Note
della
traduttrice: buonasera
a tutti <3 Come ormai sapranno quelli che mi conoscono meglio,
ho un’insana
passione per le storie che raccontano il difficile rapporto dei
fratelli Holmes
e a mio parere questa è una delle più belle mai
scritte nel fandom inglese.
Ovviamente
l’originale è mille volte meglio sotto tutti i
punti di vista, quindi vi
incoraggio caldamente a leggerla <3
Infiniti
ringraziamenti a Yoko Hogawa che
è
stata disponibilissima e ha fatto un lavoro di betatura superbo.
Spero
vi piaccia. :*
presentazione
~
Tutta
la villa è invasa da gente, così tanta gente,
troppa gente, davvero troppa,
simile a formiche per numero e stolido movimento. Sherlock si
è barricato nella
sua stanza per evitarla, e sta beatamente conducendo senza dubbio
esperimenti
su qualunque sfortunato piccolo animale gli si sia parato davanti
durante la
giornata, il suo comportamento liquidato come “capriccio
infantile”.
Mycroft
non ha nessuna scusa di questo tipo da usare a suo favore, e quindi si
ritrova
di fianco a sua madre nel salone principale, le dita ormai insensibili
per il
numero di strette di mano cui si è dovuto sottoporre. La
conversazione è
stupida e noiosa, e presto si ritrova a sciorinare le parole
automaticamente –
“Ma davvero, oh che cosa terribile… Sì,
Oxford, appena arriva l’autunno…
Congratulazioni, di cuore, di cuore…”
Recita
la parte del giovanotto garbato più che bene, considerate le
circostanze.
Le
cose non fanno altro che peggiorare man mano che la serata prosegue.
Sono quasi
le nove meno un quarto quando una voce eterea si spande per la stanza.
“Mycroft,
tesoro.” Sua madre gli viene incontro con un suono
tintinnante, lasciando
dietro di sé una scia di profumo alla lavanda.
“Mycroft, perché non ci suoni
qualcosa al piano?”
Tutto
intorno risuonano risatine entusiaste. Poco dopo, una mano dalle unghie
lunghe,
simile a quella di un fantasma, si appoggia in fondo alla schiena di
Mycroft e
lui viene rigidamente guidato allo strumento. Non ha scelta. Non ha mai
scelta.
Il
dovere chiama.
“Certo,
mamma,” si sente rispondere. Qualunque
cosa per te.
La
stanza è fin troppo illuminata, il lampadario spande un
accecante lucore giallo
che rimbalza sui flutes riempiti di champagne e sui gioielli pacchiani
di cui
tutte le donne sono ricoperte. Tutto è in ordine e tutto
è pulito e tutto ha attaccato
sopra un cartellino col prezzo.
Si
siede sulla panchetta e la fa finita più presto che
può, eseguendo
meccanicamente Bach – formulare, educato, sì, alla
gente piacerà – più un
incontro di lavoro che un prodotto d’arte.
C’è
un’enorme differenza fra il suonare per dovere e il suonare
sotto la spinta
della passione.
Ultimo
accordo. In piedi. Inchino. Prima di compiere una frettolosa ritirata davanti al cortese,
tiepido applauso
del pubblico.
“Ragazzo
curioso,” sente dire a qualcuno mentre lascia la sala.
“Chissà cosa ne sarà di
lui”.
Le
loro risate tintinnano.
Mycroft
si dirige dritto alla porta di Sherlock non appena riesce a sfuggire
alla
folla, una parte di lui in cerca di solidarietà e
un’altra parte semplicemente
preoccupata. Si stupisce quando non la trova chiusa a chiave e quindi
entra
nella stanza, facendosi strada fra il labirinto di vestiti gettati a
terra ed
esperimenti lasciati a metà, fino a trovare suo fratello
raggomitolato sul
davanzale, la notte calda che sguscia dentro dalle persiane spalancate.
“Sapevo
che ti saresti fatto vedere,” dice Sherlock, tutto saccente e
pomposo. Tiene in
equilibrio sulle dita sottili e pallide, quasi in punta di esse, un
bicchiere pieno
per metà del miglior sherry della casa. La mano di Mycroft
scatta in avanti e
gli toglie il bicchiere, prima di versare il liquido fuori dalla
finestra.
“Hai
dieci anni, Sherlock,” dice, gentile e furibondo a un tempo.
“Dieci”.
“Lo
so. Non è adorabile?” Sherlock lo guarda.
“Hai suonato Bach. Che scelta
raffinata, da parte tua”. Si volta, il pallido collo bianco
lungo e splendente
alla luce della luna. È sempre stato un bambino
così bello. Le persone che lo
incontravano per la prima volta tendevano a immaginarselo fragile.
Leggero ed
esile, come la loro madre.
Mycroft
sospira. “Il prossimo armadietto che saccheggerai
sarà quello dei sigari,
immagino”.
“Cosa
ti fa pensare che non l’abbia già fatto?”
“Oh,
so bene che non l’hai fatto”.
Le
sopracciglia di Sherlock si impennano. “Solo
perché tu
l’hai già fatto. Avevo l’impressione che
sapessi distintamente
di Cubano giovedì scorso,” dice, ridendo per la
propria intelligenza. È a piedi
nudi e ne ha uno penzoloni, gli angoli addolciti dalla luce.
“Perché hai scelto
la partita?”
“Era
la prima cosa che mi è venuta in mente. Puzzi di sherry.
Quanto ne hai bevuto?
Era il tuo primo bicchiere quello che ho buttato fuori dalla
finestra?”
Sherlock
non risponde. Si limita ad appoggiare la testa alla finestra e a
sospirare.
“Sentili,” dice, indicando pigramente i frammenti
di educata conversazione e
risatine leggere che provengono dal piano di sotto. “Sentili,
quanto sono
terribilmente noiosi”.
Mycroft
Holmes ha diciassette anni ed è troppo intelligente per il
suo stesso bene. Ha
un paio di mani sufficientemente affusolate, l’unico
attributo fisico che sia
riuscito ad ereditare dalla propria madre, ma il resto di lui sta
cominciando a
gonfiarsi contro le cuciture. Non gliene importa poi molto. Lui
è quello che è.
È
suo fratello quello con l’energia illimitata.
“Io
avrei suonato Scriabin,” sbotta Sherlock. Tira fuori la
lingua e la spinge
contro il naso. “Li avrei fatti andare tutti in
bestia”.
“Sì.
Sì, l’avresti fatto”.
Le
labbra di Sherlock si arricciano in un sorriso petulante mentre alza le
braccia
e ride vittorioso.
~
La
osserva osservare Sherlock, i suoi occhi che sbirciano oltre il libro
per
guardare sua madre alla finestra, metà del viso illuminato
dal sole e metà
immerso in un’ombra polverosa.
“Perché
è così selvaggio?” dice piano. Mycroft
riesce a udire grida indistinte da
fuori, il povero giardiniere rimasto intrappolato ancora una volta,
vittima di
una delle peggiori scenate di Sherlock. Il clima è caldo e
lui è giovane e
capriccioso.
