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Autore: Flamel_    13/10/2013    4 recensioni
"Erano sei anni che non ti vedevo. Settantadue mesi senza una telefonata, un messaggio, una mail. (...) Così mi ero allontanata dai rimpianti, dalle promesse, dai resti di noi e avevo iniziato in qualche modo una nuova vita lontana da te, ovunque tu fossi".
"Andrà tutto bene".
Frankie "Fraz" e Luke hanno condiviso qualcosa insieme, in passato. Adesso, dopo sei anni, settantadue mesi e tanti tour in giro per il mondo, riusciranno a ritrovare ciò che avevano perso in così tanto tempo?
Genere: Angst, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Luke Hemmings, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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"Lost and insecure
You found me you found me
Lying on the floor
Surround me surround me
Why’d you have to wait
Where were you where were you
Just a little late
You found me you found me"
You found me- The Fray
 

 

 

 

Sei anni, settantadue mesi

 

 

 

 

Erano sei anni che non ti vedevo. Settantadue mesi senza una telefonata, un messaggio, una mail. Forse qualche SMS ai compleanni, per cortesia, giusto perché ehi, mi ricordo ancora di te. E se non ti ricordavi di me, forse ricordavi tutti i pezzetti del puzzle incompleto che è stata la nostra storia. Fosse stato reale, avrebbe avuto un grosso scatolone, duemila pezzi e l’immagine di un tramonto striato di arancione. Non l’abbiamo mai finito quel puzzle, forse nemmeno siamo arrivati a metà. Adesso è sull’armadio, impolverato, nell’attesa vana di essere completato.
Non mi sono mai chiesta se ti mancassi –sarebbe stata un’arma a doppio taglio- ma ogni tanto sentivo il pensiero sfiorarmi, poi lo allontanavo con forza, chiudendolo dentro quelle mura che racchiudevano gran parte dei ricordi inutili e dolorosi. Ogni tanto, scorrendo la rubrica, incrociavo quel Lucas H. che un tempo mi faceva battere il cuore solo alla vista. Premere il pulsante verde, chiamarti fingendo di aver sbagliato numero, ci ero andata vicino più volte. Ma avevo una mia dignità; e poi mi conoscevi così bene che avresti intuito, anche a distanza di anni. Così mi ero allontanata dai rimpianti, dalle promesse, dai resti di noi e avevo iniziato in qualche modo una nuova vita lontana da te, ovunque tu fossi.



È svenuta. È svenuta, siamo in un parco giochi ai margini della città e non ho idea di cosa fare. Racimolo le raccomandazioni di mia madre sugli svenimenti, cerco di metterle in pratica più presto possibile. Alzo le gambe leggere di Denise, fin troppo magre, e intanto mi guardo attorno alla ricerca di un aiuto. Non passa una macchina né una persona, c’è un citofono a una decina di metri, ma come allontanarmi e lasciarla da sola?
Non posso.
Mi accovaccio accanto a lei. «Dai, Nise» sussurro, scuoto il viso con la mano, l’altra affonda già nel tessuto della borsa (quanto vorrei averla svuotata oggi) alla ricerca del cellulare. Le gambe scivolano sulle mie spalle, vedo le sue palpebre tremare.
«Fraz…?» mormora Denise, le ciglia piene di mascara si districano e riesce a guardarmi attraverso una piccola semiluna.
«Oh, Denise! Come stai? Succede spesso? Chiamo l’ambulanza?». Le domande sorgono spontanee e non riesco a filtrarle. Immagino che tutte queste parole siano coltellate per le sue orecchie, ma è già tanto che non sia svenuta anch’io dalla paura.
Lei aggrotta le sopracciglia, infastidita. «Sta’ zitta, Frankie, non capisco niente…» mi rimprovera e riesco solo a mordermi la lingua per non parlare ancora. Non ha risposto alle domande e non credo ne abbia l’intenzione, ma questo non mi rassicura. Anzi, sono così tesa che sobbalzo al solo scricchiolio delle foglie sul cemento, arriva qualcuno. Anche Denise se ne accorge, guarda chi c’è dietro; temo che non si fidi troppo del mio aiuto.
«Avete bisogno di una mano?» chiede una voce profonda dietro di me e sono sorpresa di trovare davanti a me un ragazzo che deve avere più o meno la mia età.
«No, grazie» è la flebile quanto veloce risposta di Denise. «Hai una macchina?» chiedo invece io, ancora decisa ad andare in ospedale.
«Ho una bicicletta».
Con un flash immagino la mia amica in uno stato di semicoscienza, aggrappata a uno sconosciuto sul portapacchi di una bicicletta… «No, grazie. Sai dov’è un ospedale?».
«Non voglio andare in ospedale» si lamenta Denise e viene fulminata da un’occhiataccia. «Sto bene, davve…» chiude gli occhi, ancora.
Il ragazzo, alto, biondo, si china e con un piccolo sbuffo riesce a prenderla in braccio. Sembra una bambina, appoggiata alle spalle del ragazzo che la regge senza fatica. Mi chiedo se fossi stata al suo posto, quale sollevatore di pesi sarebbe riuscito a portarmi fino all’ospedale.
«È qui vicino, arriviamo subito».

