sogni farai. Cosa vedi? Un gran guerriero? È questo, quel che sarai? O forse un re in trono o un umile campagnolo?
No. Non credo siano questi i tuoi sogni. A voi fanciulli il futuro non preoccupa e quasi non esiste. Non va più in là della prossima poppata. Dormite. Mangiate. Giocate. Che belle occupazioni! Il meglio è per voi cosa semplice, disconoscete l’affanno degli adulti. Quanto invidio l’innocenza: fare, per il gusto semplice di fare. Nessun progetto, nessuno scopo. La vita è un eterno presente.
Ti agiti un po’ nel sonno. Forse il lettino che mamma e papà t’han preparato con tanto amore non ti garba? È scomodo? I bimbi belli van trattati con riguardo.
Su, su, non svegliarti. Non rovinar tutto prima del tempo…

Ninna nanna, ninna oh,
questo bimbo a chi lo do?

Come sono scuri i tuoi riccioli. Alla luce del lume rosseggiano; il chiarore della luna che dalla finestra filtra, ne fa blu i riflessi. Non è la prima volta che ne vedo simili… ma dove?
Tentazione, desiderio di ricordare. Io possiedo un passato –certo, è ovvio. È logico-, ma è sfuggevole, sguscia via come un serpente nel mio pugno. 
Devo acciuffarlo. È necessario, per fare quello che devo fare.
Ma cosa devo fare?
Necessità chiama.
Sforzati cervello, resisti mente mia, rapida agguanta il ricordo. Stringilo mentre si dibatte.
Un’immagine. Una sensazione
Erano setosi e profumati i suoi capelli.
Comincio a ricordare.
Li ungevo con olio d’oliva al mattino, sì che fossero lucidi e belli.
A quale vita risale?
La memoria troppo vecchia fatica a serbare tutto in ordine. Qualche cosa sfugge e si perde. Qualche cosa si sposta e si mischia a qualche altra. La mente è una libreria più simile a Babele che ad Alessandria.
Ecco, m’è sfuggito.
Non importa.
Avvicino le dita alla tua chioma. Esito, ma troppo è il desiderio.
Sfioro un boccolo, lascio che s’annodi all’indice come vite al tralcio. Sono morbidi anche i tuoi.
Come sei bello, bimbo mio. Come sei bello.
Sento un rumore provenire dal corridoio.
Mi scosto con uno scatto. Mi appiattisco alla parete, fra le ombre.
Risate sommesse. Un uomo e una donna. I fortunati genitori. Sembrano allegri; pensavo dormissero.
Li spio dalla porta socchiusa. Non avranno più di trent’anni: lei ha una voce cristallina, gioiosa. Lui le bisbiglia poggiando le labbra nell’incavo del collo. Non comprendo le parole che si scambiano, tuttavia colgo il tono vibrante, carico, urgente, desiderante. Chi lo vive non lo dimentica. Anche io lo udii un tempo e fu tutto per me. Lo so, ma non lo ricordo. Ho la certezza di conoscerlo quasi fosse parte di me, ma non rammento le circostanze né l’ora o il dì in cui fu per me la prima volta. Troppe lune sono sorte e calate.
Dallo spiraglio vedo le due sagome avvinte l’una all’altro. Si baciano, si sfiorano, si toccano. Si vogliono. Si amano?
Amore. So cosa significa, ma ne ho perduto il senso reale.
Ho mai amato in vita mia?
Due occhi dorati. Due occhi rapaci. Le iridi come folgori. Occhi divini.
Ecco, vedo ancòra.
La mano sicura e potente m’accarezzò le gote ancora umide di luttuoso pianto. Si mosse gentile, mostrando la delicatezza che s’è soliti usare con le cose più fragili. Ero cristallo per Lui. Ero vetro sottile. Un fiore.
Passò l’indice dallo zigomo alla mascella seguendone l’armonico disegno sino al mento, e da lì, lento e inarrestabile, tracciò il contorno delle labbra gonfie, truccate di rossa terra; prima quello inferiore, dopo, quello superiore. Arrivò alle narici, al mio naso un po’ all’insù, e via fino agli archi delle sopracciglia.
Non dicevo nulla. Mancava la parola, che in me era tanto abbondante. Non ebbi né forza né cuore (e forse, nemmeno volontà) d’infrangere quel mistico incanto.
Un inganno si nascode fra questi frammenti di memoria. Un male incolmabile, un peccato che mi appartiene.
È di Eros la colpa? È d’Afrodite? Fu mia o Sua?
Non so. Accadde, tuttavia, quello che accadde e ridicolo è crucciarsene adesso. Il passato non si cambia. Ne godetti; n’ebbi parte e non sono esente da peccato. Due nature distinte è bene che mai si miscelino, ma distanti restino. Un simile abominio richiama castigo.
Il dito solerte raggiunse gli occhi, ultima meta, e vi si soffermò. Passò il pollice sulle palpebre. Lo sostituì con le proprie labbra. Più volte in teneri baci. Li venerava.
Gli occhi sono il primo strumento del sapere. Lui me ne donò un paio nuovo, per vedere meglio, dentro e fuori di me. Per ricordare e mai nulla dimenticare.
Al termine dell’amplesso mi parlò.
La sua voce era un bisbiglio gutturale, simile al bramito roco del tuono che s’attarda e ancor celato stenta a partorire dai nembi e lontano resta.
Mi disse ch’ero bella, superiore a Cipride. Disse che m’amava, e che gli onori con cui m’avrebbe ricoperta sarebbero stati immensi ed eterni se l’avessi ricambiato. Io ricambiai, ma non per gli onori… fu ben altro il mio motore.
Quante promesse fanno gli uomini pur di conquistare non il cuore ma l’imeneo. Al talamo più che all’amore sono votati.
Ma se il male sopraggiunse, credo d’averlo meritato. Feci l’amore col Cielo e gli generò dei figli il mio ventre!

