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Autore: Serenity Moon    17/10/2013    2 recensioni
"L'ora che precede l'alba è sempre quella più nera, ma piano piano, i raggi del sole cominciano a far capolino. Con una lentezza dilaniante, squarciano le nubi e colorano il cielo di infiniti miliardi di sfumature. E' quello lo spettacolo più bello, l'attimo prima dell'alba. L'istante in cui il sole si fa attendere, hai paura che non arrivi più, ma sai che c'è, devi solo dargli il tempo giusto perché sorga e ti abbagli, in tutto il suo splendore.
Ed io ero così. Ero un'alba che aspettava di nascere.
E lui era la Terra che gira. Mi ha dato vita e luce e poi me le ha tolte entrambe".
Dopo tanta attesa, ecco finalmente, il prequel di 'Bitch'.
Bentornata, Jude.
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Triangolo | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Bitch '
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Dawning bitch

 

 

# 11

California King Bed
“Il valore di un sentimento è la somma dei sacrifici che si è disposti a fare per esso”.
Galsworthy

Alla fine mi ero addormentata sul divano. Esausta, mi ero accasciata lì, con un braccio sulla bocca per soffocare i singhiozzi. Preferivo non rischiare anche se dubitavo che Ryan avrebbe sentito qualcosa. Così come io non avevo sentito lui alzarsi, prendermi in braccio e portarmi a letto. La sensazione delle dita che scivolavano sulla mia guancia e delle labbra che si posavano sulla mia fronte dovevo essermela sognata, non riuscivo a spiegarlo in altro modo. Ma era stato stupendo e mi bastava così.
Invece aprendo gli occhi, me lo ero ritrovato davanti, sdraiato su un fianco che mi fissava preoccupato. Per la sorpresa sobbalzai.
«Sono così brutto?» chiese, la voce resa roca dal lungo silenzio.
«Mai avuta visione più splendida di questa». La sbornia gli aveva in qualche modo illuminato gli occhi, già meravigliosi, e colorato le guance di un rosa appena accennato che, insieme alla sonnolenza, gli dava un'aria un po' svampita, ma irresistibile.
«E allora cos'è quella faccia?» disse avvicinandosi sino a sfiorarmi il naso col suo. Chiusi gli occhi per godermi di più quel momento. Doveva aver già fatto la doccia. Il suo alito sapeva di menta ed era più lucido di quanto io fossi mai stata dopo una serata come la sua. E soprattutto era nel mio letto, alle otto del mattino e sembrava non aver la minima intenzione di andarsene.
«Non mi aspettavo di trovarti qui» confessai.
Ryan corrucciò la fronte tanto che le sue sopracciglia arrivarono quasi a toccarsi. Puntai l'indice proprio sull'attaccatura del naso e con dei movimenti circolari, sciolsi la ruga che si era formata.
«Ne sono contenta».
Sorrise insieme a me. Un sorriso così dolce che mi si dilaniò il cuore. Quell'amore era così grande che riempiva ogni millimetro del mio essere. Mi scorreva nei capelli, si irradiava nelle unghie, mi riempiva le vene. Mi chiedevo come avessi fatto prima a vivere senza. Forse non vivevo. Vegetavo. Ecco, sì, vegetavo e finalmente mi ero risvegliata. Ogni giorno, ogni minuto passato prima di conoscere Ryan era insulso, assolutamente privo di qualsivoglia senso.
Mi stiracchiai e le ossa del mio collo scrocchiarono sinistramente, neanche fossero quelle di una novantenne.
«Mmm... Massaggino?». Scoppiammo a ridere entrambi ed ancora una volta, ebbi modo di ammirarlo in tutta la sua bellezza. Ormai non facevo altro. Mi rendevo conto che a qualcuno che avesse visto la scena da fuori, sarei potuta sembrare noiosa, monotona, allucinata forse, ma non me ne importava niente. Solo un pazzo non avrebbe passato la sua vita a guardare Ryan.
«Hai fatto la doccia e hai rimesso i vestiti di ieri?» ma più che una domanda la mia era una constatazione.
«Non avevo altro e non volevo andare a casa a cambiarmi».