È ancora qui il ragazzo biondo.
«Com’è che ti chiami?» domando voltandomi verso di lui. È seduto accanto a me su una di quelle sedie di plastica agganciate in file di cinque, tipiche degli ospedali e degli aeroporti.
«Lucas» dice lui vibrando la voce profonda. Non so dove trovo la forza di ridacchiare al misero tentativo di apparire interessante ai miei occhi. È gentile, ha gli occhi azzurri e quando sorride ha almeno una fossetta, sul profilo destro. È già abbastanza interessante senza che arrochisca la voce.
Mi guarda sorpreso –forse mi ha preso per pazza, a ridere in una situazione del genere- ma non infierisce. «E tu, come ti chiami?».
«Frankie, Franz, Fraz, come ti pare».
«Frankie Fraz mi piace. Sembra la marca di un pacchetto di patatine».
«Non mi piacciono le patatine» mormoro e poi scuoto la testa: come se potesse interessargli.
«Davvero?» e forse è più sorpreso di me. «Non ho mai conosciuto qualcuno a cui non piacciono le patatine… È come non bere Coca Cola».
«Nemmeno quella mi piace». Stavolta rido perché sono stanca e perché questa situazione è assurda. Sto parlando dei miei gusti gastronomici con uno sconosciuto dalla bella voce mentre l’amica con cui sto cercando di ricostruire un rapporto è nascosta chissà dove in questo ospedale.
«Sei strana, Frankie Fraz» dice, poi le sue parole cadono nel vuoto: l’infermiera ci caccia perché il turno delle visite è finito, noi non dovremmo essere lì, ma ci è stato permesso solo per sapere che Denise ha avuto un calo di zuccheri. Comunque rimarrà in ospedale in caso di ricadute, hanno avvisato i suoi genitori, grazie tante e arrivederci.

«Che gentile» commenta Lucas affondando le mani nelle tasche.
Fa freddo, mi stringo nel cappotto leggero, inizia a imbrunire. «Almeno Denise sta bene» commento guardando il cielo. Il crepuscolo mi ha sempre trasmesso una certa inquietudine, Lucas se ne accorge e mi distrae.
«È una tua amica?». O almeno ci prova.
«Lo era. Uhm, questo suona male». Lui ridacchia e stavolta mi distrae davvero. Passa qualche secondo, prima che riprenda a parlare. «Abbiamo litigato e oggi avevamo l’occasione di stare insieme come prima…».
«Perché vi siete allontanate?» chiede e adesso penso che lo faccia solo per non far cadere la conversazione. Nemmeno a me e a Denise importa del nostro rapporto, figuriamoci un ragazzo conosciuto per caso in un parco giochi.
«Ha fatto l’amore col mio ragazzo» sussurro, poi, come ogni volta mi vengono in mente tutti quei piccoli dettagli che mi sono sfuggiti mentre stavamo insieme e mi maledico per non essermene accorta prima. Perciò cambio discorso in fretta. «Dove stiamo andand… Lucas?».
È rimasto indietro, mi volto, sorride come se gli fosse venuta in mente una pessima battuta. «Quando sono triste vado in un posto. Vuoi venire con me?».


