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Autore: Artemide12    13/10/2013    2 recensioni
Sono passati venticinque anni da quando alieni e MewMew combattevano sulla Terra.
Ora su Arret – il pianeta alieno riportato alla vita grazie all'acqua-cristallo – dominano forze oscure che hanno interrotto qualsiasi contatto con il resto dell'Universo e costringono l'intera popolazione a vivere nell'ombra, schiava dei suoi padroni.
Nel disperato tentativo di ribaltare le sorti del pianeta, i cugini Ikisatashi e gli altri Connect fuggono e atterrano sulla lontana e ormai dimenticata Terra.
Ma quanto può essere sicuro un pianeta lontano anni luce se nasconde il proprio passato?
Genere: Avventura, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Nata per fare quello.

 

La donna entrò silenziosamente nel laboratorio.

«Come procedono le ricerche?»

L'uomo si voltò, sorpreso di vederla ancora in piedi.

«In realtà non sono ancora iniziate, mi sono lasciato distrarre.» ammise.

La donna si sedette accanto a lui.

«Da cosa?»

«Da questo.» disse l'alieno mostrandole una lucertola.

«Cos'ha di particolare?» chiese curiosa l'umana.

«Se ti dico cos'è non ci credi.»

La donna lesse il nome sullo schermo olografico che lievitava sulla scrivania.

Stupita, tornò a guardare il piccole rettile sulla scrivania.

«Stupefacente vero?»

«Non capisco come sia possibile.» commentò la donna.

«Ogni specie si evolve. Umana o aliena che sia. Sia per adattamento all'ambiente che lo circonda, sia per la presenza di altre specie.»

La donna rimase in silenzio, lo sguardo basso fisso nel vuoto.

«Anche loro sono un'evoluzione...» disse infine. Non suonò come una domanda, anche se probabilmente lo era.

Non servì specificare di chi stesse parlando.

L'uomo stirò le labbra in un sorriso. Ci aveva già pensato in effetti.

«Vedremo di cosa saranno capaci.» concluse l'alieno tornando ad osservare il grosso rettile che lo fissava affamato dalla scrivania.

 

Arrivarono davanti al pianeta dopo circa tre quarti d'ora.

Nell'astronave regnava il silenzio.

Nella stanza di ritrovo dove era radunata la maggior parte dei passeggeri, ognuno si guardava intorno con un misto di ansia e di speranza.

Pit si era addormentato accanto al fratello che, invece, era particolarmente vigile.

Kathleen si era rannicchiata in braccio a Catron che la cullava come una bambina.

Psiche continuava a tenere le cuffiette e a spostare lo sguardo da un volto all'altro, ma la musica che ascoltava non era altro che un malinconico pezzo al pianoforte che si addiceva perfettamente alla situazione.

Nella sala comandi Aprilynne e Silver si lanciavano occhiate nervose e speranzose allo stesso tempo mentre Raylene combatteva con i sintomi della stanchezza e si costringeva a tenere gli occhi aperti.

Aprilynne prese un respiro profondo.

«Ci siamo ragazzi.» disse cercando di usare un tono sicuro «O la va o la spacca.»

Usando i comandi manuali fece per entrare nell'orbita terrestre.

Poco prima di immettersi nell'atmosfera, però, la navicella si scontrò contro qualcosa di denso ed elastico che la dirottò di nuovo nello spazio.

«Cos'è stato?» urlò Kathleen tutto d'un fiato dopo quel brusco sbandamento.

«Non è niente Kathleen, sta' tranquilla.» le dispose benevolo Catron stringendola nel suo abbraccio.

«Non puoi dirmi di stare calma! Siamo nello spazio con il carburante quasi finito, in rotta per chissà dove, con una missione impossibile...»

«Tutte le nostre missioni sono impossibili.»

«Sì, ma questa è la più impossibile di tutte!»

«Speriamo sia anche la più divertente di tutte!»

Kathleen sospirò e tornò a farsi cullare dal ragazzo.

«Cosa diavolo era?» Aprilynne aveva pronunciato quelle parole quasi contemporaneamente a Kathleen.

«Non ne ho idea!» rispose il ragazzo.