Non risposi. Ogni volta la paura di fraintendere le sue parole era troppa. In una piccolissima frase poteva starci tutto il mio mondo e una sillaba poteva distruggerlo, accartocciarlo per sempre.
«A cosa stai pensando?» gli chiesi dopo un po'. L'ultima volta che gli avevo visto quell'espressione in faccia era stato per il mio compleanno ed il risultato era stato il meraviglioso braccialetto che anche quella mattina mi tintinnava al polso.
«Che mi serve un cassetto» se ne uscì ed io, come un gatto, rizzai le orecchie. «Che ne pensi?».
Mi tirai su, facendo perno sul gomito e mi poggiai il palmo della mano sul collo per sorreggermi. Finsi di pensarci un attimo, poi modulando l'entusiasmo nella voce risposi.
«Mi pare un'ottima idea».
Trascorremmo il resto della mattinata sistemando la casa. Svuotammo un paio di cassetti, uno grande nel ripiano inferiore dell'armadio e uno più piccolo, per la biancheria, nel mobiletto basso sotto lo specchio. Gli liberai anche uno scaffale in bagno. Ad ogni gesto, finalmente quella casa diventava più sua, più nostra.
Ridevamo come degli scemi, mentre, abbracciati, andavamo da una stanza all'altra, inciampando e tenendoci l'una a l'altra. Sembravamo una coppia di sposini in perlustrazione, facendo progetti meravigliosi. Era tutto così bello, così vero. Per quasi tre ore non era esistito più niente. Nessuna ragazza, nessuna amante, nessuna scelta. E per la prima volta, non c'era neanche la paura che tutto quello potesse finire. C'era pace.
Solo lui ed io. Solo noi.
Cominciavo a pensare che forse quel 'Ti amo' sfuggitogli la notte prima era sincero...
Alla fine del quarto giro, Ryan si sedette sul divano in cucina. Mi mise le mani sui fianchi e mi trascinò sulle sue ginocchia. Era una cosa che adoravo. In men che non si dica, tornavo bambina e mi sentivo protetta. Niente poteva più farmi del male in quel modo.
«Programmi per oggi?» esordì, giocando con i capelli che mi ricoprivano la schiena. Non li avevo così lunghi da anni, ma a lui piacevano e non li avrei tagliati neanche se mi avessero pagata a peso d'oro.
«Ho una lezione nel pomeriggio, per il resto sono tutta tua».
Un sorriso birichino comparve sul viso di Ryan. Mi posò un bacio sulla guancia, poi scese, giù fino al collo, sfiorandomi la pelle col naso. Chiusi gli occhi automaticamente, mentre le sue dita scivolando, mi fecero inarcare la schiena.
«C'è il pericolo di incontrare il tizio con gli occhi di vetro?».
Spalancai gli occhi, confusa. Che stava dicendo? Che tizio?
Lo guardai in modo talmente sconcertato che pure lui si rese conto che non avevo capito.
«Il tuo collega antipatico» mi aiutò.
Ebbi un'illuminazione.
«Josh?» chiesi ancora non del tutto convinta. Ryan annuì in risposta, lasciandomi più basita di quanto già non fossi. Josh... Mi ero pure dimenticata della sua esistenza e lui ci pensava ancora.
«Può darsi» dissi con un'alzata di spalle. «Ma anche se fosse ho un metodo infallibile: mi giro dall'altra parte e faccio finta di non vederlo».
Ryan scoppiò a ridere ed io ne approfittai per baciarlo. Non lo facevo mai. Di solito avevo sempre paura di sembrare troppo presuntuosa anche in quello, ma quella mattina c'era qualcosa di diverso. Lo sentivo più mio, come se adesso niente e nessuno avrebbe più potuto portarmelo via.
«Facciamo allora che, mentre tu sei all'università, io torno a casa a prendere qualcosa per riempire quei cassetti» propose indicando col pollice al di là del corridoio.
«E poi quando torni?» chiesi allarmata. Non volevo stargli lontana fino all'indomani, non avrei resistito così tanto.
Come sempre, Ryan si accorse della vena isterica nella mia voce. Mi regalò una carezza, con la quale mi allontanò i capelli dall'orecchio e si avvicinò per sussurrare qualcosa.
«Quando avrai finito, mi troverai qui».
Ero ufficialmente la persona più felice in tutto l'universo conosciuto e non.