Se uno sconosciuto mi chiedesse di andare con lui da qualche parte, probabilmente mi allontanerei da lui e anche in fretta. Anche se fosse un Luke Hemmings. Ma a quindici anni mi fidavo delle persone, soprattutto dei Luke Hemmings. Il suo posto preferito altro non era che un ponte sbilenco su un fiumiciattolo, vicino al parco giochi in cui ci eravamo incontrati. Abbiamo preso un hot dog e ci siamo seduti sul legno freddo del ponticello.


Ho scoperto che a Luke non piace parlare, ma sa ascoltare. E ama guardarti quando gli racconti qualcosa, ma ha lo sguardo fisso davanti a sé quando parla lui. Tiene le mani sulle ginocchia, ogni tanto le infila in tasca e quando è nervoso si pizzica i polpastrelli per la tensione. Sulla pizza ci mette i peperoni, gli piace la matematica e suona in una band con i suoi migliori amici. Mi ha dato il suo numero di telefono, mi ha accompagnato a casa e mi ha abbracciato come se ci conoscessimo da tempo, non da un paio di ore. Mi ha dato il suo numero di cellulare per fargli sapere di Denise e Sai, nessuno mi chiama Lucas mi ha confessato, io sono Luke per tutti.
Ma ormai era già Lucas H. nella mia rubrica e così è rimasto fino ad ora.

Stiamo camminando insieme, in direzione soffitta di casa Clifford. I 5 seconds of summer si esercitano lì, in attesa di racimolare abbastanza soldi per una vera sala prove. Sono così lenta che Luke ogni tanto si è girato a dirmi di affrettarmi, altrimenti avrebbe fatto tardi all’appuntamento. E non dare la colpa all’altezza, Fraz, sei solo spaventata, ha aggiunto con un sorriso.
«E se non piaccio, Luke?».
Afferro il suo avambraccio e lui si volta verso di me, paziente. 
Abbiamo affrontato questo discorso almeno tre volte oggi e Luke ancora non si è stufato di ascoltarmi. Anche solo il suo sguardo sereno mi rassicura mentre «Frankie, non ti preoccupare. Anche se dovesse succedere, se non piacessi a loro… Non smetteresti mai di piacere a me» mi ricorda, per l’ennesima volta. «Siete importanti per me: non riuscirei a lasciar andare nessuno di voi».



Sono passati sei anni e ancora non ho dimenticato quella frase; settantadue mesi che mi chiedo se mentivi, se sapevi che mentivi, se hai mai pensato per un istante il contrario. L’hai mai fatto? Forse non è importante, a sedici anni si parla con forza, coraggio, si arriva a grandi certezze che dopo un attimo ci si gira e già sono svanite. Ho sempre pensato che tu non sia mai stato un sedicenne comune, ma forse cerco solo di illudermi ancora una volta.
Siete importanti per me: non riuscirei a lasciar andare nessuno di voi.
Eppure è successo. Dopo infinite cover, dopo il tweet di Louis Tomlinson, dopo che i 5sos avevano raggiunto una certa popolarità su internet… La bomba: il tour con gli One Direction.
Non riuscirei a lasciar andare nessuno di voi.
Forse sarebbe stato più corretto dire non
vorrei lasciar andare, perché quando hai dovuto fare una scelta, sei riuscito a superare il distacco.



