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Autore: orocea    13/10/2013    2 recensioni
Il dottor John Watson, le tre donne della sua vita, una luce che non c'è più, una panchina nell'umida notte londinese, rose bianche e un cimitero dove finalmente può prendere sonno.
«Non ti dà fastidio se sto un po’ qui, vero?»
post!Reichenbach
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Harriet Watson, John Watson , Sarah Sawyer, Sig.ra Hudson
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Ho deciso di voler riprovare a scrivere. Questa oneshot risale a un anno fa: l’avevo pubblicata qui, ma poi ho deciso di cancellare l’account. Comunque sia, da allora Sherlock non ha mai smesso di ossessionarmi… Quindi, nell’attesa che io partorisca qualche altro obbrobrio, vi lascio questa. Non so se sia una cosa bella, ma aspettatevi altro da me. Presto? Spero di no per voi, ah ah!
Scherzi a parte, ringrazio tantissimo tutti coloro che leggeranno.

 
 
 
La signora Hudson rimase ferma sulla soglia, le dita sottili strette al pomello del portone in mogano del 221B di Baker Street.
John Watson, di fronte a lei, teneva la testa bassa, gli occhi concentrati sulle scale dell’ingresso.
«Ero passato a dirle che anche stasera rimango a dormire da un amico».
La signora Hudson inclinò un poco la testa di lato, mentre gli occhi le andavano velandosi di compassione – una compassione che per il dottor Watson era diventata una costante troppo difficile da accettare - per quell’ennesima, disperata bugia. «John», disse soltanto.
Lui alzò finalmente lo sguardo. Incontrando il suo, gli sembrò quasi che la donna stesse per piangere. Sollevò le mani e le agitò piano, con i palmi rivolti nella sua direzione, come per tranquillizzarla, come per dissipare il dispiacere che provavano entrambi, la cortina di tristezza che li stava avvolgendo. «Suvvia, mi ha offerto di rimanere da lui anche stasera, si sarebbe offeso se avessi detto di no».
La signora Hudson non rispose. Teneva la mano immobile sul pomello e aveva piegato la gamba sinistra come se avesse voluto indietreggiare per lasciarlo entrare, per lasciarlo tornare a casa. John aveva bisogno di una casa, di qualcuno che gli preparasse un tè nei momenti difficili, che gli mettesse una mano sulla spalla, che lo lasciasse piangere tranquillo finché non si fosse calmata la tempesta che aveva dentro; e la tempesta non poteva durare per sempre, non doveva. John sarebbe affondato ancora prima di avvistare la terraferma, se avesse continuato così.
Lui fece un passo indietro. «Buonasera, signora Hudson. Ci vediamo presto».
«Ciao, John». La donna sollevò una mano in segno di saluto mentre il dottor Watson si allontanava, aumentando gradualmente il passo. John emetteva nuvolette di vapore dalla bocca come una locomotiva che procedeva spedita e grigia sulle proprie rotaie. Chiuse la porta soltanto quando lo perse di vista.
 
Erano passati esattamente un mese, due settimane e tre giorni dalla morte di Sherlock. Da allora, John non aveva più messo piede nell’appartamento di Baker Street – soltanto guardare il numero civico  gli offuscava la vista, rendendo quanto lo circondava un ammasso di materia fluttuante e confusa, e le ginocchia smettevano di sostenerlo.
E non aveva nemmeno mai più sollevato il capo verso l’alto, specialmente in direzione degli edifici alti.
Le prime tre notti John non aveva dormito. Si era chiuso nel suo vecchio appartamento e si era seduto sul bordo del letto, con la schiena dritta e le gambe unite, poggiando i pugni sulle cosce. Non aveva mangiato né pianto, e aveva bevuto pochissimo. Era solo rimasto immobile. Tre notti e due giorni immobile nell’attesa di un messaggio, di uno squillo di campanello, di un miracolo.