Salutai Ryan con un bacio e la netta sensazione di lasciare buona parte di me in quella casa. Sarei stata lontana solo due ore, ma mi somigliavano tanto all'eternità.
Dalla sera prima c'era qualcosa di strano. Mi pungolava il cuore, come una sorta di allarme che mi avvertiva di stare in guardia. Da cosa però non lo sapevo.
Varcai la soglia dell'aula talmente sovrappensiero da inciampare nel primo gradino e suscitare i risolini divertiti di alcuni colleghi seduti lì davanti. Feci finta di nulla ed andai a sedermi al mio solito posto nella zona centrale. Tirai fuori dalla borsa penna e quaderno e mi misi a scarabocchiare come facevo di consueto. C'erano più ghirigori che appunti tra quelle pagine, studiarle sarebbe stata una vera sfida contro le distrazioni.
Avvertii un colpo sulla spalla mentre coloravo l'ennesimo fiore. I cuori avrebbero rivelato troppo. Dovevo trattenermi pure in quello. Niente nomi o romanticherie che potessero smascherarci.
Mi voltai e trovai Paula e Marcela sporte in avanti, una a destra, l'altra a sinistra. Paula aveva cambiato taglio di capelli dall'ultima volta che ci eravamo viste. Aveva un caschetto castano che le lasciava scoperto il collo, mentre Marcela era sempre la stessa. Capelli biondo cenere lunghi sino alle spalle e occhiali sul naso.
«Che fine hai fatto? Ti sei persa!» esclamò Paula appoggiando il mento sul palmo della mano.
«Ho lavorato» mentii spudoratamente. Ero consapevole che il mio alibi aveva più buchi di un colabrodo. Strawberry sapeva che ero occupata con l'università. I miei amici che a tenermi impegnata era il lavoro. Dovevo solo sperare che non si incontrassero mai.
«Guarda, c'è Josh».
Paula diede una gomitata a Marcela e le indicò la porta. L'altra seguì lo sguardo dell'amica e si drizzò sulle spalle non appena incrociò Josh. La sentii distintamente sospirare mentre si sistemava gli occhiali e si lisciava una ciocca di capelli dietro l'orecchio.
Presi la palla al balzo.
«Mar, se ti piace così tanto, perché non gli chiedi di uscire?» buttai lì, l'innocenza ed il disinteresse incarnati.
Paula soffocò una risata mentre l'altra diventava rossa come un pomodoro.
«Gli piace già un'altra» sospirò di nuovo.
Stupido Josh.
«Che ne sai? Magari gli piaci di più tu» insistetti. Mi sentii un mostro per il modo in cui la stavo sfruttando, ma se mi avesse liberata da Josh, l'avrei adorata per il resto dei miei giorni.
Quasi si fosse sentito chiamare, Josh si mosse verso di noi. Imboccò la fila dov'ero seduta io e mosse i primi passi. Lo guardai tanto storto che pure un idiota si sarebbe accorto che se si fosse avvicinato, lo avrei picchiato lì di fronte a tutti. Ci ripensò infatti, tornò indietro e si fece strada fino a Marcela, per poi sedersi vicino a lei, con suo grande imbarazzo.
Alzai le sopracciglia come per dirle 'visto?' e dedicai la mia attenzione al professore appena arrivato. Questo spense le luci e fece partire un video. Mi lasciai scivolare sul seggiolino ed incrociai le braccia. Alla faccia della lezione importante. Se avessi saputo, me ne sarei benissimo rimasta a casa.
Restai per due ore in quella posizione, muovendomi ogni tanto per evitare che mi si addormentasse il sedere. Sentivo lo sguardo di Josh trapanarmi la schiena. Mi ero voltata un paio di volte e lo avevo trovato intento a fissarmi con un'intensità che mi aveva messo pure paura. Perché doveva fare così?
Mi strinsi ancora di più nelle spalle. Alla fine del filmato, presi le mie cose e in fretta e furia lasciai l'aula. Mi precipitai in cortile per prendere un po' d'aria, ma neanche a dirlo, un attimo dopo, eccolo lì, che veniva verso di me, serio, serissimo mentre si guardava intorno.
«Ciao» salutò quando fu a pochi centimetri di distanza.
«Cosa vuoi?» partii subito in quarta, infastidita per quell'ennesima intrusione. Sarei già dovuta essere sulla via del ritorno, più vicina a Ryan, non a lui.
«Come stai?». La sua voce pareva venire dall'oltretomba tanto era cupa.
«Bene» risposi con tono di sfida, ma per lui non era abbastanza.
«Dove sei stata? Sei sparita».
«Ho lavorato».
Parlavamo entrambi a denti stretti, tutti e due in procinto di perdere la calma.
«Non è vero».
Lo fissai sbalordita, in attesa di una spiegazione che non tardò ad arrivare.
«Sono stato al negozio e non ti ho vista».
Rimasi impietrita. Era stato al negozio di mia cugina? Mi seguiva?
«Josh, lo stalking è un reato punito dalla legge» gli ricordai, ma di quel passo a finire in manette sarei stata io. Tentato omicidio, niente di meno.
«Non sono uno stalker. Sono solo preoccupato per te» si difese lui.
«E, di grazia, per quale motivo dovresti essere preoccupato per me?» chiesi spazientita allargando le braccia. Avevo pure alzato il tono della voce, ora colma del nervosismo che non volevo più nascondere.
«Lo sai» sussurrò lui.
«E tu sai che ti sbagli. Lasciami in pace, Josh».
Feci per andarmene, ma lui mi trattenne per il braccio come aveva fatto al centro commerciale.
«Jude, se vuoi fingere che non stia accadendo niente, okay. Fingerò insieme a te. Ma prima o poi questo gioco finirà. Ti farai male e non voglio che succeda».
Rimasi impietrita per un attimo. Uno solo. Un istante di più e gli avrei confermato che aveva ragione. Mi sarei fatta torturare piuttosto. Nessuno doveva sapere, nessuno.
«Josh, te lo ripeto per l'ennesima volta: ti stai immaginando tutto. Sarai tu mettermi nei guai con questa storia. Per favore, smettila».
Josh sospirò come un padre fa con una bambina testarda che vuole per forza andare sullo scivolo sapendo già che cadrà.
Ci guardammo a lungo, uno più deciso dell'altra a non voler mollare. Eravamo irremovibili ognuno nella sua posizione.
«Devo andare». Misi fine a quella scena da western spazzatura e girai i tacchi.
«Potrai sempre contare su di me».
Lo disse piano, ma le mie orecchie afferrarono quella frase al primo colpo. Non mi voltai come invece avrei dovuto. Proseguii per la mia strada, stringendo le dita attorno al manico della borsa.
Ultimamente i sussurri mi fracassavano i timpani.
 