«Come sarebbe a dire “non ne ho idea”?! Dannazione! Ray, tu ce l'hai un'idea, vero?»

La ragazza dai capelli lilla si stropicciò gli occhi con gli indici e si guardò intorno.

«Sembrava un campo di energia.» commentò poi.

«Meno male, almeno è un'idea.»

«Se fosse un campo di forza dovremmo vederlo.» notò Silver.

«Non per forza. Potrebbe trattarsi di una specie di barriera protettiva interna anziché esterna. Parallela all'atmosfera e perfettamente invisibile. Alcune astronavi molto sofisticate usano cose simili.»

Silver annuì pensieroso.

«Potreste tradurre in lingua comprensibile?» chiese la verde.

L'amica sospirò. «Ciò che intendo è che esistono alcuni tipi di barriere che non funzionano come un semplice guscio esterno. È un po' come mischiare acqua e zucchero. Deve esserci qualche sostanza nell'atmosfera terrestre perfettamente mescolata con i gas già presenti nell'aria che si espande verso l'esterno del pianeta e che funzione un po' come un filtro. Non è visibile perché è una difesa naturale del pianeta.»

«Se lo dici tu...» fece Aprilynne poco convinta. «Basta che ci sia un modo per oltrepassarla.»

«Lo vediamo subito.» rispose Silver armeggiando con la tastiera.

Un velo olivastro appannò per qualche secondo il vetro davanti a loro, poi si dissolse lasciando intravedere nuovamente il pianeta.

«Che cos'è?» fece la verde quasi incantata.

Tutta la Terra era infatti ricoperta di una strana nebbia color verde acceso.

«Esattamente quello che ti ho spiegato prima. È a base di fosforo quindi non dovrebbe crearci troppi problemi.»

«Sì, ma come entriamo?»

«Ci sarà un punto debole da qualche parte.»

«E come lo individuiamo?»

«Facile. È dove lo strato verde è più sottile.»

«Lì» indicò Silver «Lì è molto meno densa.»

«Bene, allora tenetevi!» esclamò Aprilynne riprendendo i comandi.

Si fiondò in quello spiraglio. L'unico punto debole in quella strana barriera. Il loro unico possibile accesso. La loro unica e ultima speranza.

«Atterra nella nebbia verde.» le suggerì Silver.

«Perché?»

«Perché penso che possiamo usarla a nostro favore.»

 

Quella di Silver fu una vera e propria idea geniale.

La nebbia verde era abbastanza spessa da potercisi atterrare, in modo da non dare nell'occhio entrando in un pianeta che non sospetta minimamente della presenza di forse di vita extraterrestri.

Allo stesso tempo, però, quella strana barriera difensiva era abbastanza sottile da poterla facilmente oltrepassare con in teletrasporto.

Era, insomma, un posto perfetto dove nascondersi.

La prima cosa che tutti fecero, di comune accordo, fu farsi una bella dormita.

La prima a svegliarsi – tre ore dopo – fu Psiche.

Avrebbe volentieri passato il resto della giornata a sentire musica, ma il suo “cellulare” si era scaricato e questo era un grosso problema.

Si trattava di una lastra metallica sottile quanto un foglio di carta e grande più o meno quanto una fotografia. Poteva tranquillamente essere arrotolato e infilato nella borsa.

Psiche frugò nel suo piccolo bagaglio finché non trovò il carica-batterie e infilò anche quello nella voluminosa tracolla.

Sulla Terra doveva esserci un modo di ricaricare la batteria.

Uscì dall'astronave e si teletrasportò sulla terraferma.

Si ritrovò in mezzo alla strada e per poco non fu investita da una velocissima auto bianca.

Balzò sul marciapiede appena in tempo.

Si guardò intorno.

Era circondata da costruzioni altissime e luminosissime che alternavano strati di vetrate ad altri di altri materiali da costruzione. Erano così slanciate che non se ne vedeva la fine.

Ai piani più bassi c'erano quelle che sembravano enormi finestre sulle quali erano state abbassate pesanti lastre metalliche. Alcuni uomini le alzavano premendo un pulsante posizionato a terra. O almeno era così che Psiche interpretava i loro comportamenti.

Davanti ad una porta erano disposti diversi tavolini quadrati.