Ninna nanna, ninna oh,
questo bimbo a chi lo do?

Figli… oh Tartaro infinito, ora rammento.
Il fiume della memoria ha divelto gli argini del tempo e scorre libero. A ricordo segue ricordo. Ad ombra succede altra ombra. Ce l’ho fatta!
Anch’io ebbi dei figli… che bella questa parola: figli. Ha un gusto tutto suo. Scivola sulla lingua, dietro le guance, nel fondo della gola. È miele… la scandisco, la mastico, la assaporo. Fa male al cuore; un dolore meraviglioso.
Piccini miei, quali erano i vostri nomi? Quale, il vostro numero?
Dove siete adesso, bambini?
Il piccolo nella culla mugola ancora. Non dorme bene.
Avverto l’odore di latte del suo respiro. Mi disgusta e mi affascina e non riesco facilmente a spiegarne la ragione.
Un bisogno si risveglia, assopito che era dal profluvio di pensieri. È straziante, mi dilania le viscere come un mostro. Un famelico spettro s’agita dentro di me; viene ogni notte a farmi visita, come un tempo faceva il mio Amante. Mi sospinge alla ricerca costante, al moto perpetuo. Vuol distrarmi da ciò che sono, allontanarmi dalla memoria? Se si è in dubbio, confusi e dolenti, c’è un solo farmaco: il movimento. Finché esisterà lui, saprò d’essere viva.

Glielo do all’angioletto,
che lo vegli accanto al letto.