“Posso
solo immaginarlo”, dice Mycroft, leccandosi un dito e
voltando rumorosamente
pagina.
“Tu
non sei mai stato così da bambino”.
“Sì,
beh, non sono lui”.
La
madre di Mycroft sorride amorosamente a questa risposta, ma i suoi
occhi sono
ancora fissi sul suo figlio più piccolo. Vi è
sempre un particolare calore in
lei quando lo guarda, una soddisfazione che
almeno uno di loro è riuscito ad estorcerle al posto del
semplice
compiacimento per
diventare selvaggio e
completamente indomabile.
“No,
non lo sei, vero?” sussurra.
Mycroft
ritorna alla sua lettura.
~
La
notte in cui compie diciott’anni, va giù al loro
bungalow con una bottiglia di
Bordeaux per mano e apre il lucchetto. La luna è alta e
piena, l’aria è calda,
è estate, è meraviglioso.
Tutti
se ne sono scordati. O, nel caso di Sherlock, hanno finto di
scordarsene.
Per
lui è lo stesso, comunque.
C’è
un piano, relegato in un angolo, un Cristofori vecchio come il cucco i
cui
tasti sono gialli per l’età e che odora di legno
dolce e che è sempiternamente
scordato. Mycroft chiude la porta dietro di sé, appoggia le
bottiglie sul
piano, tira fuori una candela dalla sua tasca sinistra e un fiammifero
dalla
sua tasca destra. Lo accende. Accende la candela. Lo poggia a terra.
L’obbiettivo
è sbronzarsi. Tanto vale farlo in grande stile.
POP
fa il tappo mentre viene tolto, e il profumo di vino a poco prezzo si
spande
nell’aria. È di un’annata mediocre, sin
troppo dolce per i gusti di Mycroft, ma
si dice che una volta che ne avrà mandato giù
abbastanza non farà poi questa
gran differenza. Ne prende un lungo sorso direttamente dalla bottiglia
e si
siede sulla panchetta, lo sguardo fisso sui tasti come se custodissero
la
risposta a ogni cosa.
Si.
Sol diesis. La, si, re diesis, mi…
“Opera
sessantadue, numero due,” annuncia piattamente Mycroft a
nessuno in
particolare. Un altro sorso di vino. Non si è mai ubriacato
prima di quel
momento, ma ha sentito dire che fa miracoli per quanto riguarda il
dimenticarsi
del peggio in sé stessi. La testa prende a girargli,
continuando a tornare sull’esatto
particolare di un polso pallido e ossuto o di un occhio chiarissimo e
incolore,
o sull’eco di un urlo tremulo. Pensare a Sherlock scava un
gelido buco nel
petto di Mycroft; questo, aggiunto all’inutile, terribile
bramosia di musica e
al bruciore dell’alcool lungo la sua gola, è
abbastanza per farlo gemere
udibilmente.
E
poi:
Sibilo.
“Cosa
stai facendo?”
Mycroft
si alza e abbassa la copertura del piano. “Potrei chiederti
la stessa cosa,
fratellino”.
Sherlock
sguscia fuori dall’ombra, compiaciuto come sempre.
“Quello è Bordeaux? La mamma
si arrabbierà parecchio con te, Mycroft”.
L’ombra ricade su di lui, lo affila,
lo fa apparire ben più vecchio di quanto sia in
realtà.
“Per
cortesia, vattene, Sherlock”.
Come
sempre, come al solito, Sherlock non lo ascolta. “Almeno
dammene un po’”, dice
secco, indicando il vino.
C’è
qualcosa di profondamente inquietante riguardo la fascinazione che
prova per le
sostanze inebrianti.
“Dovresti
essere a letto”.
“Anche tu”.
Sherlock solleva di
nuovo la copertura del piano e suona il la alto, ancora e ancora, ting, ting, ting, ting, ting.
“Quanto
sei patetico,” dice, “a trascorrere il tuo
compleanno così”.
Mycroft
è zitto e paziente. Lascia che Sherlock giochi con il
Cristofori ancora per un
po’, le manine che sfrecciano lungo il registro
più alto, le quali
un momento prima suonano un
frammento di Gershwin, quello
dopo un’atonalità senza senso, le
ossa
delle sue mani così piccole da poter essere paragonate a
quelle delle ali degli
uccelli.
Finisce
con una presa in giro della quarta di Beethoven, poi si alza e si
stringe nelle
spalle. “Che noia,” dice. “Preferisco
molto di più il violino”.
“Ah,
ne sono sicuro,” sospira Mycroft, la mascella che gli duole
per la frustrazione
e per un’unica, particolare forma di rabbia che viene
scatenata solo da
Sherlock. Si sporge e afferra le bottiglie di vino, facendo segno verso
la
porta. “Dai, su. Andiamo via”.
Sherlock
sorride sfacciato e sfreccia fuori, sul prato.
Mycroft
spegne la candela e lo segue dopo poco.
La
mattina dopo, il giardiniere trova le due bottiglie di Bordeaux
sull’erba.
Vuote.
~
Non
capita spesso, questa cosa delle fughe. Una volta ogni qualche mese,
forse,
anche se loro madre preferisce chiamarle
“spedizioni”.
Sherlock
è allegro, triste, infelice, euforico…
È tutto questo, e ancora di più. E
qualche volta, quel suo lineare, ostinato, portentoso cervello vede una
sola
via di fuga e la prende.
Il
vento si è tramutato in un violento urlo. I boschi che
circondano le loro
consistenti proprietà diventano inquietanti di notte. Una
sorta di ideale
scenografia per foschi romanzi gotici e storie dell’orrore.
Mycroft si fa
strada fra gli alberi, il suolo bagnato che gli imbratta le galosce, il
suo
ricco, organico odore intenso nell’aria.
Foglie
bagnate. Rami bagnati. Torcia bagnata.
Non
si prende il disturbo di gridare. Sherlock non verrebbe da lui, anche
se lo
facesse. No, no.
Mycroft
si ferma e sospira e si deterge il viso col dorso della sua mano,
spalmando
l’acqua sulle sopracciglia e via dagli occhi. Dirige la
torcia verso l’alto e
lascia che il fascio di luce illumini una colonna di gocce di pioggia,
che
prenda il volo verso le spesse nuvole sopra di lui.
Schiocco.
Crepitìo.
“Mio
caro ragazzo. Eccoti”.
Si
sente un umido tirar su col naso. Sherlock se ne sta sotto un albero
lontano
con un ombrello sopra la propria testa. Le guance bagnate, scontroso,
coperto
di fango, sporco, un graffio sulla guancia da cui cola un sottile
rivoletto di
sangue. Mycroft gli fa segno di alzarsi. “Vieni,
dai,” gli dice.
“No”.
“Ascolta,
Sherlock, per me fa lo stesso che tu stia qui o venga con me, ma la
mamma sta
cominciando a preoccuparsi e come risultato ha posticipato la
cena”. Mycroft
alza un sopracciglio. “Sai quanto detesto saltare i
pasti”.
