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Autore: cyano_corax    20/10/2013    4 recensioni
Mycroft Holmes ha sempre fatto girare la propria vita attorno a quella di suo fratello minore, che la cosa gli piaccia o no.
(Beta: Yoko Hogawa)
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Lestrade, Sherlock Holmes, Victor Trevor
Note: Traduzione | Avvertimenti: nessuno
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Note della traduttrice: buonasera a tutti <3 Come ormai sapranno quelli che mi conoscono meglio, ho un’insana passione per le storie che raccontano il difficile rapporto dei fratelli Holmes e a mio parere questa è una delle più belle mai scritte nel fandom inglese.

Ovviamente l’originale è mille volte meglio sotto tutti i punti di vista, quindi vi incoraggio caldamente a leggerla <3

Infiniti ringraziamenti a Yoko Hogawa che è stata disponibilissima e ha fatto un lavoro di betatura superbo.

Spero vi piaccia. :*

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

presentazione

~

 

 

 

 

 

 

Tutta la villa è invasa da gente, così tanta gente, troppa gente, davvero troppa, simile a formiche per numero e stolido movimento. Sherlock si è barricato nella sua stanza per evitarla, e sta beatamente conducendo senza dubbio esperimenti su qualunque sfortunato piccolo animale gli si sia parato davanti durante la giornata, il suo comportamento liquidato come “capriccio infantile”.

Mycroft non ha nessuna scusa di questo tipo da usare a suo favore, e quindi si ritrova di fianco a sua madre nel salone principale, le dita ormai insensibili per il numero di strette di mano cui si è dovuto sottoporre. La conversazione è stupida e noiosa, e presto si ritrova a sciorinare le parole automaticamente – “Ma davvero, oh che cosa terribile… Sì, Oxford, appena arriva l’autunno… Congratulazioni, di cuore, di cuore…”

Recita la parte del giovanotto garbato più che bene, considerate le circostanze.

Le cose non fanno altro che peggiorare man mano che la serata prosegue. Sono quasi le nove meno un quarto quando una voce eterea si spande per la stanza.

“Mycroft, tesoro.” Sua madre gli viene incontro con un suono tintinnante, lasciando dietro di sé una scia di profumo alla lavanda. “Mycroft, perché non ci suoni qualcosa al piano?”

Tutto intorno risuonano risatine entusiaste. Poco dopo, una mano dalle unghie lunghe, simile a quella di un fantasma, si appoggia in fondo alla schiena di Mycroft e lui viene rigidamente guidato allo strumento. Non ha scelta. Non ha mai scelta.

Il dovere chiama.

“Certo, mamma,” si sente rispondere. Qualunque cosa per te.

La stanza è fin troppo illuminata, il lampadario spande un accecante lucore giallo che rimbalza sui flutes riempiti di champagne e sui gioielli pacchiani di cui tutte le donne sono ricoperte. Tutto è in ordine e tutto è pulito e tutto ha attaccato sopra un cartellino col prezzo.

Si siede sulla panchetta e la fa finita più presto che può, eseguendo meccanicamente Bach – formulare, educato, sì, alla gente piacerà – più un incontro di lavoro che un prodotto d’arte.

C’è un’enorme differenza fra il suonare per dovere e il suonare sotto la spinta della passione.

Ultimo accordo. In piedi. Inchino. Prima di compiere una frettolosa  ritirata davanti al cortese, tiepido applauso del pubblico.

“Ragazzo curioso,” sente dire a qualcuno mentre lascia la sala. “Chissà cosa ne sarà di lui”.

Le loro risate tintinnano.

Mycroft si dirige dritto alla porta di Sherlock non appena riesce a sfuggire alla folla, una parte di lui in cerca di solidarietà e un’altra parte semplicemente preoccupata. Si stupisce quando non la trova chiusa a chiave e quindi entra nella stanza, facendosi strada fra il labirinto di vestiti gettati a terra ed esperimenti lasciati a metà, fino a trovare suo fratello raggomitolato sul davanzale, la notte calda che sguscia dentro dalle persiane spalancate.

“Sapevo che ti saresti fatto vedere,” dice Sherlock, tutto saccente e pomposo. Tiene in equilibrio sulle dita sottili e pallide, quasi in punta di esse, un bicchiere pieno per metà del miglior sherry della casa. La mano di Mycroft scatta in avanti e gli toglie il bicchiere, prima di versare il liquido fuori dalla finestra.

“Hai dieci anni, Sherlock,” dice, gentile e furibondo a un tempo. “Dieci”.

“Lo so. Non è adorabile?” Sherlock lo guarda. “Hai suonato Bach. Che scelta raffinata, da parte tua”. Si volta, il pallido collo bianco lungo e splendente alla luce della luna. È sempre stato un bambino così bello. Le persone che lo incontravano per la prima volta tendevano a immaginarselo fragile. Leggero ed esile, come la loro madre.