BAR-Caffè diceva l'insegna.

Un uomo le passò accanto e la osservò inarcando un sopracciglio.

Si chiese perché. Poi si rese conto che doveva essere per via del suo abbigliamento. Portava uno stretto e striminzito corpetto grigio e un calzoncino nero pieno di lacci che le ricadevano lungo le gambe. Ai piedi portava degli stivali a pianta piatta.

Adocchiò una vetrata con dietro degli abiti simili a quelli degli abitanti di quel pianeta.

Si materializzò all'interno del negozio.

Non essendoci ancora nessuno poté girare indisturbata.

Afferrò una rivista posata sul bancone per vedere come si vestiva la gente di quel posto.

Come prima cosa prese un bel po' di jeans di varie misure e li infilò in una busta che sistemò a sua volta nella borsa. Ringraziò il fatto che fosse molto capiente e che i pantaloni fossero piegati per bene. Prese altre magliette un po' a casaccio e le mise in un sacchetto che legò alla tracolla.

Fatto questo cominciò a guardare vestiti per sé.

Alla fine prese delle calze nere velate che mire sotto i calzoncini, una canottiera grigia piena di paillette argentate e un giacchetto grigio di cotone che le arrivava più in basso dei calzoncini.

Mica male pensò guardandosi allo specchio.

A quel punto tornò a guardarsi intorno. Stavolta, però, cercava una presa per il cellulare.

L'unica che trovò non andava bene per il caricabatterie. L'attacco che cercava era a spirale, mentre quelli del negozio erano più o meno rettangolari.

A quel punto pensò che in quei palazzi altissimi doveva esserci una presa decente.

Recuperò la borsa e si materializzò in uno di quelli su cui si affacciava la vetrina del negozio.

Questa volta il posto era tutt'altro che deserto.

Per fortuna spaventò solo due bambini che stavano venendo proprio verso di lei.

«Sei una fata?» chiese la più piccola.

«Io?» fece Psiche.

La bimba la guardò speranzosa.

«Sì!» si riprese subito la ragazza «Sono una fata che si è persa. Dove sono?»

«Nel mio grattacelo!» esclamò la piccola tutta felice.

«Ah, che bello! … E dov'è il “tuo” grattacelo?»

«A New York, in America!»

Grattacelo, New York, America. Psiche memorizzò i nomi, era sicura che i fratelli li avrebbero trovati interessanti.

Cercò di aggirare i due bambini, ma la piccola la fermò dicendo:

«Fai una magia?»

«Tipo riportarti dalla mamma?»

«No, tipo far brillare tutto o far apparire un peluche!»

Psiche alzò gli occhi al cielo, poi ebbe un'idea.

«Se ti faccio vedere delle mosse magiche va bene lo stesso?»

«A che servono le mosse?»

«A fare incantesimi più potenti!» sbuffò.

«Ok!»

Psiche si sfilò la borsa e la posò dietro l'angolo, fuori dal campo visivo dei due.

«Sei proprio strana con quei capelli, sai?» osservò intanto il bambino più grande.

Psiche registrò quel particolare e lo tenne in considerazione per dopo.

Prese un respiro, poi si esibì in una rapidissima rovesciata all'indietro, ci attaccò un flic e poi si diede la spinta per un salto mortale così veloce che poté aggrapparsi al soffitto e riatterrare alle spalle dei ragazzi senza che i due se ne accorgessero.

Svelta recuperò la borsa e si allontanò.

Controvoglia legò i capelli in una voluminosa coda e tirò su il cappuccio del giacchetto. Dato il suo abbigliamento quel particolare non dava troppo nell'occhio.

Passando davanti ad uno stend di occhiali, poi, ne prese un paio con la montatura in plastica bianca, sfilò le lenti e se li infilò.

Entrò in un negozio di elettrodomestici che aveva appena aperto, ma che già attirava diversi clienti.

Si guardò intorno spaesata.

Prese un iphone messo su un ripiano come campione e se lo rigirò tra le dita.

«Le interessa?» la voce di un ragazzo del reparto la fece quasi sobbalzare.

«Volevo... informazioni.» abbozzò Psiche, incerta.

«Ha trovato la persona giusta allora! Quello, nel caso non lo sapesse, è un iphone 12bis.»