“Si può stare contemporaneamente con due persone? Sì se non si ama abbastanza nessuna delle due”.
Antonio Curnetta


Girovagavo per casa in attesa che tornasse Jude. Mi sentivo estremamente fiero di me mentre svuotavo il borsone che avevo riempito di vestiti e cianfrusaglie varie. Immaginavo la sua faccia quando avrebbe visto i cassetti con le mie cose, il sorriso che si sarebbe aperto sul suo volto, la luce che le avrebbe illuminato gli occhi.
Jude riusciva ad amarmi anche solo sfiorandomi con le dita. Le bastava un'occhiata per farmi sentire speciale, una cosa che non avevo mai provato prima.
Io invece non ero nemmeno capace di dirle a chiare lettere quanto tenevo a lei. Ero un codardo, ma lei mi amava. Ed io avevo scelto. Finalmente lo avevo fatto.
Ricordavo ben poco di come si fosse conclusa la serata precedente. C'era forte il gusto del vino, il calore che mi dava scendendo fino allo stomaco vuoto. E poi c'era Jude. Preoccupata, spaventata, premurosa nelle sue carezze, nei suoi sguardi terrorizzati. E poi c'era un minuscolo particolare. Una sillaba che riecheggiava in tutto quel caos provocato dalla sbornia. Un 'NO' secco che mi aveva lasciato stupefatto. Jude non mi aveva mai detto no e in quel momento, sentirglielo dire, capire perché era arrivata a dirlo, me l'aveva fatta amare ancora di più e mi aveva reso più sicuro della mia decisione di quanto già non fossi.
Era lei. Lei e basta.
Sentii la chiave girare nella toppa della porta d'ingresso e le andai incontro con un sorrisino soddisfatto. A braccia conserte, mi poggiai allo stipite dell'arco che collegava la cucina al corridoio.
Varcò la soglia a testa bassa, avendo cura di strofinare le scarpe sullo zerbino. Quando la alzò e i suoi occhi incrociarono i miei, ci lessi dentro tutta la sorpresa che contenevano. Come avevo previsto, le sue labbra si curvarono in un sorriso e le guance si colorarono di quel rosa che adoravo.
Lasciò cadere la borsa ai suoi piedi e mi venne incontro per poi allacciare le sue braccia attorno al mio collo. Non ci misi tanto a reagire. Le circondai i fianchi e la baciai. Sentii le sue dita scivolarmi tra i capelli e il suo respiro inciampare più di una volta. Ogni boccata d'aria diventava più lunga e profonda mentre le mie mani scorrevano sulla sua schiena, lentamente. Mi strinse le spalle e i baci si fecero più forti e audaci. Le morsi le labbra prima di scivolare sul suo collo, incontrare la catenina d'argento che non si toglieva mai, baciare pure quella, che era parte di lei ed infine prenderla in braccio. Ci bastò uno sguardo, complici pure in quello, e pochi minuti dopo combattevamo contro zip e bottoni, impazienti di ritrovarci insieme.
Assaporai la sua pelle, ascoltai i suoi gemiti, compresi i suoi sforzi di piccola Atena nel cercare di farsi Venere per essere a quella altezza a cui dovevo essere io invece ad arrivare.
Strinsi le dita attorno alla sua coscia ed automaticamente le sue afferrarono i miei capelli, per poi scivolare giù, sul collo, le spalle, la schiena. Le sue unghie lasciavano timidi segni, lì dove si azzardavano a passare, mai troppo forti, perché anche un graffio sarebbe potuto essere compromettente. Nessun segno sulla pelle però sarebbe mai stato indelebile come le sensazioni che mi scuotevano corpo e mente. I suoi sospiri arrivavano fino ai miei polmoni. La sua lingua, adorabilmente audace, che percorreva l'incavo della gola fino a farmi sentire vulnerabile come forse lo ero stato solo nel ventre di mia madre. I suoi seni, dai quali suggere tutto quell'amore di cui nemmeno conoscevo l'esistenza ed infine lei, in tutta la sua splendida pienezza. Lei che mi accoglieva, che si adattava a me, che stravolgeva gli occhi ed inarcava la schiena quando osavo un po' di più. Lei che si muoveva insieme a me, in un ritmo così facile da trovare, da sembrare l'ennesimo manifesto della nostra indiscussa appartenenza l'uno all'altra.
E poi i suoi 'ti amo', sussurrati timidamente, quasi avesse paura che li sentissi e per punizione decidessi di andarmene via.
Amavo i suoi 'ti amo' e se avessi dovuto pagare per sentirli, avrei venduto pure l'anima pur di permettermeli. Io che 'ti amo' a lei non avevo il coraggio di dirlo.
Per ora...
“Chest to chest, nose to nose
 Palm to palm, we were always just that close
 Wrist to wrist, toe to toe
Lips that felt just like the inside of a rose”.