Non ci sono angeli qui, piccino mio. Siamo solo noi due.
Alla luce dei ricordi mi sento più umana. E fa male.
Vorrei tanto abbracciarti, bimbo bello. Ma ahimé, non posso.
Quanto mi manca il contatto con un fanciullo; sentirne la pelle vellutata, prendermene cura. I bambini hanno un bisogno costante di amore, ed io ne ho tanto da donare. Non basta una cisterna per contenere l’acqua del mare, come non basta il cuore a contenere il mio donare.
Non usai mai la nutrice, con nessuno dei miei figli. Volli pensarci io, sebbene i molti impegni me lo vietassero. Cedere un solo istante della loro vita ad un’altra era per me come dar via parte di me stessa.
Li portavo con me anche alle riunioni di Stato. I miei alti consiglieri –tutti miseramente uomini- mal sopportavano il mio agire. Non capivano. Non li hanno portati loro in grembo.
Io ero la regina designata, unica erede di mio padre, la mia parola era legge. Come dea in terra, per il popolo.
Un’altra immagine arriva.
Sono seduta sul bordo d’una fontana, nei giardini regi: la pelle scura delle spalle esposta al sole dalla veste di lino, contornate dalle stille lucenti dell’acqua, spruzzi della fonte. Fra le braccia stringo qualcosa. Sembra un fagotto, un ammasso di stoffe. Forse roba preziosa… no, non è un oggetto, ma un neonato. Una bambina. Scilla! L’ultima nata.
Per lo Stige, devo sedermi. Ho un mancamento.
Non repiro… aria. Aria…
Devo calmarmi. Quest’immagine mi ha sconvolta. Le sensazioni che richiama le pensavo appassite in me da lunghi secoli.
Cos’è questa cosa che mi striscia in petto, chiusa nella gabbia toracica, che accelera i battiti d’un cuore rattrappito?
Il ventre! Che male al ventre… ritornano le doglie d’un parto lontano. Stringo le braccia e gemo.
È l’utero che palpita. Ha riconosciuto sua figlia, il frutto dei suoi dolori.
Dov’è adesso Scilla, la mia bambina? Chi se ne prese cura in mia vece?
Figlia mia, sapessi quanto la mamma ti cerca. Quanto ti ama. Vorrei cullarti ancor come facevo in quei giorni. Cantare per te fra gli alberi resinosi.

Ninna nanna, ninna oh,
questo bimbo a chi lo do?

Freme il mio corpo. Si scuote in singulti. Si contorce come una biscia.
Sono giunta al limite della ricerca. Perché ancora non sono morta?
Devo ritrovare i miei figli. Devo dir loro quanto li amo, che non li ho mai dimenticati.
Bimbo caro, non sai ancòra quanto sei fortunato. Chi ti mise al mondo l’hai accanto. Sono la tua forza e tuo scudo. Sei tu loro speranza.
Ecco, il silenzio è tornato a posarsi su questa casa. I giochi di Afrodite han ceduto sede a Hipnos e la sua progenie di Sogni. Per te, nascita e concepimento sono ancora un mistero che tarderà a svelarsi. Ma non temere; conosciuti li amerai. Nessuno li dispregia, se sano di mente.
Mi rialzo. Sistemo la veste spiegazzata e scomposta. Devo esser pazza più di quanto sospettassi se smanio a questa maniera solo per dei ricordi.
Ora credo sia l’amore a tenermi in vita. Il desiderio che provo, è quello di riabbracciare i miei figli. È lui a guidarmi di culla in culla ogni notte.
L’impazienza mi monta in petto. Li riconoscerò? Certo che li riconoscerò. E prima dell’occhio sarà il mio sangue, sarà il mio grembo lesta sentinella. Una madre sa.
Per nove mesi li tenni in grembo; sono miei! Come potrei non riconoscere parte di me stessa… la parte più preziosa?
Voglio abbracciarti, piccolino. Usarti –sì lo ammetto!- per provare ancora quel dolce piacere di coccolare un pargolo.  Fingerò d’essere tua madre, per questa notte, e tu quieto starai a recitar la parte della mia Scilla.

Ninna nanna, ninna oh
Questo bimbo a chi lo do?
Glielo do all’uomo nero,
che lo tiene un anno intero.

Ecco, ti raccolgo fra le mie braccia. Sei così minuscolo, così leggero e delicato. Chi avrebbe mai cuore di farti del male?
Su piccino, non ti agitare, da bravo. Rovinerai tutto, altrimenti. Sono io la tua mamma adesso. Ti tratterò bene; ti cullerò, canterò la ninna nanna, ti accarezzerò, ti stringerò a me e non ti lascerò. Mai. sarai per sempre con me.

Finché l’odio divino non calò dal cielo quale folgore funesta.
Come puoi, madre, uccidere dei bambini?
Nessuna creatura al mondo è più terribile d’una donna offesa nei suoi diritti di sposa, né cuore brama sangue più del suo.
Come puoi, madre, uccidere dei bambini?
La fiera si scatenò sopra gli inermi. Ne avvinse i colli deboli. Fece strazio dei loro corpi e banchettò con loro.
Sangue. Sangue ovunque. Il mio sangue sparso.
Come puoi, madre, uccidere dei bambini?