Un altro tirar su col naso. Sherlock si fa più vicino,
lasciando che la sua
figura sporca di terra venga illuminata dalla torcia. “Lo
odio, a casa,”
dichiara con ferocia, con un brusco agitarsi dei suoi capelli bagnati.
“È
noioso e ho finito le cose da fare”.
“Oh,
sono completamente d’accordo. Ma penso anche che la noia sia
preferibile al
morire di polmonite; non credi?”
Sherlock
sporge le labbra. “No,” sbotta,
l’onestà nella sua voce snervante.
Mycroft
fa un passo in avanti e passa un braccio attorno alle spalle di
Sherlock,
accucciandosi sotto l’inutile ombrello. Riesce a sentire il
corpo magro sotto
il suo braccio irrigidirsi e tentare di scuoterlo via, ma Sherlock ha
bisogno
del calore di un altro corpo, l’orgoglio può
andare all’inferno.
“Non
intenderai seriamente portarmi a casa così,” mette
in chiaro. La luce di un
lampo gli illumina il viso, rendendo effervescente il suo cipiglio
torvo. “Ho
pensato di uccidermi prima di oggi; ti spaventa?” continua
Sherlock, provando
di nuovo a divincolarsi. “L’ho quasi fatto una
volta, con un coltello. E poi
c’è stata quell’altra volta con la
sciarpa della mamma in soffitta”.
La
risposta di Mycroft è non rispondere affatto.
“Scommetto
che vuoi sapere perché.” Sherlock suona
così soddisfatto di sé. Mycroft scuote
la testa. Lo sa già.
Il
viso di Sherlock è furioso ma i suoi occhi stanno
supplicando per una ragione,
una ragione qualsiasi, che gli permetta di continuare a parlare.
Un
altro tentativo di fuga e Mycroft affonda le sue unghie nel braccio di
Sherlock. Il dolore va bene. Questo dolore è niente
paragonato a quello che sa
che suo fratello si infligge ogni giorno. Quello che Sherlock soffre
tra
attacchi di frenetica attività e rabbia selvaggia, Mycroft
lo soffre in solitario
silenzio.
Il
lampo taglia nuovamente il cielo in frammenti, e decisa,
così decisa, la
pioggia viene giù.
~
La
mattina è nebbiosa e assolutamente splendida,
l’erba ancora coperta di rugiada,
gli alberi che cominciano a diventare dorati.
Mycroft
impacchetta da solo le sue cose e le porta giù nella sala
principale. Bacia sua
madre sulle guance.
“Sì,
sì,” dice lei. “Fa’ il bravo.
Hai salutato tuo fratello?”
Non
l’ha fatto. Glielo comunica. Lei fa una smorfia e dice,
“Oh,” e ricaccia
Mycroft su per le scale, in camera
di Sherlock.
Il
ragazzo è spaparanzato sul letto, e sfoglia svogliatamente
un gigantesco volume
appoggiato sul suo cuscino. Nel momento in cui Mycroft entra dalla
porta,
emette un piccolo verso di gola e alza gli occhi al cielo.
“Arrivederci,
allora,” dice Mycroft.
“Hm”.
“Sarò
di ritorno per le vacanze invernali”-
“Che
m’importa”.
Mycroft
non si aspettava che gli importasse. Annuisce e si volta, percorre
tutto il
corridoio, tutte le scale, tutto il vialetto di ghiaia. Sale nella
macchina che
lo sta aspettando.
Non
si guarda indietro.
Ma
se l’avesse fatto… Se si fosse preso il tempo di
voltare la testa solo un
pochino e gettare uno sguardo alla finestra della villa in alto a
destra…
Avrebbe
visto lo spicchio di una faccia pallida e indagatrice, mentre sbirciava
da
dietro le tende e osservava la propria àncora andarsene via.
~
È
tardo autunno ad Oxford, che è un’isola in
sé stessa e per sé stessa,
accademica e riparata. È tardo autunno e non ci sono
piccoli, feroci fratelli a
trascinarlo via da lì. È tardo autunno e si
ritrova a stringere la mano di
Figli Di Gente Importante In Posti Importanti, a creare legami, a
formare
alleanze. Nel mondo al quale Mycroft si sforza di appartenere, non ci
sono cose
come gli amici.
“Vuoi
stare sotto i riflettori, vero?”
Non
l’avrebbe messa in una maniera così superficiale,
ma sì.
“Penso
che tu abbia una possibilità. Sì, penso che tu ce
l’abbia”.
Davvero,
davvero, loro pensano che lui ce l’abbia.
~
Alla
fine del suo terzo anno,
quando
la primavera ha finalmente cominciato ad avanzare con aplomb e Oxford
si è vestita
di un verde affusolato, Mycroft riceve una lettera.
Un’offerta.
Ma
non il tipo di offerta che ha sempre voluto. Previsto, persino.
…abbiamo
notato
che Lei possiede determinate abilità che si potrebbero
dimostrare utili…
…attività
sovversive…
…interessati…
Tre
giorni dopo, si ritrova seduto in un bar, gli occhi fissi su una tazza
di tè
freddo e amaro mentre l’uomo scarno che gli sta davanti gli
fornisce dettagli
sul suo impiego. “Ha mostrato una
predilezione
per il ruolo di qualcuno piuttosto bravo nell’esercitare una
forma più discreta
di controllo,” dice l’uomo dolcemente.
“C’è richiesta per questo tipo di
cose”.
“Davvero”.
“Davvero.
Ho sentito spesso dire che il miglior burattinaio è quello
che non viene visto
da nessuno; lei è d’accordo?”
Mycroft,
a questo, si sporge in avanti. “Potrei.”
“È
meglio che le dica, in ogni caso…” e qui,
l’uomo gli offre un sorriso triste– “Non
leggerà mai il suo nome sui giornali. Quasi certamente non
terrà mai discorsi
in Parlamento. Non lo farà certo per la gloria”.
“E
per cosa lo farò, dunque?”
“Beh,
per l’Inghilterra, ovviamente. Abbiamo tutti un dovere verso
il nostro paese,
alla fin fine.” Un altro sorriso, questa volta molto
più luminoso. “Se tutto
questo non fosse sufficiente, comunque, vi è anche una certa
quantità di potere
compresa nel prezzo”.
Dovere.
Potere.
Mycroft
dice che ci penserà, che per lui equivale a un sì.
~
La
fine dell’inverno:
Quando
i tetti si incurvano per il peso della neve e le strade brillano di
ghiaccio e
Sherlock Holmes si arrampica alla finestra del dormitorio di Mycroft
come se fosse
il posto nel mondo più adatto a lui.
“Cosa
ti hanno detto i tuoi professori per farti arrabbiare,
stavolta?” chiede
Mycroft, cacciando una tazza di tè bollente nelle mani
pallide e tremanti del
fratello, solo per vederla scagliata a terra con violenza.
“Sta’
zitto,” sibila Sherlock. “Sta’ zitto e
dimmi la verità. Ti è stato offerto un
posto, vero? Non c’è nessun’altra
ragione che spieghi il tuo non aver chiamato
a casa per tre settimane. Chi è? L’MI5?”