«Perché “bis”?»

«Beh, perché il dodici è uscito parecchio tempo fa, signorina. Quella è una rielaborazione: stesso aspetto, stessa grafica, ma la tecnologia moderna.»

Psiche continuò a guardarlo inespressiva. Purtroppo quelle parole le dicevano ben poco.

«Provi ad accederlo.» la incitò il ragazzo, un po' irritato dalla sua totale incompetenza. Alla fine levò il cellulare dalle mani della ragazza e lo accese.

Psiche guardò curiosa mentre sullo schermo appariva uno sfondo colorato con sopra scritta la marca del telefono.

Era così vicina che quasi si spaventò quando dallo schermo fuoriuscirono delle piccole icone cubiche che cominciarono a gironzolare sospese nel vuoto.

«Sono ologrammi, naturalmente, ma funzionano come delle normali icone.» spiegò spazientito il ragazzo con il tono di chi spiega l'alfabeto ad un bambinetto dell'asilo particolarmente irritante.

Psiche infilò il dito nel cubetto azzurro con l'immagine di una nota musicale.

Il cubo esplose lasciando spazio ad una lista di canzoni che si disposero come la ruota di un criceto.

Psiche la fece girare con il dito, lo sguardo come ipnotizzato, poi ne cliccò una a caso. Quella si fece più cicciotta e si posizionò al centro. Sotto la scritta comparve una barra nera con dentro una barretta blu più piccola che andava avanzando.

«Indica a che punto è la canzone.» disse il ragazzo.

«Lo so che cos'è!» gli ringhiò Psiche anche se non era la verità.

Rimase in silenzio ad ascoltare il ritmo martellante della musica.

«Chi canta?» chiese ingenuamente.

«Cosa?» il ragazzo perse perfino il suo tono irritato per la sorpresa. «Non dirmi che non conosci gli x-y

«Chi?» fece la ragazza che aveva sentito quelle lettere solo nei problemi di matematica.

«Gli x-y! Oh mio dio! Fratello e sorella. Sono il gruppo più amato del ventunesimo secolo!»

Ventunesimo secolo. Registrò mentalmente anche quello.

«Io veramente ascolto i Discok.» replicò a quel punto Psiche.

«Chi?»

«I Discok. Sono il gruppo più alla moda del ventiduesimo secolo!»

Psiche si allontanò trattenendo una risata davanti all'espressione ebete del ragazzo.

Non aveva detto una bugia. Su Arret erano davvero nel XXII secolo e i Discok erano il suo gruppo preferito.

Si fermò un momento davanti ad uno schermo ultrapiatto grande metà della parete. Era spento, ma immaginarlo in funzione non era difficile.

Finalmente qualcosa di familiare.

Si avvicinò alla parete per vedere che tipo di presa avesse quel televisore. Magari era la stessa del suo “cellulare”.

Mentre si rialzava in piedi delusa vide il riflesso di un uomo nello schermo spento della TV.

Sobbalzò e per alcuni secondi non riuscì a fare nulla, se non fissare il riflesso dello sconosciuto.

I capelli scuri e gli occhi chiari erano anonimi, così come il suo abbigliamento, ma le lunghe orecchie a punta parlavano chiaro.

Dunque li avevano già trovati? Era così che finiva la loro coraggiosa missione?

Avevano fallito prima ancora di cominciare?

Cosa ne era stato degli altri? Li avevano già catturati o stavano seguendo lei? Doveva proteggerli? Dire che non sapeva nulla? Che era stata cacciata? Le avrebbero mai creduto? Sarebbe servito a qualcosa?

Mentre nel suo cervello si affollavano domande che non riusciva neanche a concludere, un pensiero predominante si fece largo nella sua mente oscurando gli altri.

Lei non avrebbe ceduto.

Avrebbero dovuto faticare per prenderla.

Fece un respiro profondo e si voltò con decisione.

Niente.

Non vide niente.

Non c'era nessuno davanti a lei.

Si guardò intono spaesata. Era sicura di quello che aveva visto. L'uomo era lì, da qualche parte. Perché non si faceva vedere? Perché non la catturava?

Poi lo capì.