Se le fiabe esistono, noi ne stavamo vivendo una. Di quelle stupende, senza draghi o streghe cattive, pronte con i loro incantesimi a turbare la magica quiete per cui il principe e la principessa avevano tanto lottato, mano nella mano.
Era bellissimo svegliarsi al mattino e trovarlo al mio fianco, le sue dita intrecciate alle mie, i capelli arruffati e gli occhi pieni di sonno e meraviglia, che si illuminavano di conseguenza a quel sorriso che era più bello di qualsiasi buongiorno.
Doccia e colazione, degna delle migliori pubblicità dei biscotti e poi ognuno al suo lavoro, sicuri di ritrovarsi a sera, di nuovo insieme. Il suo accappatoio riscaldato sul termosifone, l'odore di bagnoschiuma maschile che riempiva la casa, i giochi con l'acqua mentre lavavo i piatti che poi restavano a mollo nel lavandino, mentre noi, tutti zuppi, finivamo per fare l'amore dove ci capitava prima, perché non c'era tempo da perdere per stare insieme. Un posto valeva l'altro, ciò che contava eravamo noi.
Così passavano i nostri giorni. L'anno nuovo era arrivato da un pezzo e mentre lei brindava sotto le luci caleidoscopiche di chissà quale discoteca con i suoi colleghi di lavoro, noi avevamo contato i secondi guardandoci negli occhi e non so né come, né perché, ma in quegli istanti, avrei giurato, che in ogni battito di ciglia che tratteneva, era nascosta una parola, un'emozione che solo io potevo leggere e ascoltare.
Lui mi amava, lo sapevo. Lo capivo dal modo in cui mi accarezzava le guance o mi pettinava i capelli con le dita o puliva le macchie di vernice dal mio naso quando, chiusi nel suo studio, con le serrande aperte giusto quel pochino che serviva a respirare, imbiancavamo alla meno peggio le pareti sporche.
Stavamo dando la seconda mano di pittura alla saletta d'attesa. Ryan, con il rullo intinto nel bianco, passava e ripassava sul soffitto. Ogni tanto qualche gocciolina di vernice cadeva e si infrangeva sugli scatoloni che avevamo appiattito e poggiato sul pavimento per evitare che le mattonelle azzurrine si sporcassero.
«Posso chiederti una cosa?».
Quel giorno era pensieroso. Me ne ero accorta ma non gli avevo detto niente per non appesantirlo con le mie paranoie. Me ne avrebbe parlato se e quando avrebbe voluto lui e forse c'eravamo.
«Certo».
«Se si venisse a sapere di tutto questo...» azzardò senza specificare nulla. Gli lanciai un'occhiata veloce. Era di spalle, apparentemente concentrato sul suo lavoro. Al mio silenzio aggiunse un'altra sillaba, anche questa lasciata in sospeso. «Tu...?».
«Era a questo che pensavi?».
Mugugnò in risposta. Quando c'erano argomenti importanti di cui parlare era sempre di poche, pochissime parole. Quella dei poemi ero io.
«Non dirò mai niente, Ry. Tu ed io non ci siamo mai conosciuti».
«Okay» sussurrò ancora voltato dalla parte opposta rispetto alla mia.
Parlare di spalle è sempre stato più facile, per tutti, senza esclusioni. Guardarsi negli occhi è da coraggiosi, da impavidi e questo mondo ormai vive di codardia. Noi ne eravamo il primo esempio.
«Perché hai pensato ad una cosa del genere?».
Avevo smesso di pitturare ed avevo abbassato le braccia lungo le gambe, in attesa di una sua risposta.
«Niente, davvero».
Ma stava mentendo, ne ero sicura. Rimasi immobile, indecisa se insistere o lasciar correre, ancora, come avevo sempre fatto, pur di non affrettare la nostra fine. In silenzio, lo osservai passare il rullo sul soffitto che diventava più bianco ad ogni movimento.
La nostra storia era un malato terminale. Era nata così, appesa ad un filo di seta. Bellissimo ma pur sempre fragile e da lì a poco si sarebbe spezzato, lo sentivo.
Lui se ne accorse. Poggiò lo strumento nella vaschetta col colore e mi raggiunse. Non disse nulla. Mi prese il viso fra le mani e mi baciò, con un'intensità tale da farmi traballare.
«Andrà tutto bene» mormorò ad un soffio dalle mie labbra ed una bellissima sensazione si insinuò sotto la mia pelle. Percorse ogni millimetro del mio corpo, si impossessò delle mie terminazioni nervose e si installò nello stomaco. Lì, dove di solito c'erano i crampi della preoccupazione, arrivò la felicità e la certezza che era vero, che le mie paure non avevano senso e lui aveva ragione.
Sarebbe andato tutto bene, perché era così che dovevano andare le cose.
Noi avremmo vinto su tutto, pure su noi stessi.
“So how come when I reach out my finger
 It feels like more than distance between us?
In this California king bed
We're ten thousand miles apart
 I've been California wishing on these stars
For your heart on me, my California king”.

