Declino parole perse,
circoncisioni di allodole
che migrano
sulle lingue nucleari
di un alitare inerpicato,
un capezzolo smussato
tra le sue pillole di cera
che distillano funerali
con i tergicristalli
di queste aeromobili suicida,
sputate
come orgasmo psicotico
di una paranoia senza respiro.
Un fanale inarcato
si flette
alla diossina arzigogolata,
inoculata
in spirali di salive dislocate;
il linguaggio apoplettico
di un ghirigoro scarno
è tra i cunicoli fluttuanti
di un gorgheggiare
nudo.
Avviluppo spazi
mai avvezzi
a contenere un vuoto
senza spazio:
il palpito di un vagito
sotto le ciglia
ad inerpicare falangi
su di un letto capovolto,
senza volto;
le narici come pleonasmi
tra i marasmi
di una decade spastica.
Uno specchio tra i manumbri
a proiettare ogni mia curva
che striscia,
il mio nudo non riflesso
nelle pozzanghere
ad ibernare il tempo
mai perduto.
Piove ancora una volta,
ed io
mi sono rotta il cazzo
di scivolare
sulle mie partite bucate
che ovunque
fanno acqua.