Dedicato
a radioactive
e alla gallina del brodo.
Senza di te
non posso sopportare il suono della pioggia. ♥
«Back to the intro, back to
the back of the back of the door I watched you close
Colors washed by the endless tides, by the end of the cycle faded slow
Back to walls with the holes punched in by the ends of a fist with knuckles swole
Back to the chick that lost control, back to the pain that can’t be shown»
| WOODKID FEAT ANGEL HAZE→
I LOVE YOU|
Pioveva.
Era stato il fastidioso picchiettare dell’acqua sui vetri a svegliarlo, quella mattina.
A ricordargli che avrebbe dovuto abbandonare quella chioma bionda scompigliata
che sbucava dalle coperte per correre a casa a darsi una sistemata – e magari
cambiarsi anche i vestiti con i quali era stato costretto a dormire. E così
aveva fatto, si era limitato a lasciare un piccolo bacio sulla tempia alla sua
storica ragazza e, con maniacale delicatezza, era sgusciato fuori dalle
lenzuola, salutando rapidamente la signora Nerys
già ai fornelli, intenta a preparare la colazione.
Se fosse stato un giorno
normale si sarebbe fermato ancora per
un po’, ma sapeva che sua madre era furiosa per il suo mancato ritorno a casa –
l’ennesimo in quella settimana – e che probabilmente gli aveva già preparato
una camicia pulita e dei pantaloni.
Santa donna.
Schivate le accuse e
giustificato il suo pernottamento fuori casa con una banale scusa, si era
diretto a lavarsi con la faccia di un cane bastonato e, una volta pulito e
sistemato, attese di essere fuori dal campo visivo di sua madre per
scompigliarsi i capelli perfettamente laccati da un lato in una pettinatura che
lo faceva sembrare un idiota – odiava quella stupida piega, e detestava ancora
di più quando qualcuno si ostinava a sistemargli i capelli.
Piovigginava, ma
questo non avrebbe cambiato le cose, né ritardato la tanto attesa mietitura in diretta del Distretto Due. Si passò una
mano fra le ciocche bagnate cercando fra le file gli splendidi occhi blu della
sua fidanzata, ma lo sguardo che intercettò non fu quello sperato e, qualche
riga più indietro, Thyra gli sorrise facendogli
l’occhiolino.
Nauseante.
Girò in fretta il capo guardando il palco, attendendo con impazienza l’inizio
di tutta quella farsa che era ormai solito sopportare. Prima avrebbero
incominciato, prima avrebbero finito, e prima lui sarebbe potuto andare da
qualche parte con Liv, a continuare il vaneggiamento della notte prima sul loro
futuro matrimonio.
Osservò con finto
interesse le sedie posizionate sul palco riempirsi una ad una, riconoscendo le
persone sedute: il primo posto era occupato dal Sindaco, accanto a lui c’era
l’accompagnatrice Calla Twigge, una donna dai capelli
color pervinca raccolti in una strana pettinatura, costituita principalmente da
due corna che sfidavano la forza di gravità; sulle due restanti seggiole erano
accomodati Enobaria e Brutus,
due vicintori delle passate edizioni.
Insomma, tutto
noiosamente uguale – fatta eccezione dei
capelli di Calla, per lo più solita a cambiare acconciatura ogni anno.
Sospirò facendo
passare nell’asola il primo bottone della camicia, così da evitare di morire
strozzato o vomitare sulla schiena del ragazzo davanti a lui – gli indumenti
stretti al collo gli avevano sempre fatto quell’effetto – mentre il Sindaco si
accingeva a leggere il noioso discorso su come fosse nata Panem.
Roel avrebbe quasi giurato di saperlo ripetere a
memoria, come una vecchia filastrocca, ma si astené dal provare a farlo. Attese
composto, dritto con la schiena fino a quando l’uomo non presentò Calla,
invitandola a raggiungere la pedana.
«Felici Hunger Games! E possa la buona
sorte essere sempre a vostro favore!» cantilenò con quella sua voce irritante
prima di intrattenere la folla con un fiume di parole senza capo né coda.
Roel alzò lo sguardo al cielo: aveva smesso di piovere.
Sorrise in direzione
di Liv per vedere se lei lo stesse guardando, ma riusciva ad intravederla con
le spalle leggermente chinate in avanti, mentre si rigirava fra le dita la
catenina che portava al collo.
Era turbata, se n’era accorto anche la sera prima, come se qualcosa la
disturbasse e spaventasse allo stesso tempo.
«Vediamo un po’
quale signorina avrà l’onore di rappresentare il Distretto Due quest’anno»
disse ad un tratto Calla, avviandosi verso una delle bocce di vetro.
Non importava quale
nome ci sarebbe stato su quella strisciolina di carta, tanto qualche altra
ragazza bramosa di vincere si sarebbe offerta volontaria. Era così da quando
aveva memoria, motivo per cui dopo i primi due anni il terrore che aveva
provato alla mietitura era stato sostituito dalla noia e dal desiderio di tornare
a casa.
