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Scuse Senza Ritorno
Al Carson, quando pioveva, l’infrangersi
dell’acqua sui tendoni era come lo schiocco della cuspide nell’imbottitura
bianca e rossa del bersaglio.
Ci si rifugiava sotto il tessuto
spesso, si ascoltava stretti stretti, nel freddo del vento, nel caldo odore di
cerone, l’uggiolio infastidito del leone Marley, il frustare stizzito della
coda sulla paglia imbevuta di gocce amarognole, di biocchi umidicci di polvere
e piscio rancido. Mostrava le zanne, infastidito, e per Clint era come l’esplodere
della pallottola nell’istante in cui il temporale le colpiva con un biancheggiare
di lampo. Ruggito e tuono erano una danza armonica, si sovrapponevano e si
fondevano, come il sudore dei clown e il risolino della Donna Cannone, come il
nasino bagnato dei barboncini contro le caviglie e le manine delicate di Sally
Dolly sulla fronte, le sue paroline bisbigliate all’orecchio, la ninna-nanna
canticchiata in una melodia piccolina, sottile, così infinitesimale se
comparata allo sdrucciolare scrosciante del fulmine, così potente e, oh!, così
rassicurante nel cuore di bambino intirizzito dal terrore.
Quando l’Agente Coulson era venuto a
prenderlo, Clint non era più in bambino, ma guardava ancora le pioggia e le
manine delicate di Sally Dolly erano sempre sulla sua fronte, le sue paroline
sempre bisbigliate all’orecchio, una melodia piccina di ansimi e bacetti, di
brevi respiri e carezzine languide, occhietti grandi e ciglia sottili gonfie di
mascara, nero di notte, violento e adulto sul visetto da bambolina.
Guardavano insieme la pioggia e
Coulson era arrivato e il temporale aveva smesso con lui, con le dita
aggraziate di Sally Dolly tese in avanti, oltre il tendone, il bel faccino
contorto di lacrime, la boccuccia storta e grondante urla disperate, vene
bluastre che palpitavano impazzite sul collo rigido, il vestitino insozzato di
fango, il pizzo e i ricami ingemmati di schizzi marroni, una scarpina perduta
più indietro, l’altra imbruttita di melma, le calzettine nivee butterate di fanghiglia.
Sulla Corvette rosso fiammante, Clint
aveva raccolto le ginocchia al petto e aveva guardato l’asfalto divorato dai
pneumatici con sguardo grigio e assente. Coulson, accanto a lui, gli aveva
lanciato un’occhiata veloce, le dita della mano destra avevano avuto una
contrazione come sul punto di lasciare il volante per appoggiarsi sulla sua
spalla o sul suo ginocchio, ma Barton aveva rifiutato qualsiasi gesto
stringendosi di più nelle braccia chiuse attorno al torace, incassando la testa
tra i polsi incrociati. Aveva ricominciato a piovere e la bocca di Coulson si
era sollevata un istante impercettibile, un sorriso trasportato dal sospirare
del vento.
«Dovrebbe guardare la pioggia,
Barton.»
Clint aveva piegato il viso nella sua
direzione, la fronte corrugata.
«E perché, signore?»
«Perché guardi la pioggia, Clint?»
Natasha era dietro di lui da un tempo infinito e fantasmagorie di gocce disegnavano
rigagnoli e ramificazioni metalliche sul vetro opaco di polvere. Erano passati
anni e Sally Dolly era un fantasmino di pizzi e gonnelline danzanti, passettini
precisi, aggraziati, delicati, una figurina da sogno sbiadita negli anni, una
cartolina in seppia di anni vecchi e vecchi sorrisi e vecchi temporali e vecchi
tendoni e leoni altrettanto vecchi.
Strano, pensò Clint, come la pioggia
a Bedford-Stuyvesant sembrasse ancora più triste che ai tempi del Carson: la
luce grigia tracimava dalla finestra sgangherata, lamelle opalescenti
graffiavano in negativo le pareti, erano unghiate e striature impersonali nelle
pieghe bucherellate delle tende, pozze incolori nell’incavatura del divano,
ruscelli inariditi a colare dalla libreria ingolfata di fascicoli e spillati.
Pioveva da un po’, pioveva da tanto e
Natasha, ogni volta che il cielo vomitava il proprio malanimo sul quartiere,
era sempre dietro di lui, seduta a gambe incrociate sul tappeto color crema, le
frange arrotolate tra i polpastrelli sempre in movimento. Era bianca come il
lampo, una fiamma violenta di capelli rossi e labbra cremisi e non era una bambola,
non era Sally Dolly, non aveva paroline e nenie e bacetti, ma andava bene,
andava bene così, perché Natasha era salda come il tuono, e non sarebbe rimasta
indietro, non avrebbe perso alcuna scarpetta e il sangue, il fango, la divisa
chiazzata, lurida, l’avrebbero resa soltanto più forte e più bella, e le gocce
battevano sugli infissi come nocche sul legno di una bara, come pale a
violentare un cumulo di smosso, come terra gettata alla rinfusa su un feretro
salutato con tutti gli onori.
«Sto aspettando che passi, Nat.»
«Perché
la pioggia un giorno smetterà, Barton. E passerà, come passa il dolore.»
Note
“Passerà
questa pioggia sottile come passa il dolore” (Hotel Supramonte – Fabrizio de
Andrè)
E sì. C’è anche Lola.