Bastava davvero poco per far spaventare Jude, anche una domanda. Io non mi ero rivolto a lei con l'intenzione di terrorizzarla. Volevo solo sapere, avere l'ennesima prova che potevo fidarmi di lei e lei, del tutto innocentemente me l'aveva fornita senza tante preghiere.
Non ne avrebbe mai fatto parola con nessuno. Cosa potevo volere di più? Un pizzico di coraggio.
Un pizzico di coraggio e poi si sarebbe sistemato tutto. Avevo deciso ormai. Lo avevo pure detto a Dave. Qualche giorno dopo la domanda a Jude, io e lui ci eravamo dati appuntamento per pranzare insieme. Gli era bastata un'occhiata per capire che c'erano novità ed aveva subito tirato ad indovinare.
«Nessuna delle due è incinta, sei troppo contento. Che è successo, amico?».
Lo avevo guardato, orgoglioso di me come mai ero stato prima, la testa ben ritta, nessun peso sulle spalle.
«Ho deciso» e dopo un attimo di pausa gli avevo rivelato tutto. «Io resto con Jude».
Le pupille di Dave si erano allargate a dismisura. Si era sporto verso di me e mi aveva piantato il palmo aperto davanti alla faccia con un sorriso degno di quello dello Stregatto.
«Grande amico!» aveva esultato. «E Jude lo sa?».
Avevo scosso la testa. «Voglio che sia speciale».
«E cosa stai aspettando?».
«Solo che lei torni. Voglio parlarle di presenza, almeno questo glielo devo».
«Ah, va beh». L'entusiasmo di Dave si era smorzato in men che non si dica. Lo avevo guardato, scettico e desideroso di spiegazioni.
«Non ti incazzare, eh, ma a queste condizioni non lo farai mai. Ti conosco troppo bene».
«Lo farò» avevo insistito, sicuro di me come mai prima d'allora.
Dave allora mi aveva rivolto lo sguardo più serio che gli avessi mai visto in faccia da quando lo conoscevo. Non c'era remissione di peccato.
«Lo spero. Sei felice con Jude, non perdere questa occasione».
E non avevo proprio intenzione di perderla.
Le giornate però passavano senza che ci fossero tutti quei cambiamenti che mi aspettavo e che desideravo arrivassero il prima possibile.
Era impressionante come stavolta attendessi con una smania febbrile la sua telefonata in cui mi diceva che stava per tornare.
Un mese dopo la mia dichiarazione ufficiale di intenti, finalmente la chiamata arrivò. Una settimana. Un'altra settimana e tutto sarebbe definitivamente cambiato. Io e Jude saremmo stati felici insieme. Lei mi avrebbe amato ed io non l'avrei più ferita con il mio doppio gioco.
Avvertii Jude dell'imminente ritorno. La rassicurai che la separazione stavolta non sarebbe stata né duratura, né drastica come la volta passata. C'era solo da avere un po' di pazienza e per questo, lei poteva benissimo essere incoronata santa. Anche per questo ero sicuro che la mia scelta era giusta.
Andai a prenderla in aeroporto come sempre, per non destare sospetti. Come al solito, appena mi vide mi gettò le braccia al collo, prorompente come una tempesta. Mi baciò le labbra e stetti ben attento a non farmi inebriare dal sapore di quel lucidalabbra che aveva accompagnato ogni contatto della nostra relazione. Niente ricordi, niente nostalgia, niente rimpianti. Era finita, in fondo già da un pezzo.
L'accompagnai a casa. Era stanca a causa del viaggio. L'indomani le avrei parlato.
Ma passò un giorno, ne passarono due, tre, poi quattro. Ci vedevamo poco, lei impegnata in chissà quale progetto di cui mi aveva sicuramente parlato ma che altrettanto sicuramente non avevo ascoltato ed io con la testa altrove, pronto a scappare e rifugiarmi da Jude appena possibile.
La prima settimana volò senza che neanche ce ne accorgessimo. Noi stavamo ancora insieme e la mia storia con Jude attendeva dietro l'angolo che la smettessi di fare il codardo.
La notte avevo gli incubi. Sognavo Dave scuotere la testa deluso, esclamando il suo micidiale “te l'avevo detto” e vedevo Jude, seduta a terra, con le ginocchia strette al petto, lo sguardo gentile, paziente, a consolarmi. Pareva dire “puoi farcela. Credo in te”, ma malamente nascosti dall'ombra apparivano gli occhi di vetro del suo collega, pronto ad avventarsi su di lei, che prima o poi, se non mi fossi deciso, avrebbe ceduto, nonostante tutto, nonostante il suo amore e questo non doveva succedere. Jude era mia! Ed io dovevo rompere quella stupida relazione senza amore e senza senso.
"Eye to eye, cheek to cheek
Side by side, you were sleeping next to me
Arm in arm, dusk to dawn with the curtains drawn
 And a little last night on these sheets
So how come when I reach out my fingers
 It seems like more than distance between us?
In this California king bed
 We're ten thousand miles apart
 I've been California wishing on these stars
For your heart on me, my California king”