Siamo al ponticello di legno, seduti, un hot dog appena mangiato, come la prima volta. Strano che la fine sia identica all’inizio. C’è ancora quella sorta di tensione nell’aria, poco importa se per motivi diversi. Luke non si sforza di fare la voce profonda, perché è ormai naturale. È passato quasi un anno da quando ci siamo conosciuti ed è cambiato qualcosa. Ragazze dai dodici ai fin troppi anni fermano Luke per strada, chiedendo di fare una foto insieme. I 5 seconds of summer vengono invitati a suonare nelle radio, conoscono band famose, hanno una loro sala prove. E adesso stanno per partire con gli One Direction.
È cambiato “qualcosa”.
«Luke». 
Provo a chiamarlo; abbiamo avuto tempo per discutere, ma non siamo mai arrivati a una soluzione. Stavolta sono decisa a mettere un punto fermo alla situazione, ma Luke sembra non volermi guardare nemmeno. Osserva il viale sterrato che scorre in prossimità del fiume, le foglie degli alberi che si apprestano a cadere, osserva le mani sporche di terriccio, ma verso di me proprio non si gira.
«Luke». Ancora.
Mi fulmina con un’occhiataccia. «Che c’è?» dice freddo, poi torna a guardare il cielo.
«Che c’è? Siamo venuti qui a parlare del tempo, Luke, o del casino a cui non verremo mai a capo?».
«È un casino solo nella tua testa; è semplice: parto, ci sentiamo appena possibile, poi torno e continua la solita vita». Scrolla le spalle. «È semplice,
Francesca».
«No, non è semplice,
Lucas. Secondo te dopo il tour smetterete di esistere come band? Avrete fatto il vostro giretto per l’America e tornate a casa?». La mia voce s’incrina sempre di più e da una parte spero sia davvero così: che tornino a casa, a scuola e che iniziamo a frequentare insieme l’università. Egoistico da parte mia, che dovrei augurargli solo che i suoi sogni si avverino, anche se i miei andranno distrutti.
Finalmente ammette la mia presenza e mi circonda la vita con un braccio. Addirittura si volta, mi guarda, gli occhi sono lucidi. «Andrà tutto bene» accenna a un mezzo sorriso.
«Vorrei crederci» singhiozzo e subito mi tappo la bocca con la mano. È quello che volevo evitare. Mi lascio andare contro la sua spalla, inspiro con forza il profumo intrappolato nella sua sciarpa.
Luke alza gli occhi al cielo mentre mi accarezza i capelli sempre in disordine. «Dovevo aspettarmi una cosa del genere da una che non mangia patatine e non beve Coca Cola: non apprezzi i piaceri della vita, Frankie Fraz».
Rido e piango nello stesso momento. «Così non mi aiuti, Luke… E poi cosa ci trovi di piacevole nel rimanere a casa aspettando che il tuo ragazzo torni da un tour infinito?».
Non ha il coraggio di rispondere, mi stringe solo più forte. «Andrà tutto bene» ripete.


Andrà tutto bene.
Una di quelle frasi come “sto bene”, “da lunedì inizio la dieta”, “ho dimenticato i compiti a casa”, nate per mentire. L’ho ripetuta come una preghiera per giorni, per il primo mese, per il secondo. Poi abbiamo iniziato a scriverci di rado, sempre meno, senza dare spiegazioni.
Sei anni, settantadue mesi e non ti ho dimenticato.


Sono le sette e mezza di sera, un orario morto e nessuno passa in questa traversa già poco frequentata. Ci sono ancora pochi negozi aperti, una libreria e un bar, e la farmacista sta abbassando ora la saracinesca. Pare sia stata una giornata difficile per tutti: sono rimasta nella scuola in cui faccio tirocinio per seguire un seminario che nemmeno m’interessava fino a quando anche il proiettore ha deciso che quella seduta era estenuante e ha iniziato a far bizze, mandando tutti a casa mezz’ora prima.
Ogni tanto, mentre cammino, chiudo gli occhi. È rilassante provare ad avanzare nel buio, l’adrenalina per il rischio –di beccare un palo- è un gioco divertente con cui passare il tempo. Fino a quando sento che c’è qualcuno per strada e apro gli occhi per non andarci a sbattere contro.
Adesso ho gli occhi aperti, dopo un secondo sono spalancati.
Appena ti ho visto è stato come se ti avessi sempre avuto qui accanto a me. Non che tu non sia cambiato: sei più muscoloso, ancora più alto e hai un taglio di capelli normale.
Hai smesso di indossare i braccialetti di gomma di band sconosciute, ma quella che vedo sotto la felpa blu è una maglia dei Nirvana: almeno questo non è cambiato. Non sei rigido con le spalle, fai ciondolare le braccia avanti e indietro, sembri a tuo agio. Sei un po’ più Calum e un po’ meno Luke, meno titubante, meno insicuro.
A parte quando mi vedi.
Ti fermi in mezzo alla strada, così mi fermo anche io. Dopo tanto tempo ci sono solo pochi metri tra noi e sento l’improvvisa voglia di annullarli, del tutto. Ma non lo faccio: mi limito a un sorriso, adesso sei tu a imitarmi, accenni qualche passo e riesco già a vedere le tue fossette. È come quando, dopo anni, si riascolta una canzone e si scopre di conoscere ancora tutte le parole a memoria. Sei cambiato, ma ti conosco. Dietro quella spavalderia c’è ancora quel ragazzo che arrochisce la voce per sembrare più attraente e che durante un’esibizione si preoccupa più dei suoi capelli che della chitarra.
«Frankie».
La tua voce mi scuote, scrolla via la stanchezza, la pesantezza della giornata. È adrenalina, è eccitazione, c’è del rimpianto, ma cosa importa, è passato troppo tempo. Allora fai qualche altro passo, mi abbracci (quanto sei diventato alto, Lucas?), non ci sono abbastanza parole per colmare quegli anni di silenzio.
«Come stai, Luke?». Che domanda sciocca: vivi del tuo sogno, come potresti non essere felice?
«Vivo» dici e basta, mi hai letto nel pensiero ancora una volta. «Tu?».