Erano stati giorni muti, tormentati da fantasmi con le mani bianche e le dita affusolate e fredde che gli sfioravano i pugni chiusi. Fantasmi dai capelli ricci e scuri, fantasmi dagli occhi gelidi e dal viso attraversato da rigagnoli scarlatti che si diramavano lungo il loro naso, la loro fronte, i loro zigomi appuntiti, le loro labbra carnose e pallide. Gli spettri lo sfioravano, avvolgendolo in abbracci glaciali, sussurrandogli parole che aveva già sentito e che inevitabilmente gli rimasero addosso, più indelebili e dolorose di prima, come fossero graffi procurati da un cespuglio di rovi che gli aveva gremito inaspettatamente una gamba. Quelle parole avevano un timbro basso e insinuante, che rimbombava nelle pareti della sua testa e il cui eco non voleva esaurirsi. La frase più frequente era: «Stai bene, John?».
No.
Solo la mattina del quarto giorno John aveva sentito brontolare lo stomaco. Nonostante la fame gli procurasse quasi un dolore fisico – che comunque percepiva sbiadito, ovattato, trascurabile - , riuscì soltanto a ingoiare una mela tagliata a quattro, poi non seppe più alzarsi dal letto e allungare la mano verso il frigorifero, verso il cibo, verso qualunque cosa fosse commestibile e che in qualche modo favorisse la sopravvivenza. La cosa che più aveva odiato in quegli istanti era sopravvivere, raccogliere l’aria nei polmoni e poi buttarla tutta fuori e poi riprendersela di nuovo, sporca, odiosa e intrisa di lacrime mai versate, senza un perché che lo spingesse a continuare. Cosa sarebbe accaduto dopo il respiro successivo? Qualcosa gli avrebbe dato sollievo? Il tempo si sarebbe fermato, sarebbe tornato indietro? Il mondo avrebbe smesso di girare, l’aria di contaminarlo con il fumo e con la speranza vana di un’esistenza che avrebbe potuto ricominciare, resettando da un evento devastante come quello di una morte?
Quella sera stessa, John era sceso di casa senza guardare che ore fossero con una coperta scura sotto il braccio. Si era seduto su una panchina dopo aver camminato per un po’ – non sapeva quanto, non sapeva per quanto tempo -, aspettando che calasse la sera, e poi si era coricato sul legno freddo, avvolgendosi nella coperta e alitando piano aria dalla bocca sulle mani, per riscaldarle. Dopo essersi infilato i guanti, era rimasto steso con gli occhi chiusi, fingendo di dormire, mentre il flusso della coscienza che non chiedeva altro che tutto quello che stava vivendo venisse fermato immediatamente, con qualsiasi mezzo, di nuovo prendeva totale possesso di lui.
Furono due le notti trascorse in quel modo, come un relitto abbandonato su una spiaggia di sabbia bianca. La sesta notte John era ritornato di sopra solo perché si era imposto di ripresentarsi in ambulatorio il giorno successivo. Anche se non aveva ancora il coraggio di guardare il numero civico del suo vero appartamento, doveva comunque pagarne l’affitto, e non intendeva dormire sul lavoro – come gli sarebbe capitato se non avesse riposato a sufficienza.
Il giorno seguente fu uno dei più duri della vita intera del dottor Watson. Nell’ambulatorio numerosi occhi, compresi quelli di Sarah, lo sondavano senza pudore e, contemporaneamente, timorosi di far notare la loro attenzione convogliata su di lui. John odiava profondamente tutto quello. La compassione era una cosa normale, ma quella che chiunque lo conoscesse provava nei suoi confronti era una cosa insopportabile. Non voleva che quegli sguardi – ‘mi dispiace’, ‘sii forte’, ‘abbi coraggio’, sembravano mormorare - gli ricordassero che pochi giorni prima la sua esistenza aveva subito un’incrinatura fatale, come una Rift Valley su una tavola di legno sottile cinque centimetri. Tutto ciò che aveva potuto fare era visitare i suoi pazienti, tranquillizzarli con un sorriso sottile e falso e poi, una volta rimasto vuoto il suo studio, cancellare la maschera di serenità ipocrita coprendosi la faccia con la mano e cercando di fare qualche respiro profondo.
