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Autore: alivinghope    09/10/2013    4 recensioni
"Skinny love" è la condizione secondo la quale due persone si amano ma sono troppo timide per ammetterlo. Però, lo dimostrano ogni qual volta ne hanno l'occasione.
Dal primo capitolo: «Infilai entrambe le mani sotto il suo lungo cappotto nero e gli strinsi la vita, forte. Allacciai la mia vita alla sua, in uno scambio di promesse silenziose e perdono.»
[Post Reichenbach] [Johnlock]
Genere: Fluff, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Harriet Watson, John Watson , Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Tornare in vita



Dopo tre interi anni di assenza, eravamo ancora qui: John e Sherlock, insieme.
Tecnicamente
parlando, il vero assente era stato lui, il mio amabile coinquilino, che aveva scelto di inscenare la propria morte senza farmi partecipe dei suoi piani.
Praticamente parlando, invece, la sua assenza era arrivata a divorarmi, tanto da far sparire anche me. Durante la guerra, ho visto decine e decine di persone morirmi davanti agli occhi, ma mai nessuno aveva sortito l’effetto che, contrariamente, ebbe la Caduta su di me. Vedere qualcuno morire era sempre un dolore lancinante, acuto. Ma vedere Sherlock suicidarsi dal tetto del Bart’s erano un altro paio di maniche. Man a mano che si avvicinava al suolo, portava via pezzi di me, fino a lasciare poco e niente su quel marciapiede. Ero cenere, confusa con l’asfalto e calpestata dalle persone che accorsero intorno a quel corpo ormai inerte. Il suo corpo, il suo viso irriconoscibile a causa di tutto il sangue che continuava a colare da ogni dove. I suoi occhi, spalancati, che gridavano “guardami, John!”.
Dopo la Caduta, feci continui incubi su Sherlock, che dimenticavo il mattino seguente. Mi trascinavo una sensazione di gelo nelle ossa costantemente, e non importava in che periodo dell’anno mi trovassi: sentivo sempre freddo.

Inizialmente, venni assalito dai giornalisti che si aspettavano qualche frase strappalacrime dal sottoscritto, essendo “l’aiutante” e, a detta loro, l’amante del grande detective che, apparentemente, si era preso gioco di tutto il mondo fingendosi un genio.
Provare a sostenere ancora il contrario era fiato sprecato, nessuno mi avrebbe mai creduto.
Ma, in cuor mio, sapevo che tu eri l’essere umano più umano che abbia mai conosciuto. Il migliore. Il più reale, in mezzo a quella folla di stolti e di pecore.
Tu spiccavi ed io ti aiutavo a farlo - almeno in quello ero bravo.
Mi avevi definito il tuo portatore di luce [1], poiché riuscivo come nessuno ad illuminare la tua strada verso la verità e, Sherlock, mai complimento fu più gradito.

Capii di non poter tornare più me stesso quando iniziai a sentire la sua presenza sempre con me. Lo sentivo camminarmi accanto nei giorni di pioggia, lo sentivo fissarmi da quella sua poltrona nera di pelle e, infine, lo sentivo chiamare il mio nome nella notte.
Ma, in fin dei conti, ero pur sempre un militare: avevo affrontato la guerra, potevo essere in grado di affrontare un lutto.
O, almeno, era quel che mi ripetevo ogni mattina. E, così facendo, ogni mattina mi alzavo dal letto, andavo a lavorare in ambulatorio e poi rincasavo finito il turno. Tutti i giorni.
Oramai più nessuno mi fermava per strada per chiedermi di Sherlock, nessuno osava guardarmi in faccia - soprattutto dopo che riuscirono a scovare il corpo di Moriarty. Quando accadde, tutti improvvisamente decisero che il “fake” non era mai stato lui ma che, contrariamente, era un eroe.
Sherlock, sei sempre stato il mio di eroe. Spero tu lo sappia.