Volenti o nolenti, il tempo passa. I giorni, i mesi si susseguono senza fine, tra una carezza, un abbraccio, la pazienza che piano piano si arrotola attorno alle dita come un nastro senza colore che stringe sempre più, fino a bloccare la circolazione del sangue. Le unghie diventano viola e per uno strano scherzo fisiologico, comincia pure a mancarti il respiro. Senti di essere lì lì per crollare, però resisti.
Un'altra ora, un altro minuto, ancora un secondo. Che sarà mai?
Così era giunto marzo. Un altro mese era passato. Ancora nascosti, ma eravamo insieme. Mi trascinavo per i giorni, sempre più stanca di quella situazione che iniziava a pesare più che mai. Qualunque mio tentativo di ribellione, però, era assolutamente inutile. Forte e decisa davanti allo specchio, non appena mi ritrovavo Ryan davanti, l'unica cosa che sapessi fare era gettarmi fra le sue braccia ed ascoltare il suo cuore. Lui mi accoglieva benevolo, incosciente di quello che mi si agitava dentro, della mia voglia di urlare quanto fossi esausta, che non ce la facevo più. Lui mi stringeva, mi cullava e poi facevamo l'amore, ogni volta come se fosse l'ultima, celando quella disperazione che ormai era diventata il retrogusto di ogni nostro bacio.
C'eravamo, ma eravamo fantasmi. Ci sentivo naufragare verso qualcosa di sconosciuto, probabilmente la fine, non riuscivo a definire in altra maniera quella specie di foschia che mi annebbiava i pensieri. Il futuro cos'era? Com'era? Non ne avevo idea.
Lui era tranquillo. Mi sorrideva, mi carezzava le guance e baciava i miei capelli. Per lui era tutto chiaro. Io mi sentivo naufragare ed arrancavo verso un'ancora che si sporgeva verso di me, ma non era abbastanza lunga perché la raggiungessi. Le mie dita erano sempre ad un soffio dall'afferrarla, ma appena ne sfioravano la superficie umida e fredda, ecco che scivolavano ed io tornavo in balia delle onde.
"Just when I felt like giving up on us
You turned around and gave me one last touch
 That made everything feel better
 And even then my eyes got wetter
So confused wanna ask you if you love me
 But I don't wanna seem so weak
Maybe I've been California dreaming”.

Quella sera avevo preparato tutto. Una bella cenetta, la casa immacolata, le lenzuola fresche. Nessun motivo particolare se non quello di vederlo e poter stare qualche ora con lui.
“Mi libero e arrivo”. Lessi l'SMS con un sorriso e poggiai il cellulare sul comodino della camera da letto per tornare in cucina a sistemare gli ultimi dettagli. Lei era tornata da una settimana e se l'era ripreso, sebbene Ryan facesse di tutto per essere il più presente possibile e non farmi pesare la sua vita normale, ordinaria, giusta.
Scacciai i cattivi pensieri dalla testa ed accesi la televisione per farmi un po' di compagnia. Trovai un film visto e rivisto e mi dissi che per ammazzare il tempo sarebbe andato bene, tanto non sarei arrivata neanche a metà. Invece due ore dopo vidi scorrere i titoli di coda. Guardai l'orologio, incredula. Che fine aveva fatto? Andai in camera a controllare il cellulare. Niente. Nessun messaggio, né telefonate. Che fosse ancora con lei? Sperai con tutto il cuore di no, sedendomi sul materasso. Ogni volta che lo sapevo con lei mi sentivo male. Lo stomaco si attorcigliava, faticavo a respirare e mi tremavano le mani mentre la gola si chiudeva per trattenere i singhiozzi. Quella stronza, quella strega, quella... quella... No, la puttana ero io. Se dovevo prendermela con qualcuno, dovevo farlo con me stessa, troppo codarda per andare da Ryan e costringerlo una volta per tutte a definire quella situazione. Fino a quando non avessi preso il coraggio a quattro mani e reagito, non avevo voce in capitolo.
Attesi ancora. A mezzanotte e cinque spensi le luci e andai a dormire. Ormai non sarebbe più venuto. Mi arrotolai nelle coperte e serrai gli occhi, pregando di addormentarmi il più presto possibile. Ogni secondo passato sveglia non avrebbe fatto altro che aumentare la sofferenza per quell'ennesima delusione.
Nel sonno udii un rumore e mi svegliai. Restai sdraiata, gli occhi semichiusi mentre la porta della mia camera si apriva ed uno spiraglio di luce si insinuava dalla fessura via via più grande. Qualcuno entrò e senza esitazioni si diresse verso il letto, si tolse le scarpe e si sdraiò accanto a me.
«Jude» sussurrò piano e la sua voce mi riscaldò l'animo intirizzito dal dolore.
Rimasi di spalle ma la mia mano corse a cercare la sua. Ryan mi abbracciò e mi baciò il collo. Rabbrividii al suo contatto e anche senza guardarlo in faccia, capii che era successo qualcosa. Probabilmente avevano litigato. Per colpa mia? Mi si strinse il cuore nell'esatto momento in cui me ne resi conto e come per dare conferma a quel mio pensiero silenzioso, Ryan mi avvicinò ancora di più a sé.
“Mi dispiace. Non volevo. Non è giusto”.
Ma dalle mie labbra uscì fuori solo un “Ti amo”.
Come sempre non rispose. Nascose il viso fra i miei capelli e si addormentò. Lo imitai poco dopo, trasportata dal suo respiro regolare. Non sognai nulla, ma durante la notte, la sensazione di non poter afferrare l'ancora si fece più forte che mai.
Lo capii più tardi, svegliandomi ancora una volta sola: nella nostra fiaba, la strega cattiva ero io.
"In this California king bed
We're ten thousand miles apart
 California wishing on these stars
For your heart on me, my California king
My California king”.

