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Autore: Nahash    15/10/2013    4 recensioni
Dal testo:
La sua tattica risposta, semplicemente, fu data per allontanare da sé qualsivoglia intromissione, ma nonostante ciò, Ukoku si avvicinò ugualmente al luogo incrinato e, aprendo l'uscio, non vide nulla: buio e nient’altro.
Genere: Angst, Horror, Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Un po' tutti
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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Note: Questa raccolta sarà una traspostizione di alcune storie di Edgar Allan Poe, dove verrano rielaborate per adattarle ai personaggi e ai contesti, lievemente ritrattate. Verranno fatte aggiunte o sottrazioni, anche se i dialoghi, almeno quelli presenti in questa storia, poi di storia, in storia, vi dirò, sono stati lasciati invariati i dialoghi della traduzione fatta da:Corinzia Monforte.

Le parole presenti nel testo come Nepente o Gilead sono sostante sedative che per lo meno si usavano all'epoca in cui il racconto è stato scritto.
A parte qualche parole riutilizzata come "intatto" riprese dal testo, nient'altro è stato copiato dalla traduzione, ma è tutta farina del mio sacco(?) XD Eccetto ovviamente i dialoghi, che, come ho detto prima, sono stati lasciati come l'originale per non far perdere al racconto la giusta dose di antichità e oscurità, sebbene in qualche modo l'abbia voluta riadattare a un contesto più contemporaneo. Lo stile usato è si moderno, ma comunque "aulico" visto e considerando di cosa si sta parlando. E' un AU in quanto il contesto è diverso da Saiyuki e alcune cose variano per contestualizzare il tutto al meglio.
Spero che vi possa piacere l'idea e la storia in se, anche se so che Allan Poe è uno scrittore controverso e poco compreso o apprezzato.

Ps: Ringrazio particolarmente Deep Chaos che ha sottratto a se un po' del suo prezioso tempo per betarmi questa storia.
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Se ne stava lì, nel suo studio, quando ormai la notte rendeva la luna ben visibile nel cielo: quella sera, Ukoku era molto triste e memore della morte del suo amato Komyo, si stava dilettando nella lettura dei tomi più vari per scongiurare la tortura interiore.
Non era solo però, perché a fargli compagnia c'era la sua ombra riflessa nel pavimento.
Immerso nei suoi pensieri, improvvisamente venne scosso da qualcosa: un rumore – sembrava che qualcuno stesse bussando alla porta.
Quei suoni, oltre a destarlo, lo fecero allarmare al punto che non poté trattenersi dal chiedere a se stesso chi mai potesse essere a quell'ora tarda: chi bussava alla sua camera?
«Sarà qualche visitatore», mormorò tra sé e sé, cercando di non allarmarsi in alcun modo – per quanto potesse spaventarsi.
C'era da dire, però, che quella situazione appariva molto strana ai suoi occhi: dopo tutto, come al solito, la notte era il suo selvaggio e incontaminato territorio, pertanto nessuno osava addentrarsi eccetto una sola persona.
«Signore o signora, davvero imploro il vostro perdono,» disse istintivamente «ma il fatto è che mi stavo appisolando e così voi, dolcemente, siete venuti a battere», continuò, desideroso di tornare presto al suo trastullo. «Così piano siete venuti a bussare e bussare alla porta di camera mia, che io a stento vi ho sentito.»
La sua tattica risposta, semplicemente, fu data per allontanare da sé qualsivoglia intromissione, ma nonostante ciò, Ukoku si avvicinò ugualmente al luogo incrinato e, aprendo l'uscio, non vide nulla: buio e nient’altro.
Sorrise beffardo per quello strano scherzo del destino che, chissà per quale sciocco motivo, sembrava volergli far tornare alla mente la scomparsa di Komyo; dopodiché cercò di sbirciare in fondo alle tenebre, ma non scorse nulla, tant’è vero che rimase a guardare a lungo e forse riuscì anche a provare un po' di timore, a dubitare, a sognare sogni che nessun mortale si sarebbe mai augurato di fare.