Mycroft sospira. “Il prossimo armadietto che saccheggerai sarà quello dei sigari, immagino”.

“Cosa ti fa pensare che non l’abbia già fatto?”

“Oh, so bene che non l’hai fatto”.

Le sopracciglia di Sherlock si impennano. “Solo perché tu l’hai già fatto. Avevo l’impressione che sapessi distintamente di Cubano giovedì scorso,” dice, ridendo per la propria intelligenza. È a piedi nudi e ne ha uno penzoloni, gli angoli addolciti dalla luce. “Perché hai scelto la partita?”

“Era la prima cosa che mi è venuta in mente. Puzzi di sherry. Quanto ne hai bevuto? Era il tuo primo bicchiere quello che ho buttato fuori dalla finestra?”

Sherlock non risponde. Si limita ad appoggiare la testa alla finestra e a sospirare. “Sentili,” dice, indicando pigramente i frammenti di educata conversazione e risatine leggere che provengono dal piano di sotto. “Sentili, quanto sono terribilmente noiosi”.

Mycroft Holmes ha diciassette anni ed è troppo intelligente per il suo stesso bene. Ha un paio di mani sufficientemente affusolate, l’unico attributo fisico che sia riuscito ad ereditare dalla propria madre, ma il resto di lui sta cominciando a gonfiarsi contro le cuciture. Non gliene importa poi molto. Lui è quello che è.

È suo fratello quello con l’energia illimitata.

“Io avrei suonato Scriabin,” sbotta Sherlock. Tira fuori la lingua e la spinge contro il naso. “Li avrei fatti andare tutti in bestia”.

“Sì. Sì, l’avresti fatto”.

Le labbra di Sherlock si arricciano in un sorriso petulante mentre alza le braccia e ride vittorioso.

 

~

 

La osserva osservare Sherlock, i suoi occhi che sbirciano oltre il libro per guardare sua madre alla finestra, metà del viso illuminato dal sole e metà immerso in un’ombra polverosa.

“Perché è così selvaggio?” dice piano. Mycroft riesce a udire grida indistinte da fuori, il povero giardiniere rimasto intrappolato ancora una volta, vittima di una delle peggiori scenate di Sherlock. Il clima è caldo e lui è giovane e capriccioso.

“Posso solo immaginarlo”, dice Mycroft, leccandosi un dito e voltando rumorosamente pagina.

“Tu non sei mai stato così da bambino”.

“Sì, beh, non sono lui”.

La madre di Mycroft sorride amorosamente a questa risposta, ma i suoi occhi sono ancora fissi sul suo figlio più piccolo. Vi è sempre un particolare calore in lei quando lo guarda, una soddisfazione che almeno uno di loro è riuscito ad estorcerle al posto del semplice compiacimento per diventare selvaggio e completamente indomabile.

“No, non lo sei, vero?” sussurra.

Mycroft ritorna alla sua lettura.

 

~

 

La notte in cui compie diciott’anni, va giù al loro bungalow con una bottiglia di Bordeaux per mano e apre il lucchetto. La luna è alta e piena, l’aria è calda, è estate, è meraviglioso.

Tutti se ne sono scordati. O, nel caso di Sherlock, hanno finto di scordarsene.

Per lui è lo stesso, comunque.

C’è un piano, relegato in un angolo, un Cristofori vecchio come il cucco i cui tasti sono gialli per l’età e che odora di legno dolce e che è sempiternamente scordato. Mycroft chiude la porta dietro di sé, appoggia le bottiglie sul piano, tira fuori una candela dalla sua tasca sinistra e un fiammifero dalla sua tasca destra. Lo accende. Accende la candela. Lo poggia a terra.

L’obbiettivo è sbronzarsi. Tanto vale farlo in grande stile.

POP fa il tappo mentre viene tolto, e il profumo di vino a poco prezzo si spande nell’aria. È di un’annata mediocre, sin troppo dolce per i gusti di Mycroft, ma si dice che una volta che ne avrà mandato giù abbastanza non farà poi questa gran differenza. Ne prende un lungo sorso direttamente dalla bottiglia e si siede sulla panchetta, lo sguardo fisso sui tasti come se custodissero la risposta a ogni cosa.

Si. Sol diesis. La, si, re diesis, mi…

“Opera sessantadue, numero due,” annuncia piattamente Mycroft a nessuno in particolare. Un altro sorso di vino. Non si è mai ubriacato prima di quel momento, ma ha sentito dire che fa miracoli per quanto riguarda il dimenticarsi del peggio in sé stessi. La testa prende a girargli, continuando a tornare sull’esatto particolare di un polso pallido e ossuto o di un occhio chiarissimo e incolore, o sull’eco di un urlo tremulo. Pensare a Sherlock scava un gelido buco nel petto di Mycroft; questo, aggiunto all’inutile, terribile bramosia di musica e al bruciore dell’alcool lungo la sua gola, è abbastanza per farlo gemere udibilmente.

E poi:

Sibilo.

“Cosa stai facendo?”