Altre due sere, altre due occasioni sprecate. Lei civettava irrefrenabile. Ancora una volta non sopportavo più la sua voce, più stridula ad ogni parola. Jude mi aspettava a casa. Le avevo promesso che sarei andato da lei. Non potevo mancare.
Lei continuava a parlare, mentre nella mia testa un solo pensiero svolazzava, impaziente di uscire fuori a scatenare la tempesta.
“Adesso la lascio. Ora glielo dico. E' il momento”, ma il resto del corpo non collaborava. Le labbra non si muovevano. I polmoni si erano svuotati. La lingua non articolava nessuna parola sensata.
Presi un paio di respiri profondi. Dovevo concentrarmi. Chiusi gli occhi e schiarii la gola.
«Senti...».
Lei si voltò, sconcertata dal fatto che l'avessi interrotta. Come potevo avere qualcosa di così importante da dire da impedirle di finire il suo discorso?
«Sì?». Ma quanto era stridula la sua voce?
«Io... Io...». Lei continuava a guardare, gli occhi sgranati, circondati dalle ciglia appesantite dal mascara. Avrebbe pianto. Il trucco le sarebbe colato per le guance ed avrebbe trasformato il suo viso in una maschera orripilante.
«Tu?».
«Sono stanco. Torniamo a casa».
Non ce l'avevo fatta. Aveva ragione Dave. Non c'ero riuscito quella sera e non ci sarei riuscito mai. La lasciai a casa e corsi da Jude. I sensi di colpa mi tormentavano.
Le luci erano tutte spente. Aprii la porta cercando di ridurre il rumore al minimo. In cucina non c'era. In compenso la tavola era ancora apparecchiata per due. Le candele, con le punte sciolte, avevano un qualcosa di sinistro così com'erano rimaste, sospese in un tempo senza fine.
Percorsi il corridoio fino alla camera da letto. I passi rimbombavano a causa del silenzio. Sbirciai dentro e lei era lì, raggomitolata nelle coperte. La raggiunsi e mi coricai accanto a lei.
«Jude». Non avevo più nemmeno il diritto di chiamarla 'piccola' o con qualunque altro dolce soprannome come si fa tra innamorati. Ero un codardo, nessuna remissione di peccato.
Lei sembrò accorgersene e la strinsi più forte. Neanche il suo 'Ti amo' appena sussurrato riuscì a rasserenarmi. Non me lo meritavo. Non meritavo nemmeno lei. Era quella la verità. Ma era lì lo stesso, in qualche modo mi amava e mi avrebbe reso migliore. Solo questo pensiero mi calmò e, nascosta la faccia tra i suoi capelli, mi addormentai.
Alle prime luci dell'alba sgattaiolai via, dopo averle posato un bacio sulla fronte. Non doveva vedermi nessuno.
Arrivato in centro, mi fermai in un bar a prendere un caffè. Avevo la faccia pesta e mi sentivo uno straccio. Nell'attesa, qualcuno mi tirò una pacca sulla spalla. Voltandomi, mi trovai davanti un vecchio amico della palestra. Non lo vedevo da un pezzo. Era straordinariamente sveglio. Come diavolo faceva a quell'ora?
Si mise a parlare del più e del meno. Rispondevo a cenni, il minimo indispensabile per sembrare educato. Poi la bomba.
«Ehy, a proposito, carina la tua nuova ragazza!».
Lo guardai con l'aria più interrogativa che il sonno mi permettesse.
«Che nuova ragazza?».
«La brunetta, quella che è venuta a raccoglierti quella sera al bar».
Cazzo.
“In this California king bed
we're ten thousand miles apart”.


Chiedo scusa per il ritardo. Il prossimo capitolo sarà l'ultimo di questa seconda parte. Sto già lavorando ai prossimi. Spero di ritrovarvi tutti e di tornare prima di Natale da voi.
Un abbraccio grande a tutti!
S.

P.S. Mi sono appena accorta che hanno cambiato il programma per l'html. Di conseguenza devo discolparmi da qualunque castroneria di impaginazione troverete. Baci!
   
 
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