Trascorsi quasi tre anni dalla sua morte – sempre che così si possa chiamare – mi arrivò un messaggio che recitava espressamente: “John, compra il latte SH”. Inutile dire che il mio cuore perse un battito, o forse due. Sentii un calore improvviso invadere tutto il mio corpo, il mio stomaco fare le capriole e l’intestino torcersi su se stesso, più e più volte.
Avvertii un bruciore nel petto e nella gola e solo allora mi accorsi di non riuscire a respirare. Presi un sacchetto di carta dalla dispensa ed iniziai a respirarci dentro, finché non riuscii a farlo regolarmente. La testa mi girava, chi poteva mai essere così crudele da giocare con me in quel modo?
Avevo in mente un unico nome ed era il suo, come sempre del resto.
Mi lasciai scivolare accanto alla sua poltrona di pelle, il cellulare ancora nella mano sinistra.
La vibrazione mi distrasse, ricevetti un nuovo messaggio.

John, spero tu non abbia intenzione di continuare così, altrimenti dovrò chiamare un’ambulanza. SH

Non seppi cosa fare, se rispondere o meno. Era tutto così surreale, la mia mente era troppo normale per poter pensare a qualcosa di razionale e di abbastanza convincente.
Il cellulare prese a vibrare nuovamente, segno che chiunque fosse non aveva proprio la minima intenzione di lasciarmi in pace.

Regent’s Park. Vieni immediatamente, se puoi. SH
Se non ti è possibile, vieni lo stesso. SH


Sentii le mie labbra muoversi involontariamente e, non capendo cosa mi stesse accadendo, andai in direzione dello specchio. Le mie labbra erano incurvate in un indeciso sorriso, il primo sorriso sincero dopo … beh, dopo anni.
Mi ricordai di quelle parole: me le scrisse tempo fa, i suoi primi due messaggi furono proprio quelli, ad eccezione del fatto che dovetti recarmi al 221B di Baker Street e non al parco [2]. Provai a pensare razionalmente, di nuovo, e di nuovo mi ritrovai senza nulla in mano e con le idee sempre meno chiare.
Così, decisi di agire e quella fu la scelta più dolorosa e piacevole al tempo stesso che abbia mai preso in tutta la mia vita.

Raccolsi il cappotto verde militare dalla mia poltrona, infilai le scarpe e scesi le scale, urlando un isterico «Arrivederci signora Hudson!», mentre lottavo contro il tempo e lo spazio. Uscii dal caldo accogliente del 221B e la pioggia incessante di Londra mi colpì subito, bagnandomi da capo a piedi. Ma tutto questo, tutto, non importava. Se ciò che stava accadendo era reale, allora avevo un motivo reale di ricominciare a percepire il mondo intorno a me, di uscire dalla mia bolla fatta di disperazione.
Fermai un taxi e vi entrai, dicendo al tassista di correre più che poteva per arrivare il prima possibile, ché gli avrei dato più soldi.
Ovviamente, causa traffico, si procedeva a passo d’uomo, tant’è che decisi che non ne valeva la pena, ché volevo sentirmi la pioggia fin nelle ossa mentre correvo a perdifiato verso l’unica persona che era riuscita a farmi essere me stesso. Così, corsi con tutte le mie forze. La gamba che prima mi doleva, nel bel mezzo della mia corsa sfrenata si mostrò agile ed indolore: era dovuto alla vicinanza del mio pericolo personale, lo sapevo.
Mi gettai letteralmente all’interno dei cancelli del parco, senza però vedere nessuno. Il mio cuore perse nuovamente un battito, questa volta a causa della delusione.
Stavolta era colpa mia. Avevo dato retta a degli stupidi messaggi, nonostante fossi pienamente consapevole che Sherlock era morto. Esattamente tre anni fa. Sì, gli avevo chiesto un ultimo miracolo, gli avevo chiesto di essere vivo. Ma, se avesse davvero voluto farmelo sapere, non si sarebbe presentato tre anni dopo, no?
Sì. Io ero sono il suo John. Me l’avrebbe detto il giorno stesso della sua “morte”.
Forse stavo dando troppe cose per scontate?
Nel mio cervello iniziarono a prendere vita pensieri contrastanti, che facevano letteralmente a pugni l’uno con l’altro. Non capivo più.