Un’ora dopo, avere Luke accanto a me è la cosa più naturale del mondo. Certo, è ancora strano vederlo col cellulare di ultimo modello rispetto al Nokia preistorico di qualche anno fa, ma a parte la notorietà, non è cambiato molto, se si esclude il proprietario del pub in cui abbiamo preso l’hot dog. Quando parla di sé, Luke guarda ancora dritto davanti a lui, gli piace la matematica (ogni tanto dà qualche esame), ma sulla pizza ci mette il prosciutto, non più i peperoni. Ancora non abbiamo parlato di noi e nei momenti di silenzio perdiamo lo sguardo nella birra scura nei nostri bicchieri piuttosto che guardarci negli occhi e affrontare l’argomento. Forse è meglio così. Forse è inutile. Eravamo adolescenti con troppi sogni e aspettative, ma il passato è così distante che, sì, probabilmente è inutile.
«È come Hogwarts, sai, lì tutti sono maghi… In casa invece siamo tutti musicisti. A volte è divertente –altre insopportabile- ma ne vale la pena, soprattutto perché le pareti…».
«Sono insonorizzate» termino per lui con un sorriso. Mi rivolge uno sguardo interrogativo e un po’ sorpreso. «È sempre stato il tuo sogno. Lo dicevi spesso… Prima».
Altro momento di silenzio. Stavolta Luke vorrebbe affogarsi nella birra, resuscitare e affogarsi di nuovo. Stringo un po’ le labbra. «Scusa, non volevo» gli lancio un’occhiata frettolosa. «È stato stupido».
Il sorriso stirato è una risposta più che eloquente e mi maledico per aver aperto bocca senza riflettere. «Non ti preoccupare» mi sorprende. «Speravo e allo stesso tempo temevo di parlarne».
«Non c’è molto da dire» mormoro velocemente. Grazie al cielo il proprietario tarchiato del pub urta Luke mentre beve l’ennesimo sorso di birra, lui tossisce sputacchiando qua e là e ci distrae per qualche minuto dall’imbarazzo.
«Comunque credo che… Che se non fossi partito le cose sarebbero andate diversamente» dice dopo aver asciugato il bancone dalla schiuma della nuova birra.
«Ma non dirmi!» commento ironica e lui rotea gli occhi. «Avanti, hai capito cosa intendevo dire. Tra di noi sarebbe andata diversamente».
«Già». Non credo mi abbia sentito, ammetterlo a me stessa è già difficile, con lui è anche peggio. È il rimorso per non aver insistito abbastanza ad avermi resa vulnerabile in tutti questi anni; che lui abbia ammesso che sarebbe durata tra noi, mi dà una certa sicurezza: forse non mentiva quando diceva che ero importante per lui.
«Credo che staremmo insieme adesso» afferma con decisione, guardando però altrove: adesso è un misto tra Ashton e Luke, tra un dongiovanni provocatore e un chitarrista che riesce a parlare di sentimenti solo se canta.
«Non voglio parlarne, Luke» dico chiaramente. Vorrei aggiungere quelle tre parole che non smetto di ripetere nella mia mente stasera. «È passato…».
«È passato tempo, è vero, ma il tempo non ha cancellato l’affetto che provo per te» ammette con un sorriso stiracchiato.
Non afferra il concetto di “non voglio parlarne”: la birra, il tempo trascorso con Ashton e Calum e altra birra lo rendono un po’ più sicuro di sé e un po’ meno disposto al compromesso. «Ti ringrazio, allora».
«Ti ringrazio?» si volta verso di me, stralunato. «Ti ringrazio, Frankie? Come se ti avessi fatto un regalo. È diverso da un regalo, è molto più di un regalo, è quella maglia dei Nirvana che non ricordavo di avere e che ho trovato sul fondo del cassetto; è un “solo un po’ in ritardo, ci siamo trovati”: è molto di più».
È almeno brillo. Luke non è mai stato un tipo di tante parole. «Non vale citare i The Fray, Lucas».
«Te la ricordi, quella cover?» sorride ancora, stavolta mi guarda, ma la mente è proiettata a tanti anni prima, ai video postati su Youtube di fretta e furia subito dopo aver imparato a suonare una nuova canzone (il testo, ovviamente, era secondario).
«Sì, me la ricordo». E ricordo anche la mail con cui mi ha allegato quel video:
ci conosciamo ancora da poco, ma… okay, beh, non sono mai stato bravo con le parole. Con la chitarra me la cavo, invece. Guarda.
«Ne farò un’altra, proprio stasera. Anzi… Ti va di venire con me in un posto?».