Rimaneva fermo in quella posizione quanto poteva, mentre tentava di tenersi stretto, di non lasciarsi sfuggire una remota ma percettibile parte di sé che si stava sgretolando lentamente. Sarah aveva bussato un paio di volte, la prima per chiedergli se gli andava un caffè, la seconda per informarsi su come stessero andando le cose. In entrambi i casi, John aveva fatto finta di non sentire, e tutte e due le volte Sarah aveva comunque aperto la porta. Nonostante provasse a nasconderla, era evidente una sottile implicazione nei suoi occhi che a lui procurò un dolore lancinante: ‘mi dispiace tanto’.
Si erano lasciati da un po’ di tempo, più per volere della donna che suo, e per un motivo che ancora gli rimaneva abbastanza oscuro. Un giorno lei gli aveva detto di prendersi una pausa, nient’altro. Non aveva smesso di volergli bene, non si era innamorata di un altro, a quanto John aveva potuto capire. Si era semplicemente fatta da parte – non si sapeva per fare spazio a chi - e non aveva voluto sentire ragioni. Però, il giorno in cui si era accorta che il mondo gli  stava lentamente crollando addosso, aveva deciso che non avrebbe più potuto lasciarlo da solo.
Quella sera stessa gli aveva proposto di andare a dormire da lei. John aveva rifiutato fermamente. L’unica compagnia che gli avrebbe davvero giovato sarebbe stata quella di uno sconosciuto che non avrebbe potuto fare domande scomode, uno con cui parlare delle previsioni del tempo e del tè. Non gli servivano un paio di occhi imbevuti di compassione e una bocca che imbrattasse l’aria di ‘ti capisco’ e ‘mi dispiace’. Nessuno poteva capirlo, a nessuno quello che era successo poteva fare male come stava facendo male a lui.
Le prime tre settimane erano passate così, precarie, terribili, assurdamente stancanti. Talmente stancanti che la notte John non dormiva. Le lenzuola erano troppo bianche, l’appartamento troppo vuoto, la luce del comodino troppo intensa, insopportabile, cattiva nel ricordargli che lei brillava e un’altra, quella negli occhi di Sherlock, si era spenta irrimediabilmente. Una volta aveva staccato la lampadina dell’abat-jour scottandosi le dita e l’aveva gettata per terra, ansimante e sconvolto; poi, dopo qualche minuto, si era reso conto del danno ed era corso a prendere una scopa per raccogliere i pezzi di vetro. Aveva pianto mentre lo faceva – perché diamine quelle schegge gli ricordavano delle iridi di morto, perché? - come quando era andato alla tomba di Sherlock per la prima volta. Non aveva urlato, era stato un pianto silenzioso e breve, un pianto da soldato.
Ogni tanto, John scendeva anche a coricarsi sulla sua solita panchina, coprendosi la testa con un cappuccio in modo da evitare di farsi riconoscere. Che avrebbero detto le persone se avessero visto il dottor Watson, quello dell’ambulatorio, dormire per strada alla stregua di un senzatetto? Eppure lui ne aveva bisogno. Sentiva l’aria fredda che gli schiaffeggiava le guance, la schiena che gli doleva dopo una notte trascorsa coricato sul legno duro, vedeva far buio o alzarsi il sole e capiva che, in qualche modo, doveva rendersi conto di essere vivo da solo. Fino ad allora era stato Sherlock a renderglielo chiaro, probabilmente anche senza volerlo: non si era mai reso conto del potere che aveva avuto su di lui e che continuava ad avere anche da morto – il potere di rendere la sua stampella di alluminio inutilizzabile, di fargli rompere una lampadina colto da un istinto incontrollabile, di plasmare la disperazione di un dottore che, pur avendo a disposizione due appartamenti, quasi preferiva vivere in strada.
Alla fine della quarta settimana, il suo cellulare aveva squillato in maniera insolita. Per fortuna per le condoglianze tutti avevano mirato al telefono della signora Hudson, ma non si sapeva mai. John aveva preso il cellulare con una smorfia, storcendo la bocca sottile, e aveva guardato il display.
Ci aveva messo un po’ a pensare cosa fare. Il nome, scritto chiaramente in stampatello, era inequivocabile perché unico nella sua rubrica. Erano passati quattro squilli, cinque, sei, sette, avrebbe dovuto decidere in fretta. Alla fine aveva risposto.
«Harry?».
«John».