D’un tratto, vidi un’ombra scura aleggiare in lontananza, vicino ad un grande albero. In un batter d’occhio, riempii la distanza con poche grandi falcate e mi ritrovai sotto la fronda di quell’albero immenso. La pioggia, lì sotto, non riusciva a passare tant’erano fitte le foglie che crescevano su quei grandi rami. Mentre ero intento a guardare in alto, sentii distintamente dei passi avanzare con lentezza verso di me. C’era qualcuno, ne ero certo. Chiusi con forza le palpebre: avevo paura di essermi illuso e di sprofondare nuovamente nel dolore, che si sarebbe presentato molto più acuto del solito.

«John.»

Mi beai di quel suono. Cercai di assorbirlo con tutto me stesso, con la paura che potesse scivolarmi via come mi scivolò lui dalle mani, quel giorno che aveva decretato la mia stessa fine.
La sua voce era così profonda e vellutata da farmi ribollire il sangue e tremare violentemente – perché, almeno per questa volta, non tremavo a causa del freddo. Avvertii come una sensazione di conforto, mi sentii a casa.

«John.» riprese la voce. John, John, John. Improvvisamente il mio nome acquisì un senso. Sembrava la più dolce delle melodie, cantata dalla voce più delicata esistente al mondo.
Una voce che, a malincuore, nel corso degli anni avevo quasi dimenticato.

Fu allora che aprii gli occhi.
Fissai la persona davanti a me, e il respiro si arginò in gola. Lacrime calde iniziarono ad invadermi il volto, e piansi, piansi come non avevo mai fatto in quei tre anni. Mi ero trascinato nel lutto senza versare una sola lacrima, ma semplicemente convivendo appieno con lo squarcio che avevo nel petto e che si allargava ogni giorno di più.
Ma, quando lo vidi, piansi come un bambino. Era lì, era lui. Era vivo.
Mi fissava di rimando, con le sopracciglia aggrottate e le labbra piegate verso il basso, con la sua solita espressione. Oh, ma io, l’umile e normale John Watson, sapevo leggere quel volto, ormai conosciuto meglio del mio. Era visibilmente preoccupato e portava su di sé ferite che non avrebbero mai accennato a guarire. Potevo vederlo. Potevo sentirlo.
Tentai invano di avvicinarmi, di muovere le gambe una dietro l’altra, ma senza ottenere nessun risultato vero e proprio. Provai ad aprire bocca, ma non ne uscì alcun suono. Rimasi semplicemente lì, a fissarlo. Occhi negli occhi.

Improvvisamente, le mie gambe cedettero. Con un balzo repentino mi fu accanto e mi sollevò, mentre io boccheggiavo in cerca d’aria. Stavo per cadere a terra e Sherlock Holmes mi aveva appena preso in tempo. Sherlock Holmes. Sentivo di dover ripetere quel nome dentro di me all’infinito, per paura che potesse scomparire di nuovo dalla mia vista.
I miei occhi misero a fuoco la scena: eravamo ancora in piedi sotto quel grande albero e Sherlock mi stava tenendo per un braccio per evitare che cadessi e creassi qualche danno a me stesso. Alzai il viso e trovai il suo: continuava a fissarmi. Le mie lacrime continuavano a scendere, imperterrite e incuranti di chi avevo davanti.
E, in quel momento, accadde l’impensabile.
Sherlock mi tirò a sé e mi strinse in un abbraccio urgente e goffo. Mi strinse e io non riuscii a muovere un muscolo per i primi minuti.
Il mio migliore amico – morto – mi stava abbracciando in un parco non lontano da casa. Nessuno mi avrebbe mai creduto, se solo avessi avuto la minima intenzione di raccontarlo.
Inspirai il suo profumo – era decisamente Sherlock. Il mio cervello decise di tornare a far lavorare gli arti per evitare che si atrofizzassero, e mi portò a far alzare le braccia all’altezza della vita del mio migliore amico.
Infilai entrambe le mani sotto il suo lungo cappotto nero e gli strinsi la vita, forte. Allacciai la mia vita alla sua, in uno scambio di promesse silenziose e perdono.