Perché in questo modo lei lo avrebbe portato dagli altri.

Si disse che questo non sarebbe successo.

Fingendo indifferenza continuò ad aggirarsi per il negozio.

Sostò a lungo davanti ad un gioco che insegnava passi di danza di canzoni famose e ne imparò a memoria alcuni dei brani degli x-y. Non erano male come gruppo, ma il nome non le andava proprio a genio.

Dopo aver superato abbastanza velocemente i primi sette livelli decise di smettere.

Si interessò a quelli che un'etichetta identificava come auricolari, ma di cui lei non riusciva a capire il funzionamento. Avevano una specie di minuscolo spinotto simile ad un chiodo che si attaccava chissà dove, poi, staccati, c'erano quelli che sembravano due piccoli microfoni. Erano lunghi poco meno di una falange di un dito e la piccola sferetta colorata da cui usciva la musica si poteva staccare dal cono nero che la sorreggeva.

Le posò ancora dubbiosa.

Essendo sovrappensiero andò involontariamente a sbattere contro un uomo che passava di lì.

Portava uno smoking grigio. Il capelli niente affatto corti, ma non troppo lunghi erano molto scuri, gli occhi castani.

«È tutto ok ragazza? Sembri smarrita.» le disse benevolo.

«Sì, tutto ok, stavo solo cercando l'uscita, credo di aver perso l'orientamento, mi può accompagnare per favore?»

«Certo, seguimi pure.» acconsentì l'uomo.

Psiche si disse che, anche se la stavano seguendo, probabilmente non l'avrebbero aggredita in presenza di un umano.

Per la prima volta notò che la gente di quel posto aveva le orecchie piccole. Non a punta, certo, ma almeno quello non sarebbe stato un problema.

Non lì.

Improvvisamente le venne nostalgia di casa. Le mancava quell'immenso laboratorio sotterraneo dove vivevano prima. Dall'esterno sembrava una baracca messa piuttosto male, ma non dava troppo nell'occhio in un quartiere che stava letteralmente cadendo a pezzi.

Chissà...

Magari a quell'ora il governo aveva scoperto che era lì che si nascondevano.

Che quella che dall'esterno poteva sembrare una casa fatiscente, nascondeva un segreto. Che lo sgabuzzino, anche se pieno di scope e di inutili cianfrusaglie, era in realtà un ascensore che portava ai piani inferiori. Che le dimensioni del laboratorio erano di gran lunga maggiori di quanto chiunque potesse immaginare. Che si estendevano per gran parte del sottosuolo circostante e un quarto della fiancata rocciosa a cui era addossata la piccola casetta.

Sospirò malinconica mentre seguiva l'uomo in giacca e cravatta.

«Come ti chiami?» le chiese distrattamente.

Psiche ci pensò per alcuni secondi. Non poteva certo dire la verità.

«Pamela.» buttò lì, ricordandosi che era il nome di una musicista di cui aveva ascoltato un pezzo nel gioco di danza poco prima.

«Pamela.» ripeté l'uomo tra sé e sé, quasi dubbioso. Assaggiò il suo nome e sembrò soppesarlo, assaggiarlo, studiarlo, in qualche modo. «È un nome molto particolare, forse un po' inusuale ormai, ma molto bello.»

«E lei? Qual'è il suo nome.»

«Il mio?» fece l'uomo quasi sorpreso «Oh, beh, io sono Marcus Evans.»

Forse si aspettava che alla ragazza avrebbe dovuto dire qualcosa, ma lei si limitò ad annuire.

Quando arrivarono all'uscita del negozio, psiche adocchiò un bagno e vi si diresse.

Davanti allo specchio si tolse il cappuccio e infilò gli occhiali finti nella borsa strapiena di jeans.

Si sciacquò il viso con l'acqua fredda, poi si guardò allo specchio.

Cosa dove fare?

Andarsene?

Rimanere lì finché non si fossero decisi a venire allo scoperto e catturarla?

Lo giudicò troppo rischioso.

Avrebbe potuto dover trascorrere anche l'intera giornata lì dentro. In tutto quel tempo gli umani si sarebbero sicuramente accorti che lei non era una di loro e sarebbe stata doppiamente nei guai.

Prese un paio di respiri profondi.