«Thyra
Volz!» affermò l’accompagnatrice guardando la folla,
mentre lo sguardo di Roel si spostava sulla bionda
che prima gli aveva strizzato l'occhio.
La osservò camminare
con passo insicuro fino ai gradini, salire sul palco e affiancare la donna dai
capelli a corno. Se nessuno si fosse offerto – cosa altamente improbabile –
avrebbe scommesso tutto sul fatto che Thyra sarebbe
morta dopo cinque minuti, magari infilzandosi per sbaglio con una lancia.
«Ci sono volontari?»
domandò retorica, e una voce seguita da una mano alzata si levò dal silenzio,
precedendo qualsiasi altra.
«Io! Mi offro
volontaria come tributo» gridò lasciando Roel con gli
occhi spalancati, i muscoli paralizzati: Liv.
L’aria non affluiva
più ai suoi polmoni come avrebbe dovuto, era come se qualcuno gli avesse appena
scaraventato contro un peso da cento chili frantumandogli la cassa toracica.
Voleva gridare,
chiamarla e raggiungerla, ma il suo corpo era in uno stato di shock e niente
rispondeva più ai suoi comandi.
Una sola domanda non
detta sulle labbra schiuse: perché?
Fu un attimo di
scompenso, il tempo che lei raggiungesse Thyra sul
palco, e poi riuscì a muoversi, a rompere la riga. Ci vollero tre pacificatori
per tenerlo fermo e riportarlo al suo posto, tre uomini che lo trascinarono
mentre guardava lei sul palco, bellissima nel suo vestito celeste.
Mi dispiace, gli sembrò di vederla mimare con le labbra
mentre lui lentamente sprofondava nella disperazione. Non sentì le battute di
Calla riguardo al loro giovane amore, non sentì nemmeno Liv ripetere il suo
nome – l’unica cosa di cui era conscio era il sangue che gli pompava nelle
orecchie.
Poteva offrirsi
volontario, poteva andare con lei agli Hunger Games e fare in modo che sopravvivesse fino alla fine… ma poi? Cosa avrebbe fatto quando sarebbero rimasti
solo loro due? Suicidarsi e lasciarla vincere non avrebbe risolto le cose, non
gli avrebbe dato il matrimonio e la famiglia che da anni progettavano. No, così
facendo avrebbe dato a lei la possibilità di vivere e rifarsi una famiglia, ma
era troppo egoista per riuscire ad immaginarla fra le braccia di un altro che
non l’avrebbe mai amata come avrebbe fatto lui.
Non poteva offrirsi:
restando a casa le avrebbe dato l’occasione di vincere e di tornare da lui, a
pezzi oppure intera. Non si accorse della seconda estrazione e del secondo
volontario, lo vide salire sul palco e basta, non capì nemmeno quale fosse il
suo nome, ma non gli importava di lui.
Aveva ancora quella
domanda negli occhi: perché?
Il Sindaco lesse il
lungo e noioso Trattato del Tradimento mentre
lui continuava a fissarla, le iridi verdi puntate su quella bellissima ragazza
dai capelli biondi, sulla sua tigre – com’era solito chiamarla.
Sentiva le lacrime
pizzicargli gli occhi, la rabbia far sì che il suo stomaco si accartocciasse su
se stesso. Perché si era offerta senza
dirglielo?
I tributi si
strinsero la mano. Suonò l’inno di Panem, e poi la
vide sparire dentro il portone del Palazzo di Giustizia.
Lasciò che fossero i
genitori di Liv i primi ad entrare a salutarla, utilizzando i tre minuti della
loro visita per smaltire la rabbia, per non entrare e sputarle addosso tutto
quello che sentiva in quel momento – aveva tirato un pugno ad Hoyt, il suo migliore amico, e lo aveva fatto solo perché
gli aveva chiesto se sapeva che Liv si sarebbe offerta.
No, non lo sapeva.
Inspirò
profondamente stringendo i pugni, aspettando pazientemente il suo turno mentre
tentava di riassumere nella sua testa le cose che avrebbe voluto dirle.
Gridarle contro era fuori discussione, poteva essere una delle ultime volte in
cui l’avrebbe vista e avrebbe potuto parlarle, ma non riuscì a concludere il
pensiero che un nodo gli attanagliò la gola, stringendolo in una morsa
soffocante. Piangere sarebbe stato come dirle non credo in te, so che morirai e ti sto dicendo addio.
Ma lei non sarebbe
morta, non poteva morire.
Vide la madre di Liv
uscire con gli occhi lucidi, il padre le stringeva dolcemente le spalle mentre
l’accompagnava fuori. Era una donna forte, e Liv aveva preso da lei.