Felicità.
La felicità, se provata in grandi quantità e in un tempo fugace, può far nascere più dolore di una sofferenza continua e costante. Sherlock, con la sua presenza, mi stava uccidendo.
Ma sarei morto più e più volte tra quelle magre ma forti braccia che mi stringevano come se ne andasse della loro vita, piuttosto che continuare a vivere da morto – come avevo fatto fino a quel momento, prima di incontrare di nuovo quegli occhi di ghiaccio che erano sinonimo di “casa”.

***
Non so se la frase “ti accorgi di quel che hai solo nel momento in cui lo perdi” sia valida e applicabile a qualsiasi tipo di persona e circostanza. Io, di fatto, non ho mai perso Sherlock. Lui è sempre stato dentro di me: padroneggiava i miei sogni nella notte ed occupava ogni pensiero durante il giorno. Quindi, non ho mai perso quello che per me è sempre stato più di un coinquilino.
La distanza forzata di quei tre anni, mi fece comprendere davvero quanto io abbia bisogno - costantemente - di lui nella mia vita, quanto ne sia dipendente.
Ma la mia, non era una dipendenza negativa: era come se il mio intero universo girasse intorno a quell’affascinante ed enigmatico essere che portava il nome di Sherlock Holmes.
Molti affermano che fare di una persona il tuo tutto è la cosa più sbagliata a cui l’essere umano possa arrivare. Io, con tutta sincerità, non credo sia così. Non quando se ne ha la certezza. Sherlock, per quanto imprevedibile possa essere, ha sempre costituito una certezza per me.


Riuscii ad aprire gli occhi solo dopo aver trascorso un po’ di tempo – non saprei dire quanto – tra le braccia del mio eterno salvatore.
Le lacrime si erano finalmente fermate, ed avevano lasciato il posto a dei brividi che percossero tutto il mio corpo. Sherlock, mi strinse ancora di più e mi chiesi come fosse possibile dato che avevo già il respiro mozzato dall’abbraccio. Era come se anche lui avesse paura che sparissi dalla sua vista.
Cercai di muovermi e, con un po’ di sforzo, riuscii a sollevare il capo.
Davanti a me, c’era un uomo distrutto. Solo in quel momento, sbarazzatomi delle lacrime e dello shock, potevo guardare con occhi nuovi ciò che Sherlock era diventato.
La sua pelle era più bianca del solito, i suoi occhi un tempo luminosi come lampi erano spenti. Gli zigomi più pronunciati – mi sarei potuto tagliare solo a sfiorarli [3] – ed, infine, le occhiaie scure e violacee che la facevano da padrone su quel volto scarno.
Provai paura. Pena. E poi, di nuovo, dolore.

«Sherlock.» lo chiamai, con la voce rotta e roca.
Mi guardò. Gli occhi freddi, gelidi,  come una lastra di ghiaccio si sciolsero sotto l’effetto che aveva quella parola su di lui. O meglio, quella voce. La mia voce, che non sentiva da tre lunghissimi anni.
Una lacrima solitaria e silenziosa iniziò il suo percorso alla scoperta di quel viso magro, andando a morire sulle sue labbra a forma di cuore.

C’era troppo silenzio, un silenzio che provocava uno strano sentimento a cui ancora non riesco a dare un nome.
«Andiamo a casa nostra.»
Lo presi per un braccio e ci incamminammo fuori dal parco, insieme. Nessuno dei due con l’intenzione di porre fine al contatto con l’altro. Mi sentivo come se avessi ritrovato me stesso, ed improvvisamente respirare divenne meno doloroso.



Note:
1. Da "I mastini di Baskerville" (2x02)
2. Da "Uno studio in rosa" (1x01)
3. Piccolo omaggio a La Donna, Irene Adler!


Angolo dell'autrice:
Allora, allora! Eccomi qui con una nuova storia!
E' la mia prima long su Sherlock, siate buoni.
Spero (di nuovo aaargh) di non essere caduta nell'OOC! 
Insomma, fatemi sapere le vostre impressioni se vi va (:

A presto,
A Living Hope
  
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