“Non
essere ridicolo,” lo sbeffeggia Mycroft. “Nulla di
così lontanamente vistoso.
Una posizione minore nel governo inglese”.
“Sì.
Sì, ci credo proprio”.
Vi
è una pausa, durante la quale Mycroft si piega e raccoglie
in silenzio la tazza
buttata a terra e la appoggia sul tavolo, lanciando
un’occhiata piena di
irritazione alle macchie per terra. “Dovresti dire alla mamma
dove sei,” dice.
“Sarà preoccupata”.
“La
mamma si preoccupa sempre. Niente di nuovo”.
“E
la tua scuola?”
“La
scuola può andarsene all’inferno”.
Mycroft
rilascia un lungo, stanco respiro d’aria stagnante.
“Mio caro ragazzo, devi
veramente smetterla di aspettarti che il resto del mondo si pieghi
davanti a
ogni tuo capriccio e stravaganza,” dice.
“Perché
non dovrebbe?” sputa Sherlock. “Sono meglio del
resto del mondo”.
Lentamente,
Microft piega il busto in avanti e dice, “No. Non lo sei.
Nessuno di noi lo è.
Non siamo ‘superiori a tutto’, Sherlock, noi ci
siamo proprio nel bel mezzo,
del tutto.” Aggrotta le sopracciglia. “Sei pur
sempre un essere umano”.
Sherlock
sogghigna e caccia le mani nelle tasche dei pantaloni. Un principino
con un
occhio fisso sul trono e l’altro sulle nuvole. La sua
espressione è cupa e Mycroft
la conosce sin troppo bene. “Sei solo geloso,” dice
Sherlock. “Perché io non ho
paura di essere me stesso e tu di paura di essere te stesso ne hai
troppa.”
Uno
strano, oscuro fremito scuote Mycroft dalla punta della sua testa fino
a quella
delle sue dita. Inghiotte e lo guarda. Inghiotte. E. Lo. Guarda.
“Essere
umani suona terribilmente noioso in ogni caso,” continua
Sherlock. “Cos’è
capace di fare la gente se non mangiare e cagare e fare sesso
l’uno con
l’altro-”
“Sherlock.”
“È
vero e tu lo sai”.
Lo
è, e lui lo sa, ma questo non impedisce che gli bruci lo
stesso.
Mycroft
sospira. “Ti do i soldi per l’autobus,
così puoi tornare a scuola e telefonare
alla mamma,” gli dice, dirigendosi verso la propria scrivania
e aprendo uno dei
tanti cassetti. “Sarà meglio che io non venga a
sapere che li hai spesi in
altre cose, Sherlock”.
Sigarette.
Materiali chimici pericolosi. E così via.
“Mmnh,”
mugugna vacuo Sherlock. Si butta sul letto di Mycroft, passando una
mano sulle
lenzuola per stropicciarle, prima di piegarsi in avanti e affondare il
naso
nella stoffa. Un breve sbuffo soddisfatto dopo e si stende, allungando
il suo
piccolo corpo magro su tutto il materasso.
“Non
penso che sarò mai capace di amare nessuno; tu pensi che ne
sarai mai capace?”
chiede al soffitto.
La
domanda in ogni caso è diretta a Mycroft, che non risponde.
Lascia i soldi
sulla credenza, la somma esatta, e osserva suo fratello fissare il
bianco
slavato del soffitto con un paio di occhi bianchi slavati.
Oh,
Sherlock è sempre stato bravo nel porre le domande giuste.
“Non
dire ancora alla mamma del lavoro, comunque,” dice Mycroft.
“Non le farà bene
saperlo”.
“Che
succede se glielo dico?”
“Mio
caro ragazzo, certe volte l’atto di commettere tradimento si
tramuta nella sua
stessa punizione”.
Sherlock si arrampica fuori
dalla finestra
dieci minuti dopo con le monete nel pugno e non una singola promessa
fatta.
Mycroft
non si aspettava nulla di diverso.
~
Sarah
Nedlin è un anno avanti a Mycroft e frequenta il suo corso
di matematica. Si
siede nel bel mezzo della prima fila, proprio dove il professore
può vederla,
proprio dove tutti posso vederla, e osservare i suoi capelli biondi
splendere
nella luce fluorescente e vedere le sue piccole mani veloci svolazzare
mentre
lei prende appunti.
A
quanto ne sa Mycroft, è brillante come lo può
essere una persona normale.
Distaccata e calcolatrice e arguta; la migliore specie disponibile per
testare
la piccola ipotesi di Mycroft.
La
raggiunge sul prato un venerdì pomeriggio e avvolge una mano
attorno al suo
braccio.
“Sai
chi sono, vero?”
“Certo
che lo so”.
“Bene,
vorrei chiederti una cosa”.
Le
spiega il suo piano. Nel mentre lei lo guarda con un paio di occhi seri
e castani,
e annuisce.
“La
situazione sarebbe accettabile per te?” le chiede.
Ci
mette due virgola cinquantatre secondi a formulare una risposta, e uno
virgola
zero tre secondi a dargliela. Nove minuti per raggiungere camera sua.
Tre ore e
quarantadue minuti e dodici secondi per copulare in tutti i modi
possibili ai
quali entrambi riescano a pensare così su due piedi.
Finiscono
e puliscono e si vestono bruscamente, prima che Sarah si avvicini e
stringa la
mano di Mycroft e dica, “Stessa ora settimana
prossima?”
Per
due mesi interi, fanno questo. Due mesi trascorsi a scoparsi
selvaggiamente
ogni venerdì pomeriggio alle tre.
Due
mesi e ancora tutto quello che Mycroft riesce a pensare guardandola
è: un metro
e sessantacinque di femmina umana, curvilinea, bionda e con gli occhi
castani,
che incidentalmente si ritrova ad avere un nome.
Lui
se la gode, ovviamente. Ha l’impressione che se la goda anche
lei.
Il
tutto se ne va a puttane, comunque, quando lei un giorno si tira su e
invece di
pulirsi e vestirsi bruscamente e stringergli la mano, gli chiede se gli
piacerebbe fare un giro e bere qualcosa con lei il pomeriggio
successivo.
Ed
è in quel momento che se ne rende conto. È in
quel momento che il suo cervello
lo costringe a realizzare che il piccolo Sherlock aveva ragione.
Ci
mette tre virgola nove secondi a formulare la sua risposta e meno di
uno per
dargliela. Diciotto secondi è quello che ci mette lei a
vestirsi e a marciare
fuori dalla porta. Dodici ore è quello che ci mette lui per
cancellare la
sensazione del corpo
di lei da sé
stesso.
Sherlock
intuisce tutto durante la cena di Natale, quando la famiglia
è seduta al lungo,
formale tavolo e la loro madre gli chiede in una maniera
così candida, “Niente
di nuovo all’università, Mycroft?”
Mycroft
risponde con l’usuale tiritera di bugie, questo, quello, i
corsi sono stupendi
e i professori sono fantastici. Sherlock lo osserva parlare
dall’altra parte
del tavolo, uno sguardo predatorio negli occhi mentre si porta un altro
boccone
di tacchino alla bocca.