Il silenzio era intatto, concreto, come lo era sempre quando nell'ombra si agitavano le membra di Ukoku; fu così che, per nostalgia o per prova, sussurrò nell'oscurità una sola parola: «Komyo.»
Mormorò il nome dell’amato e in tutta risposta il buio gli rispose con l'eco: «Komyo.»
Ukoku chiuse la porta dietro di sé, poggiandosi contro di essa per qualche istante, sospirando appena; poi, non appena riuscì a mettersi l'anima in pace, malgrado il suo cuore fosse ancora in pieno tumulto, sentì di nuovo bussare.
«Sicuramente si tratta di qualcosa che batte contro la finestra», disse tra sé e sé, avvicinandosi al vetro della stessa per accettarsi della veridicità di quel nuovo mistero, per esplorarlo, sperando che il suo cuore potesse calmarsi da quel turbinante delirio; nonostante tutto, però, questo scalpitava senza sosta e non accennava a diminuire la galoppata furiosa. «È il vento e nulla più», convenne dolorosamente, prima di chiudere anche la finestra e sorridere con scherno, amareggiato, mentre vi si poggiava contro.
Era come se stesse nutrendo una qualche speranza nel rivedere il volto del suo amato anche solo per una volta, nonostante complice della realtà avesse ben inteso che si trattasse solo di una vana aspettativa.
Spalancò di nuovo la finestra, voltandosi crucciato e ansioso, come animato da una frenesia interiore; allorché, con suo grande stupore, un corvo maestoso entrò nella stanza, sbattendo le ali ampie, e senza presentazioni, senza essere invitato, si appollaiò sul busto della statua di Buddha che Ukoku teneva in camera come cimelio.
Allora, notando la sua voglia restia di sorridere, quel corvo curvò appena la testa e con il suo portamento tanto severo quanto decoroso, lo ascoltò quando Ukoku, prontamente, restrinse di poco lo sguardo, deciso a muovere i suoi passi verso l'ignoto.
Ormai raggiunto il caos, nella sua follia, si mise a parlare con il pennuto:
«Anche se la tua cresta è tagliata e rasa, tu…» si fermò appena, ponderando per poi proseguire il suo discorso con il corvino volatile «… di sicuro non sei un vile, spettrale, sinistro e antico uccello che vaghi dalla riva della Notte», disse, umettandosi poi le labbra, prima di arrivare al dunque in un tonante ordine: «Dimmi quale è il tuo signorile nome sulla riva della notte plutoniana!»
«Mai più.»
Il corvo rispose mai più.
A quel punto Ukoku si trovò nel dubbio, non sapendo se fosse davvero impazzito o se quegli animali potessero essere veramente affini alla sua figura: Komyo aveva ragione, si disse, Ukoku era davvero un corvo.
Mai più, riecheggiava nella sua testa come se fosse il sibilo della coscienza, mai più.
Il nero uccello, nefasto e indesiderato, pareva volergli ricordare l’atto più vile e insensato che mai avesse osato commettere con le proprie mani: aveva ucciso il suo amore – e nonostante tutto, quasi con villania, continuava a stare appollaiato su quel busto.
Non disse più una parola, non si mosse neppure, finché Ukoku non decise di parlare nuovamente:
«Molti tuoi amici sono volati fin qui, ma al mattino anche tu mi lascerai, come le mie speranze che sono volate via, ormai», disse, riferendosi all'eco che l’aveva cullato nella speranza di poter rivedere Komyo nel travolgente, o forse no, rammarico del suo gesto.
«Mai più.»
Il corvo continuava a mormorare quel suo nome tanto strano e lui sussultò dinnanzi a quella risposta che, come un disco rotto, gracchiava ancora una volta, ripetuta verso l’infinito.