C’era stato un attimo di silenzio, durante il quale aveva cercato di sentire il respiro della sorella. Regolare. Non aveva bevuto o, perlomeno, non era ubriaca.
Aveva fatto un sospiro, poi aveva parlato. «Cosa vuoi?».
La lista delle cose che ci si poteva aspettare che Harriet Watson chiedesse era estremamente breve e banale. In ordine di frequenza, più precisamente, si trattava di denaro oppure di un posto per dormire – quando si era lasciata con Clara le sue telefonate erano diventate terribilmente costanti. Una volta era pure capitato che, troppo ubriaca per camminare, fosse stata trovata stesa su una panchina da un amico di famiglia che l’aveva riconosciuta e l’aveva riportata a casa. Una parte di John viveva nel costante timore che la cosa si potesse ripetere, e che Harry venisse raccolta da una persona con intenzioni molto peggiori.
Dal tono di voce che aveva avuto quando aveva pronunciato il nome del fratello, però, stranamente sembrava che mirasse a qualcosa di diverso dal solito.
«Vieni da me», borbottò. «Muoviti!».
Gli attaccò il telefono in faccia.
 
Quando Harriet aveva aperto la porta, John non era entrato subito. Piuttosto era rimasto immobile a fissarla, come se si aspettasse che da un momento all’altro avrebbe potuto tirare fuori una pistola dalla tasca e puntargliela contro, oppure come se avesse temuto di notare improvvisamente occhi rossi di pianto o puzza di vino. La ragazza, però, sembrava in buone condizioni.
Teneva ferma la mano sulla maniglia della porta. Aveva qualche anno in meno rispetto a lui, un caschetto di capelli ribelli e biondissimi, e occhi nocciola che lo fissavano con un’espressione di rimprovero. Forse era per quello sguardo che non erano mai andati d’accordo, per il suo atteggiamento di superiorità che -  John lo sapeva - nascondeva solo una grande debolezza. Aveva inarcato le sopracciglia, continuando a squadrarla e aspettando che si degnasse lei per prima di salutarlo - cosa che non era avvenuta. Aveva piegato la bocca in una smorfia, poi aveva staccato la lingua dal palato con un leggero schiocco e aveva parlato.
«Ciao, Harry. Perché mi hai chiamato?».
«Perché tu non lo fai da circa un mese».
Era rimasto in silenzio, con la testa bassa, non sapendo come ribattere.  Poi ci aveva pensato e aveva detto: «Allora perché non l’hai fatto tu?».
«Perché volevo che fossi tu a dirmelo».
Inizialmente John non aveva capito cosa sua sorella intendesse. Aveva alzato la testa e l’aveva vista piangere. Harry piangeva in maniera molto diversa da lui, frignando come una bambina e con dei grossi lacrimoni caldi che le solcavano le guance arrossate: piangeva, e la cosa lo allarmava tutte le volte, nel bel mezzo di una litigata come mentre chiacchieravano tranquilli.
«Harry!». John aveva attraversato l’entrata e le era andato incontro, mettendole le mani sulle spalle. «Dimmi che diamine è successo! Qualcuno ti ha…?».
«Sherlock», aveva singhiozzato lei. «Il tuo amico, Sherlock, è…»
Normalmente si sarebbe irritato a sentire una cosa che non avrebbe voluto, specialmente se a pronunciarla fosse stata la sorella, con quello sguardo di superiorità eccessivamente invadente e irritante e quella voce da saputella che gli facevano sistematicamente saltare i nervi – ma quella situazione non era normale, era straziante. Il dolore non era la sua normalità, da un po’ di tempo a quella parte, non più.
Era come se fosse ricominciata la guerra, la guerra vera.
Era scoppiato a piangere anche lui, per la terza volta. Si era augurato che la sua faccia fosse ancora abbastanza dignitosa quando era tornato indietro per chiudere la porta – non voleva attirare l’attenzione dei passanti - mentre Harriet si stropicciava gli occhi con i palmi delle mani e ancora non riusciva a fermarsi.
John era tornato da lei e l’aveva abbracciata.
«In realtà sarei io quello che dovrebbe piangere così furiosamente», aveva commentato tra le lacrime.