Non
dice una parola. Non ne ha bisogno.
Più
tardi quella sera scivola accanto a Mycroft con un sogghigno sul viso e
gli
sussurra a un volume quasi inudibile, “Te l’avevo
detto.”
Cinque
minuti dopo sua madre sa tutto e sta piagendo silenziosamente
chiedendogli
perché, perché buttare via la sua vita lavorando
per il governo fra tutte le
cose, oh, deve proprio seguire le orme di suo padre.
La
ascolta piangere con la mente per metà altrove.
L’altra metà è fissa sullo spicchio
di pelle pallida che lo sta guardando da dietro la porta, sorridendo e
arrossendo di piacere per la vittoria.
sviluppo
~
L’ufficio
in cui lavora è all’antica, con pannelli di legno
e poltrone di pelle e copie
esemplari di dipinti fatti da Stubbs appese ai muri.
A Mycroft è stato affidato un assistente quattro mesi dopo
la sua assunzione. Aiden
Pawn ha la sua stessa età, non è
nemmeno
lontanamente brillante quanto lui, ed è nel complesso troppo
allegro, tutto
preso a scodizolare dietro a Mycroft con tanta patetica persistenza da
divenire
niente meno che una distrazione.
“Ecco,
signor Holmes, abbiamo un buco alle quattro di questo pomeriggio, e
hanno
appena aperto questo nuovo ristorante dietro
l’angolo-”
Mycroft
sospira e lascia scivolare con calma i fogli che tiene in mano sulla
scrivania.
“Signor Pawn,” dice secco, tirando fuori la sua
voce più aspra, “Lei è un
membro del mio staff, non un mio…
‘amichetto’. Ritorni cortesemente alla sua
scrivania”.
Pawn
resiste fino all’anno successivo, quel suo stupido sorriso
che non gli
abbandona la faccia neanche per un attimo.
Poi un giorno Mycroft appoggia una cartelletta sulla sua scrivania e
dice, “Pensaci
tu” e
Pawn da’
un’occhiata e dice che non può farlo e Mycroft gli
chiede perchè.
“Non
è giusto,” è la risposta del ridicolo
idiota. “Io non… ucciderò queste
persone!”
“Lei
lo farà e lo farà in maniera veloce, silenziosa
ed efficiente. È il suo lavoro,
signor Pawn.” Mycroft alza le sopracciglia. “E se
lei non ottempererà ai suoi
doveri, io troverò qualcun altro che lo
farà”.
E
fa proprio questo.
Non
vi è semplicemente il tempo né il luogo per
discutere di morale.
Capite?
~
Sherlock
ha vent’anni quando Mycroft comincia a farlo seguire. Cose
innocenti, davvero –
persiste ancora con quella sua ridicola dipendenza da droga? Prosegue
bene i
suoi studi?
Di
giorno si siede nel suo ufficio e tira i fili con i quali controlla il
mondo. Di
notte si raggomitola di fronte alla schiera di telecamere CCTV e
osserva in
silenzio la vita di suo fratello.
Quattro
novembre: si procura della cocaina in un viale a tre isolati
dall’università.
Dodici
novembre: salta l’esame di chimica per condurre un suo
esperimento sui cadaveri
della facoltà di medicina.
Venti
novembre: viene morso da un bulldog. Litiga con il proprietario. Viene
portato
all’ospedale.
Venticinque
novembre: va fuori a prendere un drink con il proprietario del bulldog.
Ventisei novembre: idem.
Ventisette
novembre: idem
Ventotto
novembre: idem.
Victor Trevor è più grande di Sherlock di due
anni, ha i capelli biondi e un
gran cuore ed è pieno di vibrante energia.
Mycroft
si ritrova a osservare in silenzio i due giovani uomini cacciarsi in
una
miriade di situazioni che chiunque difficilmente riterrebbe decorose,
ma loro
si piacciono, si, loro si godono la rispettiva compagnia.
Dieci
dicembre: scompare con V.T. dietro al pub. Ritorna con lui al suo
dormitorio.
Non ne emerge che al mattino.
Dodici
dicembre: viene invitato nella residenza della famiglia di V.T. a
Donnithorpe,
Norfolk.
Mycroft
rifiuta di permettere a se
stesso di essere felice per Sherlock.
Finirà,
queste cose finiscono sempre.
Al
primo dell’anno, Sherlock è di nuovo solo e
più amaro che mai. É
quello che succede a testare su
sè stessi le proprie ipotesi; è il
risultato di un ragazzo determinato a scoprire in quanti modi
è capace di
farsi del male.
~
La
telefonata arriva alle due e quarantatre del mattino, la voce di sua
madre terrorizzata
e sul filo dell’isteria all’altro capo
dell’apparecchio mentre snocciola
piangendo rumorosamente una sequela di inutili dettagli. Mycroft si
ritrova a
vestirsi senza accorgersene mentre cerca di calmarla.
Ora
è in mezzo alla strada, a metà di gennaio,
nientemeno, con le mani nelle tasche
e gli occhi fissi sul palazzo di fronte a lui, odiandosi e odiando suo
fratello
con ogni fibra del proprio essere. Odia Sherlock, lo odia per aver
lasciato
l’università, per aver ridotto i nervi della loro
madre a pezzi, per essere
diventato quello che è, per essere brillante oltre ogni
limite e per essere selvaggiamente
bello e per il semplice fatto di essere nato.
Emette
un cupo e pesante sospiro, prima di fare un passo in avanti e suonare
il
campanello.
Sherlock
risponde in esattamente ventidue secondi. Alto, magro, traslucido.
Morto di
fame. Fatto. Una sigaretta in mano. Maniche rimboccate, con tutti i
fori degli
aghi in bella vista in modo che il mondo se ne accorga; non ha nessuna
vergogna, ma come ci riesce a non averla.
Sullo
sfondo si ode la marcia funebre di Beethoven. Tipico di Sherlock,
così
melodrammatico. Mycroft lo osserva, lo osserva da capo a piedi.
“Vedo che ti
sei preso cura di te stesso,” dice, la voce tronca.
“Fuori
dai coglioni”.
“Sherlock,
chiama la mamma. È preoccupata.”
Una
mano pallida e ossuta si alza, scorre attraverso quel garbuglio di
capelli
scuri. “Domani mattina,” mormora.
“È
già domani mattina, Sherlock. Quand’è
stata l’ultima volta che hai mangiato?”
Una
scrollata di spalle.
“Sai
che giorno è?” lo interroga Mycroft.
Un’altra
scrollata di spalle.
“Ragazzo
mio-”
“Smettila, Mycroft,” geme
Sherlock. “Solo… Vattene?
Per favore? Non hai un lavoro o qualcosa del genere?”
“Perché
fai questo a te stesso?” La domanda è gentile e
buona, genuina, onesta. Se solo
le intenzioni che ci sono dietro lo fossero altrettanto.
E
Sherlock questo riesce a capirlo. Oh, se riesce a capirlo.