Ero ingorda. Ingorda di gioie. Ingorda d’amore e per questo fui punita.
A cosa mi valse il dono che mi facesti quel giorno? Cambiar vista, vedere come vedono gli altri; volgere gli occhi dentro al cranio per scovare i miei difetti. Tutto questo mi ha risparmiata dalla furia dei malvagi, dall’egoismo dei veri ingordi?
A cosa giova capire l’altro, se costui non comprende te? A che pro’ usar giustizia se alcuna mano si solleva in tua difesa quando occorre? Avevi il dovere di pensare al mio bene e non lo facesti. A te donai il cuore. Tu me lo strappasti gettandolo in pasto alle fiere.
Avresti dovuto tuonare in mia difesa, non startene in silenzio, privo di lingua. Ti diedi amore. Mi ricambiasti con l’indifferenza e senza troppe cure volasti verso un altro letto. Mi dimenticasti. Tu, più ingordo di me, ma di piaceri che rapidi scemano. Odio te e la tua genìa. Mi avete dato tutto e poi, senza ragione, d’ogni cosa mi privaste.
Non rivedrò mai più i miei figli, ora che l’Orco li ha divorati. Sotterra giacciono a imputridire e contaminare il suolo. Privati di me. Privata di loro. Dimentichi entrambi. Ma non il mio ventre scorda il loro passaggio; brucia l’assenza. Un vuoto che chiede di essere colmato… il vuoto è spaventoso. Il vuoto è mostruoso. È la natura dell’Abisso. Non è mai sazio. Deve sempre mangiare.

Ninna nanna, ninna oh,
questo bimbo a chi lo do?
Glielo do all’angioletto,
che lo vegli accanto al letto.

Non è l’amore né la speranza che mi tengono ancorata alla vita. È l’Odio… anzi no, è la Fame. Odio e Fame sono la stessa cosa. Bisogno incolmabile, mostruosa necessità. Loro mi sorreggono.
Spirito di Vendetta, m’ha resa Erinni terribile.
La mia gioia nessuno abbia più a provarla. Il mio dolore sia conosciuto e di contrada in contrada riecheggi.
Nulla posso contro i Numi miei carnefici. L’Olimpo è ben sicura sede per degli infami. Dall’alto osservate, godendo dei dolori umani: le nostre maledizioni sono la vostra ambrosia.
I nembi vi proteggono anche troppo bene dai nostri strali. E ciò non meno, Dike non scampa nessuno, nemmeno voi. Siano un dì gli Dèi chiamati in giudizio. Sul Tonante penda la spada d’accusa. A loro rinvio i miei gesti quale causa prima. Sono un coltello, non la mano che lo stringe.
Non ho più anima. Solo ricordi. Memoria che ogni dì muore fra le acque di Lete e la notte dolorosamente riaffiora.
Adesso so chi sono. So cosa mi spinge nei giacigli infantili.
È la fame.
Ecco, bimbo bello. Ecco, si compie l’ultimo atto. Anche per questa notte… io eterna insonne, ne sono protagonista assieme a te.
Lasciati cullare. Lasciati stringere. La pelle del tuo collo è così morbida, l’osso tanto fragile. La vita che ti pulsa in petto sazierà il mio Odio. 

Ninna nanna, ninna oh,
questo bimbo a chi lo do?
Glielo do alla sua mamma,
che lo ninna e poi lo nanna.


Belo ebbe una bellissima figlia, Lamia, che governò sulla Libia; e Zeus, a riconoscimento dei suoi meriti, le concesse il singolare potere di levarsi gli occhi dalle orbite e rimetterseli, a piacere. Lamia generò a Zeus alcuni figli, ma tutti furono uccisi da Era ingelosita. Lamia si vendicò uccidendo i figli degli altri, strangolandoli e divorandoli, e divenne tanto crudele che il suo volto si trasformò in una maschera da incubo.
(Robert Graves, I Miti greci)
   
 
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