Un attimo di
lucidità lo investì, e in quel momento capì perché lo aveva fatto, perché aveva
alzato la mano ed era salita su quel palco: voleva vincere, voleva dimostrare
ai suoi genitori che valeva qualcosa. Dopotutto era stato lui a dirle che
avrebbe potuto vincere, le aveva dato la speranza che la sua famiglia non
sembrava avere, ed ora ne avrebbe pagato le conseguenze.
Toccava a lui.
I pacificatori lo
scortarono fino alla porta e, una volta entrato, finalmente la vide – sembrava
un angelo con quel vestitino e i capelli biondi ad incorniciarle il viso, ma
non trovò la forza di parlare.
Tre minuti erano troppo pochi.
Non disse nulla, la
strinse al petto strattonandola per il polso, riscoprendosi a tremare come un
bambino terrorizzato da un incubo, l’unica differenza era che lui non aveva la
certezza che tutto ciò che aveva vissuto fino a qualche attimo prima non era
realmente accaduto.
«Liv…»
mormorò piano lasciandole un bacio fra i capelli, invitandola poi ad alzare il
viso.
Non era lei quella spaventata fra i due.
«Io so che puoi
farcela, ricordati quello che ti ho insegnato» le sussurrò con la voce che
vibrava un poco, accarezzandole le labbra con le sue.
Doveva tornare da lui, solo questo. Chiedeva troppo?
Forse.
Due minuti e i pacificatori sarebbero tornati.
Solo due minuti, quante cose si possono fare in due
minuti?
La ragazza annuì
passandogli le dita fra i capelli, catturando poi la sua bocca in un bacio
lento e straziante – o forse così era sembrato a lui.
Quando si separarono
lei lo guardò negli occhi portando lentamente le dita dietro il collo, sfilando
la catenina che le adornava la gola «Tienila tu, non voglio che me la
sequestrino perché pensino che ci abbia nascosto un’arma» gli disse facendo
ciondolare la piccola pietruzza azzurra.
Roel la guardò con
l’aria distrutta – era stato lui a dargliela, avrebbe voluto che la tenesse con
sé durante le settimane alla capitale, ma era anche vero che avrebbero
potuto portargliela via prima
dell’ascesa nell’arena. Allungò una mano a recuperare la collana, stringendola
piano nel pugno «Te la ridarò quando sarai tornata…»
sussurrò passandole le dita fra i capelli.
Avevano poco tempo,
troppo poco.
«Resta con i
favoriti ma non ti fidare di nessuno, e cerca di farti venire in mente qualcosa
per piacere al pubblico…» era un consiglio, l’ultimo,
probabilmente banale e scontato, ma non gli veniva nient’altro «… anche se a Capitol City ti adoreranno, dopotutto sei splendida»
concluse con un mezzo sorriso.
Sessanta secondi.
Il tempo scorre troppo in fretta quando hai un mare di
cose da dire e fare, e lui voleva dirle che l’avrebbe aspettata, che l’amava
come nessuno avrebbe mai potuto fare, e come avrebbe mai potuto amare
nessun’altra.
La baciò ancora,
conscio che quella sarebbe davvero potuta essere l’ultima volta in cui le sue
braccia la stringevano – pensarlo faceva male, ma gli Hunger
Games sono questo, dopotutto.
«Ti amo, ma questo già lo sai…» fu l’ultima cosa che
le disse prima che i pacificatori lo strappassero da lei con la forza,
chiudendo con un colpo secco la porta, separandoli per sempre.
Aveva ripreso a
piovere.
Roel fissò per qualche
istante la catenina che teneva sul palmo, trovando poi la forza di mettersela
al collo. L’immagine di Liv gli si stampò nella mente, la collana troppo lunga
che si nascondeva perfettamente nell’incavo fra i seni, vicino allo sterno… vicino al cuore.
A lui il ciondolo
arrivava un po’ più in alto.
Sorrise. Un sorriso
triste mentre alzava lo sguardo al cielo, lasciando che le stille d’acqua gli
rigassero il viso, imitando le lacrime che ancora non era riuscito a versare.
Senza di lei non era
niente, non avrebbe sopportato nemmeno il
suono della pioggia.
• NdA;
Sono sempre io, sì.
Questo lungo delirio
è chiaramente uno spin-off di Die on the front page, just like the stars scritto/diretto/interpretato(?)
dalla mia amata radioactive.
È la mietitura della
piccola Liv vissuta dal punto di vista di Roel, il
suo fidanzato, nonché tributo negli Hunger Games dell’anno successivo che potete trovare in I’m frozen to the bones.
Per il resto non ho
nulla da dire, scriverla mi ha arrecato dolore, ma va bene. Supererò questo
momento. Niente, spero che a radioactive
sia piaciuta almeno un po’, ma boh. Ecco.
Il titolo è una
frase di una canzone di Woodkid( ma va?) e… niente.
Sparisco, ciao.
~yingsu.