Si
vede un duro, aspro ghigno derisorio prima che la porta venga sbattuta
in
faccia a Mycroft, tagliando fuori la marcia funebre proprio mentre
raggiunge il
suo picco più tetro. Il vento si alza, più
violento che mai. Montague Street
assume un’apparenza diabolica a quest’ora della
notte. Mycroft si alza il
bavero e percorre solennemente all’indietro la strada, un
braccio alzato mentre
prova a fermare un taxi, furioso con sè stesso persino per
aver finto che gli
importasse qualcosa.
~
“Dov’é?”
Sua
madre è già un cadavere, eterea e quasi senza
peso, trattenuta da un ultimo,
persistente filo. Mycroft se ne sta ai piedi del suo letto
d’ospedale con le
mani raccolte una sopra l’altra e la guarda cupo.
“A Londra, mamma,” risponde.
“Ho
bisogno di parlare con lui. É importante.”
“Abbiamo
provato a contattarlo.” La osserva sbattere le palpebre,
stordita, ascolta il
monotono blip del monitor e il debole gocciolare della sua flebo. Lei
respira
bruscamente e scuote la testa.
“Hai
cercato giù al ruscello?” sussurra. “O
nel boschetto dei sicomori, gli piace
tanto giocare là.”
“Mamma”.
“Mycroft,
vammi a prendere tuo fratello, è… Lo voglio
vedere.”
La
sua mano volteggia in aria, afferrando il vuoto, cercando un esile,
pallido
bambino di dieci anni e fallendo miseramente. Mycroft si fa
più vicino, allunga
la mano, le prende le dita e cerca di mantenere la presa, solo per
essere
respinto con rabbia.
“Tuo
fratello. È imperativo… Oh, perchè voi
due dovete litigare così tanto.”
Beep.
Beep.
Se
solo la cara donna sapesse che è arrivata dieci anni e un
figlio troppo tardi.
Sospira
stancamente e chiude gli occhi.
~
Sherlock
non va al funerale.
È
un dato significativo dello stato del loro rapporto, il fatto che
Mycroft non
ne sia nemmeno lontanamente sorpreso.
Suonano
Elgar mentre calano il corpo sottoterra, il freddo ululare di un
violoncello
gutturale e pesante come l’argilla al di sotto, e Mycroft non
si disturba
neanche a dire addio.
~
Le
infermiere sono più che solamente perplesse mentre lo
guardano avanzare con
fare stanco nel Reparto di Terapia Intensiva e abbassarsi sul banco
d’accettazione
con un’espressione irritata sul volto.
“Allora?”
grugnisce. “Che si è fatto stavolta?”
La
ragazza lo fissa con i suoi occhi grandi e piatti e balbetta,
“Lui… Suo
fratello ha rischiato di morire, signor Holmes. È un
miracolo che sia-”
“Sì,
sì. Che cos’era? Eroina?”
“Io…
No, morfina.”
Sciocco.
“…segnalato
come parente più prossimo. Ha premuto molto
perché la chiamassimo.”
È
il turno di Mycroft di essere sorpreso. Irrigidisce i lineamenti,
comunque, e
picchia la punta dell’ombrello contro le piastrelle del
pavimento. “Molto bene.
Posso vederlo?”
Viene
condotto lungo corridoi di un bianco slavato, l’odore di
antisettico che vibra
nelle sue narici. Riesce a distinguere migliaia di altri odori, tra i
quali sangue,
vomito e alcool spiccano particolarmente.
“Eccolo.”
Pallido
come non mai e mortalmente freddo. Mycroft ascolta
l’infermiera fare click
clack mentre se ne torna da dove sono venuti. Osserva suo fratello per
un
lungo, ostinato momento, notando i buchi degli aghi risaltare lividi e
rossi
contro la pelle bianca e altrimenti intonsa. Sherlock sembra niente
meno che in
pace; la sua fronte è in ombra, gli occhi infossati. Fragile
in apparenza come
lo sembrava quando non aveva che dieci anni. Mycroft ricorda un bambino
coperto
di fango nei boschi, che blaterava di volersi uccidere, e rabbrividisce.
Se
solo la loro madre potesse vedere com’è ora.
Un
lungo, sfinito sospiro e dopo gira i tacchi e se ne va.
“Non
resta con lui?” gli viene chiesto mentre esce.
“Vorrà vederla quando si
sveglierà.”
“No.
Non vorrà.”
“Dovrebbe
pensare ad inserirlo in un programma di disintossicazione, signor
Holmes. Comunque
vadano le cose avrà-”
Mycroft
si volta, gli occhi che si induriscono fino a raggiungere
l’aspetto
dell’acciaio lavorato. “Lei non viene a dirmi come
trattare la mia famiglia,”
dice, lento, gelido. “É mio fratello e mi
occuperò di lui nella maniera che considererò
più opportuna, e non in quella decisa dai capricci di una
sciocca infermierina
che ha una relazione con un suo superiore sposato, il quale,
già che ci siamo,
non ha alcuna intenzione di lasciare sua moglie da qui a
poco.”
Quindi è così che si sente Sherlock ogni volta,
riflette fra sé e sé mentre la
guarda fuggire via trattenendo le lacrime. Un malato senso di
soddisfazione si attorciglia
attorno al suo stomaco e rifiuta di andarsene.
Lo
ingoia e cammina bruscamente a passo di marcia fuori dalla porta.
Rimedierà
a tutto questo; lo fa sempre.
~
“Sia
onesto con me, Detective Lestrade. Quanto è grave?”
Il
poliziotto mostra ancora segni di shock. Giocherella con un posacenere
sul
tavolo, che contiene i resti fumanti di due sigarette fumate
rapidamente, e
Mycroft riesce a vedere che ne ha ancora terribilmente voglia.
“Io…
Mmhm.” Lestrade sospira e si passa una mano dentro un
groviglio di capelli
prematuramente grigi. “Sinceramente? È un dannato
incubo.” Una pausa, come se
si aspettasse che Mycroft dicesse qualcosa, che reagisse, ma Lestrade
è svelto abbastanza
da capire che l’uomo di fronte lui intende tenere la bocca
chiusa e va avanti.
“È brillante, glielo concedo. E non è
mai arrivato sulla scena del crimine
mentre… Sotto l’effetto di nulla. Ma,
ehm.”
Mycroft
annuisce. “Ma?”
Un’altra
pausa, un altro istante di frustrazione.
“Cazzo,”
dice infine Lestrade. “Giuro che non volevo farmi
coinvolgere. Limitare tutto
agli affari,
sa?” Colpisce il tavolo con il pollice.
“Bell’effetto ha avuto quella
decisione. Cristo…” Un paio di occhi annebbiati lo
guardano. “Immagino che probabilmente
lei non capisca.”
“Sì,
sono certo di non capire.” Mycroft sorride con calore mentre
dice la sua bugia
fra i denti.
“Penso
che si stia uccidendo,” mugugna Lestrade. “E la
diavolo di parte peggiore è che
penso che lo sappia e che non gli importi nemmeno.” Rinuncia
finalmente alla
battaglia fra sigaretta e non sigaretta, tornando a rovistare nella sua tasca e tirandone
fuori una,
accendendola in fretta, vergognosamente, lanciando sguardi afflitti in
direzione di Mycroft nel momento in cui fa il primo tiro.