«Tu sei un soldato, tu non sai piangere furiosamente». Si era staccata da lui che ancora sussultava, aveva abbozzato un sorriso tra le lacrime e, voltatasi, si era allontanata lungo il corridoio. «Vieni, vuoi del tè?».
John era rimasto a dormire da lei tre giorni. Avevano litigato poco, su cose banali, come succedeva sempre, ma andava bene così. Rivederla l’aveva fatto sentire meglio.
Quello che rimaneva delle altre due settimane l’aveva passato altalenando tra la strada e il vecchio appartamento. Una volta era ritornato da Harriet e l’aveva trovata ubriaca sul serio. Fradicia. L’aveva messa a letto e poi se ne era ritornato da dove era venuto, deluso. Il pensiero l’aveva perseguitato, irritandolo enormemente, per un paio di giorni.
All’ambulatorio, Sarah non gli faceva più domande né gli portava più il caffè o bussava alla porta del suo studio tra un paziente e l’altro. Quando si incrociavano, semplicemente, gli sorrideva. John amava quella discrezione, quell’esserci sempre senza rinfacciarlo mai, forse amava lei. Un giorno le aveva lasciato un fiore sulla scrivania colto da un improvviso desiderio di ringraziarla, una piccola, banale margherita. E allora si era ricordato la banalità va bene, la banalità è perfetta, e capiva quanto purtroppo questo non fosse più vero. La cosa che desiderava più ardentemente di tutte, si era reso conto, era che Sherlock tornasse – e questo non era banale, no, per niente.
 
John si infilò nel primo taxi che riuscì a fermare. Mentre il conducente lo portava al cimitero, da Sherlock, lui si perdeva in mezzo alle luci della città, mentre il sole era scivolato sotto la cortina di nubi grigie e tramontava, bagnando di rosso gli edifici. Luci, rosso sangue, edifici: la cosa lo turbava, e non poco, ma tenne fermo lo sguardo fuori dal finestrino, verso il mondo che lo lasciava indietro – o era lui a farlo? – sfrecciando via sotto i suoi occhi. Doveva resistere perché, quella notte, ci sarebbe stato il faccia a faccia più arduo di tutta la sua vita. Doveva resistere perché in fondo non ce la faceva a mentire ancora alla signora Hudson: “Stasera rimango a dormire da un amico”. Stavolta era vero. Stavolta sarebbe stato di parola.
Scese poco lontano dal cimitero con l’intenzione di cercare un negozio di fiori. Lo trovò presto, e non era nemmeno troppo distante. Portava la scritta Arthur’s Flowers incisa sulla porta di legno scuro. Quando la aprì, un campanellino appeso allo stipite emise un breve trillo.
Era una bottega deliziosa, notò John, con una moltitudine di piante e fiori dei colori e delle dimensioni più svariate che fiancheggiavano un lungo tappeto verde, quasi a voler rivelare un sentiero nel folto del bosco. Dall’altro capo del negozio un uomo sulla sessantina – aveva i capelli incredibilmente bianchi e gli occhi grigi – stava appoggiato a un bancone. A giudicare dal legno, scuro e massiccio, sembrava quercia. Quando sentì il campanello sollevò la testa, rimettendosi composto, e gli rivolse un sorriso educato.
«Buonasera».
«Salve».
Il negoziante finse di distogliere l’attenzione dal nuovo arrivato – sapeva che i clienti si innervosiscono quando si sentono osservati – curvandosi a rovistare in mezzo a degli scatoloni che aveva sollevato sul piano di legno, e così attese.
John si guardò intorno. Non sapeva che fiori piacessero a Sherlock. Forse non gli erano mai piaciuti i fiori. Aprì e chiuse la mano sinistra un paio di volte, come a voler sfogare il leggero nervosismo, e poi si girò di lato. Aveva adocchiato delle rose bianche che stavano in un vaso di vetro azzurro, su un piano rialzato. In mezzo a quella selva di piante, erano belle, eleganti e un tantino singolari, essendo gli unici fiori bianchi: c’era l’azzurro, il rosso, il blu, il giallo e tantissimo, tantissimo verde. Il bianco era poco, forse solo quello, ma non aveva guardato con attenzione in tutto il negozio, non poteva dirlo. Eppure c’era il bianco, lo vedeva; avrebbe scelto il bianco.