Andarmene o rimanere? Rimanere o andarmene?

Un rumore proveniente da dietro una della porte alle sue spalle la distrasse.

«C'è nessuno?» chiese avvicinandosi incerta e con passo felpato.

Un colpo di tosse soffocato.

Restò in ascolto.

Il rumore di qualcosa – o qualcuno – che veniva strattonato a poi sbattuto.

Un respiro agonizzante appena udibile.

Un suono innaturale. Come un risucchio, accompagnato da una nota acuta, ma bassa.

Una vibrazione nell'aria.

Spalancò la porta di getto.

Tutto ciò che trovò fu una donna dal colorito pallidissimo, grigiastro, lo sguardo vacuo negli occhi spalancati. Il viso congelato in una maschera di terrore.

Psiche sentì il suo cuore galoppare e salirle in gola. Il respiro accelerato.

Qualcosa sopra di lei. Dietro di lei.

Si voltò di scatto, ansimando.

Niente.

Per la seconda volta non trovò nulla davanti a sé.

Nulla a parte un cagnolino senza guinzaglio.

Un cucciolo di husky.

Psiche sentì il suo cuore perdere un battito mentre la tensione si allentava.

«E tu?» chiese sorridendo.

Il cagnolino abbaiò in risposta.

«Devi essere di questa signora.»

Si chinò e lasciò che venisse verso di lei. Lo prese in braccio e lo accarezzò teneramente.

«Come sei morbido.» commentò arruffandogli il pelo piuttosto lungo e scuro.

Si sedette per terra a gambe incrociate mentre il respiro le tonava normale.

«Mi hai fatto prendere un colpo, sai? Tu e la tua padrona.» disse «Ah, ma non sei poi tanto piccolo!» commentò poi guardando meglio il cagnolino.

Il riferimento alla padrona, però, le fece ricordare ciò che aveva appena visto.

Si rialzò e tornò a guardare nel bagno.

La donna era ancora lì per terra.

L'espressione di paura stampata in faccia.

Lo sguardo che sembrava indicare qualcosa, guardare qualcuno. Guardarlo dritto negli occhi. Chiedendogli silenziosamente di non farle del male.

Ma a chi? A chi stava rivolgendo quella supplica? Chi c'era lì? Sentiva la sua presenza, ma ciò che percepiva non era altro che una sensazione lontana ed istintiva. E lei avevo imparato a fidarsi ciecamente del suo istinto.

La bocca semiaperta della donna, pronta per dare voce ad grido che, invece, le era rimasto in gola. E non sarebbe più uscito.

Con un'ingegnere genetico per sorella e un medico per fratello sapeva distinguere fin troppo bene quando non c'era più nulla da fare. Aveva visto fin troppi compagni morire.

Un bambino le era pesino morto tra le braccia mentre tentava di salvarlo dalla guardie che avevano preso la sua famiglia. Perché su Arret ormai bastava poco per fare una brutta fine.

A volte non serviva neanche mettersi contro la legge. Bastava conoscere qualcuno che lo avesse fatto. Bastava il minimo collegamento, il minimo sospetto.

Non sopravviveva il più rispettoso e diligente. Bensì il più astuto, quello che aveva i mezzi per scappare, un posto per nascondere. Era così che si distruggeva la pacifica armonia del paese. Perché nel momento in cui non puoi più trovare protezione nella legge, l'unica strada è farti una tua legge.

Scacciò con forza quei pensieri e si concentrò sul cagnolino.

«Ma quanto pesi?» disse tirandolo su.

Si voltò verso lo specchio.

Rimase immobile a fissare l'animale che teneva in braccio.

Era cresciuto. Ne era certa.

Non era così grosso quando le era comparso davanti pochi minuti prima.

L'aveva preso con una mano sola e ora si trovava a doverlo sorreggere con entrambe le braccia.

Persino il viso era cresciuto, maturato.

Il suo abbaiare più basso e rauco glielo confermò.

«Ma che diavolo... ?»

Lo posò sul bordo del lavandino per vederlo meglio.

Adocchiò la sua zampa, e in particolare le sue unghie affilate da canide.

Se si concentrava poteva vederle allungarsi a vista d'occhio.