“Lo
so che dovrei smetterla,” dice il detective.
“Probabilmente ci faccio la figura
dell’ipocrita bello e buono, no? Sì, è
così anche nella mia testa.”
“Non
sono qui per giudicarla, detective.”
“Oh,
certo che no.” Lestrade sorride. “Tutti giudicano
tutti. Non è che possiamo impedircelo.”
Un
sottile filo di fumo si leva pigramente al soffitto. Oscillante e
simile a un
fantasma.
Una
decisione, presa.
~
Sherlock
sta urlando.
La
porta della camera da letto è stata messa sotto feroce
assedio, oggetti
scagliati contro in preda a una rabbia cieca e soverchiante, da inutili
cuscini
a pugni duri e disperati. “Fammi uscire, Mycroft! Bastardo,
figlio di puttana,
vecchia merda disgustosa, fammi uscire! Ti faro a pezzi con le mie
mani,
fottuto stronzo!”
Fuori,
seduto tranquillamente sulla sua sedia con una tazza di
caffè in una mano e il
giornale nell’altra, Mycroft annuisce con aria indulgente.
“Ma davvero,” dice.
“Quanta caparbietà da parte tua.” Guarda
con calma il proprio orologio. “Quasi
dieci ore, mio caro ragazzo.”
Un
altro rauco ruggito. Un altro suono attutito, molto più
pesante dell’ultimo.
Mycroft sospira.
“È
per il tuo bene, Sherlock.”
Vi
è una pausa di silenzio, seguita dal violento suono di
qualcuno che vomita, e
poi un grave ‘thunk’.
“Ti
prego.” È un piagnucolìo, un gemito, un
acuto. È Sherlock Holmes, arreso,
disperato, supplicante, pietoso. “Ti prego, Mycroft,
solo… Ti prometto che
sarò… Ti prego…”
Mycroft
piega la testa da un lato, le sopracciglia aggrottate.
“…ti
prego… ti prego…”
Si
ode un doloroso, soffocato singhiozzo dall’altra parte della
porta che fa
annodare lo stomaco di Mycroft in una maniera sconosciuta. Sospira e
apre di
nuovo il giornale. “Ci siamo quasi, fratellino,”
mormora.
Nessuna
risposta.
Il
silenzio è persino peggio delle urla.
Mycroft
beve tranquillamente un sorso del suo caffè e controlla
l’ora.
Non
sarà mai perdonato per questo.
Si
dice che non gli importa, davvero.
~
La
pioggia picchietta soffice contro il davanzale, formando piccole
rosette
d’acqua, fragili, che subito scompaiono.
Lo
stereo è acceso, il volume tenuto basso.
“Detesto
Mozart,” borbotta Sherlock dal divano.
“Sei
a casa mia. Ascolteremo quello che deciderò io.”
Mycroft fissa suo fratello con
occhi stanchi e piega un angolo delle labbra
all’ingiù. “Mi aspetto un pieno
risarcimento dello spettacolare danno inflitto alla mia innocente
camera da
letto, comunque.”
Sherlock
sbuffa, ma solo perché entrambi sanno che è
povero come un topo di chiesa e
mille volte meno fedele.
La
musica continua.
“Confutatis… maledictis…”
Sherlock canta insieme
al coro. “Cantano dell’inferno.”
“
‘L’Inferno è vuoto, e tutti i diavoli
sono qui,’ ” cita automaticamente
Mycroft.
Lo sguardo di Sherlock si sposta su suo fratello, poi di nuovo se ne
allontana.
La sua vicinanza è strana e inusuale, quel corpo
peculiarmente estraneo in
questo contesto. “Com’è vero,”
dice, prima di chiudere gli occhi.
“Non addormentarti,” mormora Mycroft dolcemente,
incapace di nascondere il tono
di rimprovero della sua voce. “Ti perderai la
Lacrimosa.”
“Ho
abbastanza lacrime da farmele bastare per una vita intera,
grazie,” è la
risposta quasi inudibile di Sherlock. Come sempre, come al solito, gli
disobbedisce,
e subito prende sonno.
Odora
di fiele e di tabacco e di lui. Mycroft sente quello strano senso di
vuoto
farsi strada come un verme nel suo addome.
Per
una volta, non riesce a scacciarlo via.
…Pie
Jesu
Domine, dona eis requiem… Amen.
riepilogo
~
“Non
c’è modo di svicolare, signor Holmes. Le
cercheremo un nuovo assistente prima
che lei si ammazzi di lavoro.”
Il
grugnito che Mycroft fornisce in risposta è senza impegno,
se si vuole essere
buoni. Sin dal disastro che fu Aiden Pawn, ha preferito di gran lunga
rinunciare a che qualcun altro sbrigasse i suoi affari da poco al posto
suo. Il
sonno è per i deboli, dopotutto.
Non
prende assolutamente sul serio la dichiarazione della segretaria fino a
quando
non entra nell’ufficio il lunedì seguente e trova
una donna sorridente dai
capelli scuri ritta di fronte alla sua porta, con una mano tesa verso
di lui e
l’altra che si stringe al petto un cellulare.
“Buongiorno,”
dice.
“Buongiorno,”
risponde lui.
Lei
si chiama Eliza quado la incontra per la prima volta, e Rachel la
settimana
dopo, e Juliet quella dopo ancora, ma alla fine risulta sempre essere
lo stesso
paio di occhi luminosi e la stessa fidata presenza.
“Cosa
sarà oggi, allora, mia cara?”
“Tiffany,
penso. Mi è sempre piaciuto quel nome. Abbiamo
l’incontro col segretario capo
alle due, comunque.”
Mycroft
si obbliga a ricordare Sarah Nedlin per la bellezza di trenta secondi,
prima di
obbligarsi a dimenticare.
Questa,
lei, è diversa. Si avvicina così
tanto al capirlo, persino. Ogni giovedì notte lei gli porta
il suo tè e un
fascio di registrazioni delle CCTV e le guarda con lui, e lui le
racconta di
Sherlock, a suo modo, inserendo qualche aneddoto qua e là.
Lei
si china ad osservarlo e una volta dice persino, “Beh, deve
amare davvero tanto
suo fratello.”
È
una delle rare volte nel corso della sua vita in cui Mycroft Holmes
rimane
veramente, completamente esterrefatto.
Si
irrigidisce sulla sua sedia e si ritrova incapace di distogliere gli
occhi
dallo schermo in bianco e nero di fronte a lui – lo schermo
in cui Sherlock
continua ad affaccendarsi, a esistere, a respirare, più vivo
e in salute di
quanto probabilmente sarà mai.
Brillante,
oh, così brillante. Mycroft si morde la lingua.
Dietro
di lui, lei emette un piccolo verso di scuse.
“No, no,” mormora infine. “É
molto probabile che sia…”
Si
volta verso di lei e nota che lo sta guardando con
un’espressione di estrema
curiosità sul volto.