Poi siamo finiti nella casetta di Luke, quella che ha comprato con i primi risparmi. Quella piccolina, con più chitarre che bicchieri, la bici in salotto e due mensole occupate interamente da cd. Siamo finiti a cantare insieme le canzoni dei The Fray, complice qualche birra in più. Siamo finiti a parlare liberamente della nostra relazione, a rinfacciarci i difetti più assurdi e a strillare perché “Il mio bagnoschiuma non puzza!” e “Io non russo di notte!”. Abbiamo bevuto un altro po’, alzato un po’ troppo la voce, abbiamo riso, bevuto ancora, abbiamo anche pianto, ma per il troppo ridere. Abbiamo promesso che non avremmo perso i contatti e che non avremmo usato la scusa di non ricordare perché troppo brilli. Ho mangiato tutti i biscotti al limone della credenza mentre Luke cantava le vecchie canzoni dei 5 seconds of summer, mentre sbagliava le parole di Check yes Juliet e rideva per i suoi errori. Abbiamo riso ancora e siamo tornati piccoli, sedicenni, tornati a quando eravamo un po’ più timorosi, ma più sinceri, a quando ci lanciavamo nelle avventure senza pensare alla fine. A quando ci abbiamo provato, almeno, ed eravamo felici.
Alla fine, un po’ brilli e un po’ incoscienti, ci siamo trovati. Forse non durerà, forse siamo cambiati troppo. È passato del tempo, ma ci siamo trovati, con un po’ di ritardo ci abbiamo provato.
Sei anni, settantadue mesi dopo.

 

 

 

 

 


 

 

Flamel_'s corner.

Sciao people. È la prima het che posto in questo fandom e >///< ansia! Non so bene cosa dire. Spero si siano capite in cui Frankie narra da "adulta" e quelle in cui ha quindici anni. Volevo mettere in corsivo le seconde, ma io detesto leggere il corsivo per lunghi periodi e... beh, spero si capisca çç

La canzone che citano Luke e Frankie quando dicono di essersi trovati, "solo un po' in ritardo" è You Found Me dei The Fray (di cui ho scritto il ritornello ^ lissù!) e che mi ha brutalmente ispirato per questa fanfic. Anche perché... Avete visto Luke piccino che la canta? Ma che tenerezza **

Ehm, feelings a parte.

Spero davvero vi sia piaciuta. Fatemi sapere se posso tornare a intasare questo fandom. **

F_ 


p.s. C'è qualcosa che manca nell'HTML, ma davvero non so cosa sia... e.e

  
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