«Senza dubbio», fece Ukoku al corvo, guardandolo con aria mesta – chiaro segno di chi gli aveva arrecato offesa nello spingersi così impudentemente all'interno della sua anima; poi però, per rasserenarsi, cominciò a dire tra sé e sé: «Ciò che dice sarà la sua unica frase ripetuta, attinta da un qualche padrone infelice che un’ impietosa disgrazia ha seguito veloce e inseguito più veloce, finché le sue canzoni avevano un solo ritornello, finché i funerei canti della sua speranza, quel malinconico ritornello, avevano di un mai, mai più
Il corvo, mentre cercava di far sorridere ironicamente a Ukoku, lo vide muoversi velocemente verso di lui, avvicinando con se una poltrona per sedere sulla stessa e cominciare a fissarlo intensamente.
Pensò, rifletté a lungo sul motivo che aveva spinto quel corvo a starsene lì: come mai continuava a insistere con quelle parole terribilmente seccanti? Si chiese, cominciando a perdersi nelle sue congetture, mentre non osava dir nulla al pennuto.
Lui lo guardava e i suoi occhi fissi e ardenti gli bucavano il centro del petto.
Anche la lampada della stanza era sua nemica, dal momento che si puntava sulla fodera di velluto della poltrona, poltrona sulla quale si era poggiato anche Komyo.
Ah! Mai più!
Ukoku riuscì ad arrivare alla conclusione, l'aria gli sembrò farsi più pesante, mista ai pensieri, al rimorso e alla pesantezza della colpa che si portava dietro.
«Maledetto!» Gemette. «So perché sei qui: il tuo Dio ti ha condotto da me per lenire i pensieri costanti di Lui. Vuoi sollevarmi, ma tracanno questo tipo di nepente e dimentico questo perduto Komyo.»
«Mai più», disse il corvo in tutta risposta, ancora una volta.
«Profeta!» Sibilò «Cosa malefica, profeta ancora, se uccello o demonio! Qualunque sia il Tentatore che ti ha mandato, o qualunque tempesta ti abbia sbattuto in questi lidi, desolati eppure così pieni di presenze, su questa terra deserta eppure incantata, c’è un balsamo in Gilead? Dimmi, dimmi, ti imploro!»
Ukoku stava dando in escandescenza per quella tragica situazione che, per un attimo, gli aveva fatto rivivere l'incubo dell'omicidio: non riusciva più a capire se il corvo fosse un emissario di una qualche benevola creatura, oppure del più spietato tra gli Dei, ma a ogni modo gli si appellò.
Il corvo, però, ancora una volta, impervio rispose: «Mai più.»
«Profeta», disse Ukoku, ormai alla stregua delle sue forze, inveendo contro il corvo e alzandosi dalla sua poltrona. «Cosa malefica, profeta ancora, se uccello o demonio! Per il cielo che si piega su di noi, per quegli Dei che entrambi adoriamo, di’ se quest'anima pesante di dolore, se, nel lontano Eden, stringerà un uomo chiamato Komyo», supplicò quasi. «Stringerà un uomo radioso che gli dei chiamano Komyo?» Domandò.
Il corvo, ancora una volta, rispose: «Mai più.»
«Sia la tua parola il segno del nostro addio, uccello o dio maligno!» Urlò, ringhiando contro quell’uccello, mentre camminava vorticoso per la stanza, andando a inveire con il dito sempre contro il corvo che, ovviamente, se ne stava ancora immobile e appollaiato sulla statua.
«Non lasciare piuma nera come segno di quella bugia che la tua anima ha proferito: lasciami alla mia intatta solitudine, vattene dal busto della mia statua, togli il becco dal mio cuore, togli la tua forma dal busto!» Sibilò furibondo nei riguardi del corvo che, nefasto e punitivo, senza pietà, senza muovere nulla del suo nero corpo determinato, rispose ancora una volta: « Mai più.»
Il corvo non volò mai, deciso di rammentare la colpa di Ukoku, seppur sembrasse che volesse rassicurarlo al contempo: sedeva ancora sul dorato busto del Buddha, mentre gli arguti e piccoli occhietti prendevano le sembianze di quel tanto citato demone maligno che sognava il moro, con la luce della lampada che si estendeva verso di lui, gettando la sua ombra sul pavimento, dove l'anima di Ukoku, fluttuante, non si sarebbe sollevata.
Mai più.

 
   
 
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