Poi Mycroft sorride e annuisce e avverte ancora una volta quel piccolo
spasmo
di piacevole dolore nel petto, e questa volta finalmente lo spasmo
è stato
chiamato col suo nome, e spegne il monitor.
~
Visita
la tomba di sua madre a metà estate e le dice che aveva
ragione a fare tesoro
di Sherlock più di quanto avesse fatto tesoro di lui, perché
Sherlock era quello che ne aveva
più bisogno.
Poi
se ne va, se ne va per non ritornare mai più, se ne va e
prende la decisione di
mantenere tutte le promesse che ha fatto in vita sua, a lei e a tutti
gli
altri.
~
“Sapevo
che ti saresti fatto vedere,” sta dicendo Sherlock, tutto
saccente e imperioso.
Tiene in equilibrio sulle delle dita pallide e sottili, quasi in punta,
un
bicchiere riempito a metà di disgustoso sherry. Mycroft
ridacchia e fa “tsk”
con la bocca.
“Hai
trent’anni, Sherlock,” gli dice. “Trenta.
Pensavo che i tuoi gusti si sarebbero
raffinati un minimo, giunti a questo punto.”
“Che
cosa adorabile per me.” Sherlock arriccia il naso.
“Vuoi qualcosa?” Regge una
sigaretta fra le dita pallide. Ha smesso con la cocaina. La nicotina
sarà
un’altra battaglia, suppone Mycroft. Sospira.
“Sono
a posto, grazie.”
Sherlock
prende un’altra boccata dalla sua sigaretta e guarda fuori
dalla finestra. “Sentili,”
dice, indicando pigramente la monotonia della città, le
grida, le risate, la
vita. “Sentili, quanto sono noiosi.”
Mycroft
Holmes ha trentasette anni e si prende cura della propria intelligenza,
perché
è uno dei suoi pochi pregi che gli sia mai tornato utile. Ha
perso ogni snellezza
mai posseduta in passato, e quindi è possibile che una dieta
gli farebbe bene,
ma è troppo occupato a prendersi cura di Sherlock per
potersi prendere cura di
sé stesso. È così che va.
“Stai
provocando un bel po’ di guai, in questi giorni,”
dice Mycroft. “New Scotland
Yard si lamenta spesso di te.”
“Bene!
Bene.” Sherlock sorride, palesememente soddisfatto di
perché. “Ce la sto
facendo.”
Mycroft
sospira. “Ancora ti ostini a suonare Scriabin quando Bach
potrebbe bastare,
vedo.”
“Sempre.”
Un altro sbuffo. “Perché sei qui?”
“Non
posso farti visita senza avere un motivo dietro?”
Un
paio di occhi traslucidi vengono levati al cielo. “Santo
cielo,” borbotta Sherlock.
“Tu hai sempre un motivo dietro. Che cosa vuoi?”
Mycroft
si accomoda sul divano e accavalla le gambe all’altezza del
ginocchio. “Mi
piace molto questo posto,” dice. “Molto meglio di
quello di prima. Riesci a
permetterti tutto ciò?” Indica la stanza attorno a
sé, la confusione e il caos
che seguono Sherlock ovunque lui vada.
“Non
ho bisogno dei tuoi soldi.” Sherlock soffia anelli di fumo in
direzione del
soffitto. “So prendermi cura di me stesso, Mycroft.”
No,
non sa farlo. Non l’ha mai saputo fare. Non riesce a capire
che l’unica ragione
per cui è vivo è perché ha sempre
avuto qualcuno che lo proteggesse, che si
prendesse cura di lui, che aprisse le porte giuste e chiudesse quelle
sbagliate.
Sta
meglio. Sta meglio, bene come non lo è mai stato; ora, se
solo riuscisse a
lasciarsi andare ogni tanto, a donare una parte di sé a
qualcun altro di sua
spontanea volontà-
Non
penso che
sarò mai capace di amare nessuno; tu pensi che ne sarai
capace?
“Come
stai?” chiede Mycroft, dopo un lungo e spoglio silenzio.
“Sembri in letargo. Ti
stai tenendo occupato?”
“Ho
un lavoro, Mycroft,” sbotta Sherlock.
“Sì.
Gli affari stanno palesemente decollando.”
“Il
sarcasmo non ti si addice,” sibila Sherlock. “Fammi
indovinare. Vuoi che venga
a lavorare per te. Beh, è molto gentile da parte tua,
Mycroft, ma la mia
risposta è no, e puoi prendertela e ficcartela su per
il-”
“Ti
ringrazio, Sherlock.” Mycroft sorride con dolcezza e
attraversa la stanza.
“Molto bene. Credo che me ne andrò,
allora.”
Sherlock
balza in piedi, la cenere della sigaretta che cade e comincia
lentamente a
fumare attraverso il tappeto. “Tutto qui?” urla.
“Non hai intenzione di…
minacciarmi con una disintossicazione fatta con tutti i crismi o
qualcosa di
ugualmente poco fantasioso?”
“No.”
Mycroft si mette la giacca. “No, riserveremo gli ultimatum
per un’altra volta. É
stato bello vederti-”
“Bugiardo.”
“-come
sempre. Stammi bene, Sherlock.”
“Mangia
un po’ di sedano, Mycroft.”
Mycrost
sorride mentre si reca alla porta, girandosi giusto in tempo per vedere
la
bocca di Sherlock piegarsi in un sorriso petulante mentre alza le
braccia in
aria e ride vittorioso.
Note
della
traduttrice: visto
che la storia si rifà molto al mondo della musica classica,
ho pensato di specificare
alcuni particolari (che nemmeno io conoscevo – tradurre
questa storia ha
ampliato di brutto la mia cultura :D E’ bello quando succede
:D). Tutte le
informazioni sono parafrasate da Wikipedia.
1.
Alexander
Scriabin (1872-1915), pianista e
compositore russo, sviluppò un sistema musicale basato
sostanzialmente sull’atonalità
e sulla dissonanza, influenzato dal misticismo e dai suoi problemi di
sinestesia. Può essere benissimo considerato
l’opposto polare di Johann
Sebastian Bach (1685-1750) e della leggendaria armonia delle sue
composizioni.
Si può supporre che i noiosi e conformisti ospiti di casa
Holmes non sarebbero
stati per niente felici di ascoltarlo – da qui la
provocazione di Sherlock.
2.
Edward
Elgar (1857-1934) è stato un compositore
inglese, musicista auto-didatta, i cui lavori sono considerati classici
(soprattutto
i concerti per violino e violoncello) del repertorio musicale
britannico. E’
meno conosciuto al di fuori dal Regno Unito.
3.
La
“Messa da requiem in re minore” di Wolfgang
Amadeus Mozart fu composta nel 1791 e lasciata incompiuta alla morte
dell’autore.
Il Confutatis e il
Lacrimosa citati nel
testo sono rispettivamente il settimo e l’ottavo movimento.
4.
(Precisazione
non musicale): “L’inferno è vuoto, e
tutti
i diavoli sono qui” è una citazione da
“La Tempesta” di William Shakespeare.