Si girò verso l’uomo dietro il bancone, che alzò la testa. «Può darmi un paio di quelle?».
Non capì mai perché scelse le rose bianche. Si rese conto in seguito che a Sherlock piaceva il viola, aveva una camicia di quel colore che metteva sempre. Gli piaceva anche il blu, quello della sua sciarpa preferita. Allora perché il bianco? Forse perché le rose mandavano luce da quel piano rialzato, forse perché costavano un po’ di più degli altri fiori e John ci teneva - voleva che Sherlock avesse accanto a sé qualcosa di valore anche se col tempo se ne sarebbe andato, come era successo a lui – forse perché erano così belle, carnose e luminose che, se Sherlock fosse stato ancora vivo,  avrebbe sorriso guardandole, e allora sarebbe stato un complimento, sarebbe stato come se avesse detto «Hai fatto davvero una bella scelta».
John camminava a passo spedito, agitando il braccio destro avanti e indietro come faceva sempre – quello sinistro reggeva i fiori, non poteva muoverlo tanto. Erano le sei e mezzo quando, dopo aver percorso le varie stradine del cimitero, dopo essersi riempito i polmoni di quell’aria umida, malinconica e rassegnata che hanno tutti i cimiteri, arrivò da lui.
Si fermò a qualche metro dalla tomba. La lapide, di un nero lucidissimo – sicuramente era passata la signora Hudson qualche giorno prima, c’erano anche dei fiori freschi in un vasetto di vetro – rifletteva la sua figura timorosamente immobile a quella distanza e coperta in parte dall’iscrizione Sherlock Holmes’. John si guardò la mano che stringeva le rose, poi alzò di nuovo la testa, fissando gli occhi sul rettangolo di terriccio scuro che si stendeva davanti alla pietra tombale come un’ombra. Indugiò un altro momento, poi procedette fino ad arrivarvi sul bordo e rimase fermo, di nuovo guardando per terra, sperando che da qualche parte là sotto - o là sopra, pensò alzando gli occhi al cielo - ovunque lui fosse, Sherlock stesse ricambiando il suo sguardo.
«Ti ho… portato dei fiori», disse, flettendo il braccio, come a volerglieli mostrare. Si chinò per appoggiarli a terra, stesi al centro del rettangolo scuro, poi si rialzò.
«Lo so, magari non ti piacciono. Non so esattamente quali fiori ti piacciano, effettivamente, quindi, uhm… Spero che questi vadano bene».
Distolse un po’ lo sguardo perché gli stava venendo da piangere, di nuovo. John Watson si era scoperto debole, più di quanto lui stesso pensasse. Tirò su col naso e trattenne le lacrime, mentre osservava le altre tombe, i cespugli e i sentieri. Poi tornò a guardare quella di Sherlock, spostando stavolta gli occhi verso la lapide, e camminò in avanti fino a toccarla. Mosse la mano prima con gesti timorosi, poi con uno scatto l’afferrò saldamente, come per evitare di affondare nel buio, nelle lacrime, nella sua assenza. Strofinò il pollice sulla pietra lucida, poi si voltò di lato e si sedette per terra, appoggiandovi la spalla destra, poi la testa.
«Non ti dà fastidio se sto un po’ qui, vero?».
Chiuse gli occhi e le lacrime gli bagnarono le palpebre serrate.

Il dottor Watson dormì un sonno breve e scomodo, ma almeno dormì. Fu svegliato un’ora e mezzo più tardi dal custode del cimitero, che lo mandò a calci fuori, dritto dritto in un taxi.
Fece ritorno al 221B di Baker Street, con gioia incredula della signora Hudson. Una parte di lui si accontentava di visitare il cimitero quasi tutti i giorni – un’altra, quella che tentava inutilmente di reprimere, aspettava il miracolo di un ritorno, di un paio d’occhi che avrebbero brillato della stessa luce di prima.
In fondo aveva rotto una lampadina per quello – l’aveva capito sin troppo bene.
La verità era che quella luce sarebbe stata sempre l’unica che avrebbe sopportato, voluto, aspettato.
  
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