Fece un passo indietro spaventata.

Non aveva idea di come si comportassero gli animali di quel pianeta, ma quello era decisamente anomalo.

Il cane le ringhiò contro con ferocia.

«No, tu non sei affatto normale!»

Ormai delle dimensioni di un cane adulto, l'animale balzò nella sua direzione.

Psiche fece appena in tempo a schivarlo.

Prima che potesse essere nuovamente aggredita corse fuori dal bagno.

Una parte di lei le ricordò di tirarsi su il cappuccio.

Il “cane” la raggiunse emettendo bassi rantoli rabbiosi.

Qui c'è troppa gente!

Psiche adocchiò le scale vi si fiondò. Il cane le venne dietro.

Non aveva la minima idea di a che piano si trovasse, ma cominciò a salire velocemente.

Lasciò che i suoi istinti animali riaffiorassero con violenza, che si impadronissero di lei. In quel momento erano tutto ciò che la potava salvare.

Si voltò solo un secondo e se ne pentì.

Il cane stava continuando a crescere.

La sua parte animale registrò quel particolare con una certa, malsana, euforia.

Si chinò in avanti e prese a salire le scale a quattro zampe. La coda fingeva da timone e le permetteva di acquistare velocità.

L'udito improvvisamente più acuto le permetteva di conoscere la posizione del suo inseguitore senza girarsi. Dei suoi inseguitori.

Il suo io animale se ne rese conto immediatamente. Non era solo il cane a correre verso di lei. C'era qualcosa, qualcuno, nell'ombra, che bramava di poterla raggiungere. Ma era debole. E lento.

Cominciò a saltare da un corrimano all'altro per guadagnare terreno.

Un ringhio giocoso le si dipinse sulla labbra.

Adorava la sua parte animale, la faceva sentire incredibilmente libera.

Prima di quanto ritenesse possibile si ritrovò all'ultimo piano del grattacelo.

Era interamente vuoto, non c'erano neanche pareti divisorie e il soffitto era completamente vetrato.

Servendosi della forza appena acquisita, sfondò qualche vetro e uscì all'aperto.

L'aria lì era un po' più rarefatta, ma questo non le creava problemi.

L'animale arrivò pochi minuti dopo.

Il sorriso scomparve all'istante dalle sue labbra quando lo vide.

Ormai era cinquanta centimetri più alto di lei.

Rimase incastrato nelle scale, ma poi sfondò a sua volta il vetro e la raggiunse sul tetto.

La sua espressione tornò ad essere seria e preoccupata.

Sopravvivenza diceva il suo istinto animale.

Proteggere gli altri gridava la sua ragione.

Andarmene o restare? Restare o andarmene?

La lotta interiore la distrasse più di quanto avrebbe dovuto e la immobilizzò mentre l'animale balzava verso di lei.

Tutto ciò che riuscì a fare fu indietreggiare, ma i suoi piedi incontrarono il vuoto e il resto del corpo li seguì.

Mentre cadeva e acquistava velocità riuscì a girarsi.

Così sarebbe caduta di testa.

Sentiva il sangue pomparle nelle pelose orecchie triangolari mentre si avvicinava al suolo in picchiata.

Che razza di fine fu tutto ciò che riuscì a pensare mentre chiudeva gli occhi in attesa dell'impatto.

 

L'aria le scorreva ai lati e le accarezzava il corpo. Così soffice e leggera.

Bramava di essere afferrata.

E fu ciò che fece.

Allungò la mano.

Stese le gambe.

Appoggiò il piede nel vuoto.

E stavolta si fermò.

Aprì incerta gli occhi.

Era morta?

Sentiva il suo corpo lievitare leggero.

Sostenuta da chissà quale forza interna, e non esterna, era sospesa per aria a chissà quanti metri di altezza.

Si guardò intorno sorpresa.

Puntò la testa verso l'alto e stese le punte dei piedi.

Cominciò a salire.

A ripercorrere la traiettoria che l'aveva appena portata lì.

In pochi secondi fu di nuovo all'altezza del tetto.

Il cane si voltò sorpreso e ringhiò con forza, ma non si mosse.

Perché lì non poteva raggiungerla.

Pensieri e movimenti si susseguirono rapidi e decisi. Attraversarono la sua mente con una tale naturalezza che passarono quasi inosservati. Come una lieve brezza marina che accarezza per qualche secondo le chiome degli alberi, le spettina e le vivacizza, annuncia l'arrivo di una nuova stagione, di un cambiamento. Di qualcosa di nuovo. Qualcosa che prima o poi se ne andrà, leggero e tranquillo così com'è arrivato. Qualcosa che tonerà ad essere atteso, che lascerà il posto a nuovi cambiamenti, ma che, prima o poi, così come se n'è andato, leggero e tranquillo, tornerà ancora e ancora.

Stendere in avanti la mano.

Ed eccola la brezza. Quel delicato soffio di vento che sa di acqua e di sale.

Percepire il chimero in una nuova forma.

Si insinua leggera in ogni angolo e riempe ogni spazio.

Il parassita e la forza vitale. La forza vitale e il parassita.

Con passo tranquillo, ma sicuro, arriva alle chiome degli alberi. Ne assapora l'essenza. Un'essenza che sa di resina, le cicatrici di ferite che aspettano solo di rimarginarsi. Un'essenza che sa di linfa, la vita che continua a scorrere.

La forza vitale.

La brezza ormai è vento. Si fa strada tra le chiome. Le scompiglia, le smuove, le fa danzare ad un ritmo che conosce solo lei.

La attirò a sé. La strappò al parassita.

Una piccola perla di luce circondata da una specie di bolla di salone si depositò sulla suo mano.

Davanti a lei, dove poco prima c'era il chimero, lievitava una specie di medusa trasparente che sparì dopo pochi secondi.

Chimero. Ecco cos'era. Ripescò quel nome da chissà quale parte della sua mente che credeva inesistente. Dalla sua mente animale. Quella parte che la affascinava. Ma il fascino, si sa, non può non avere un lato oscuro. Se il suo io animale poteva salvarla da situazioni difficili e indicarle la via nei momenti critici, se lasciata senza controllo spalancava le porte dell'ombra e rischiava di trascinarla in qualcosa che non era ancora pronta a conoscere. Non ancora.

Psiche si posizionò rapidamente a testa in giù e volò in basso.

Sapeva a chi doveva riportare la forza vitale.

La lanciò nel bagno attraverso la finestra aperta.

Volò via.

Come se non fosse successo nulla.

Come se fosse nata per fare quello.

 

-DUE ORE DOPO

«E non ti sembra strano?» insistette Raylene.

«Cosa?»

«Che tu abbia potuto comunicare con loro!»

«Cosa c'è di strano nel parlare con la gente?»

«E in quale lingua lo avresti fatto?» si inserì a quel punto Silver.

Per la prima volta Psiche si soffermò su quel particolare. Non aveva racconto molto del suo giro in città, ma ai fratelli quel poco bastava e avanzava.

«In inglese.» disse infine.

Questo zittì i fratelli. Ma non per resa davanti all'evidenza dei fatti, bensì per la sorpresa.

L'inglese.

Era quella la lingua che, oltre all'arrettiano, era stata insegnata loro fin dalla nascita. Credevano che fossero stati i loro genitori a creare quella lingua. La consideravano un loro linguaggio segreto.

E ora scoprivano che era una lingua parlata sulla Terra. Sulla Terra!

Com'era possibile?

«Ne sei certa?» riuscì a dire Raylene alla fine.

«Sì.» rispose la sorella con un tono di voce più basso.

«È incredibile!» commentò Silver. «Voglio dire, questo complica tantissimo le cose, ma è incredibile!»

Mentre i fratelli maggiori confabulavano, Psiche di allontanò e si diresse nuovamente all'astronave.

Entrò nella sua camera.

La condivideva con Silver e Raylene, ma visto che loro erano fuori era sola.

Si sedette sul letto.

Cos'era successo?

Non sapeva spiegarlo.

Quello che sapeva era che le era piaciuto.

Che...

...era nata per quello.




Allora che ne pensate? Aspetto il vostro parere.
Spero sia stata chiara la parte in cui paragono le sensazioni di Psiche al vento.
Per qualsiasi dubbio chiedete.
Un abbraccio
Artemide12

 

  
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