Mycroft si alza e abbassa la copertura del piano. “Potrei chiederti la stessa cosa, fratellino”.

Sherlock sguscia fuori dall’ombra, compiaciuto come sempre. “Quello è Bordeaux? La mamma si arrabbierà parecchio con te, Mycroft”. L’ombra ricade su di lui, lo affila, lo fa apparire ben più vecchio di quanto sia in realtà.

“Per cortesia, vattene, Sherlock”.

Come sempre, come al solito, Sherlock non lo ascolta. “Almeno dammene un po’”, dice secco, indicando il vino.

C’è qualcosa di profondamente inquietante riguardo la fascinazione che prova per le sostanze inebrianti.

“Dovresti essere a letto”.

Anche tu”. Sherlock solleva di nuovo la copertura del piano e suona il la alto, ancora e ancora, ting, ting, ting, ting, ting. “Quanto sei patetico,” dice, “a trascorrere il tuo compleanno così”.

Mycroft è zitto e paziente. Lascia che Sherlock giochi con il Cristofori ancora per un po’, le manine che sfrecciano lungo il registro più alto, le quali un momento prima suonano un frammento di Gershwin, quello dopo un’atonalità senza senso, le ossa delle sue mani così piccole da poter essere paragonate a quelle delle ali degli uccelli.

Finisce con una presa in giro della quarta di Beethoven, poi si alza e si stringe nelle spalle. “Che noia,” dice. “Preferisco molto di più il violino”.

“Ah, ne sono sicuro,” sospira Mycroft, la mascella che gli duole per la frustrazione e per un’unica, particolare forma di rabbia che viene scatenata solo da Sherlock. Si sporge e afferra le bottiglie di vino, facendo segno verso la porta. “Dai, su. Andiamo via”.

Sherlock sorride sfacciato e sfreccia fuori, sul prato.

Mycroft spegne la candela e lo segue dopo poco.

La mattina dopo, il giardiniere trova le due bottiglie di Bordeaux sull’erba.

Vuote.

 

~

 

Non capita spesso, questa cosa delle fughe. Una volta ogni qualche mese, forse, anche se loro madre preferisce chiamarle “spedizioni”.

Sherlock è allegro, triste, infelice, euforico… È tutto questo, e ancora di più. E qualche volta, quel suo lineare, ostinato, portentoso cervello vede una sola via di fuga e la prende.

Il vento si è tramutato in un violento urlo. I boschi che circondano le loro consistenti proprietà diventano inquietanti di notte. Una sorta di ideale scenografia per foschi romanzi gotici e storie dell’orrore. Mycroft si fa strada fra gli alberi, il suolo bagnato che gli imbratta le galosce, il suo ricco, organico odore intenso nell’aria.

Foglie bagnate. Rami bagnati. Torcia bagnata.

Non si prende il disturbo di gridare. Sherlock non verrebbe da lui, anche se lo facesse. No, no.

Mycroft si ferma e sospira e si deterge il viso col dorso della sua mano, spalmando l’acqua sulle sopracciglia e via dagli occhi. Dirige la torcia verso l’alto e lascia che il fascio di luce illumini una colonna di gocce di pioggia, che prenda il volo verso le spesse nuvole sopra di lui.

Schiocco. Crepitìo.

“Mio caro ragazzo. Eccoti”.

Si sente un umido tirar su col naso. Sherlock se ne sta sotto un albero lontano con un ombrello sopra la propria testa. Le guance bagnate, scontroso, coperto di fango, sporco, un graffio sulla guancia da cui cola un sottile rivoletto di sangue. Mycroft gli fa segno di alzarsi. “Vieni, dai,” gli dice.

“No”.

“Ascolta, Sherlock, per me fa lo stesso che tu stia qui o venga con me, ma la mamma sta cominciando a preoccuparsi e come risultato ha posticipato la cena”. Mycroft alza un sopracciglio. “Sai quanto detesto saltare i pasti”.
Un altro tirar su col naso. Sherlock si fa più vicino, lasciando che la sua figura sporca di terra venga illuminata dalla torcia. “Lo odio, a casa,” dichiara con ferocia, con un brusco agitarsi dei suoi capelli bagnati. “È noioso e ho finito le cose da fare”.

“Oh, sono completamente d’accordo. Ma penso anche che la noia sia preferibile al morire di polmonite; non credi?”

Sherlock sporge le labbra. “No,” sbotta, l’onestà nella sua voce snervante.

Mycroft fa un passo in avanti e passa un braccio attorno alle spalle di Sherlock, accucciandosi sotto l’inutile ombrello. Riesce a sentire il corpo magro sotto il suo braccio irrigidirsi e tentare di scuoterlo via, ma Sherlock ha bisogno del calore di un altro corpo, l’orgoglio può andare all’inferno.

“Non intenderai seriamente portarmi a casa così,” mette in chiaro. La luce di un lampo gli illumina il viso, rendendo effervescente il suo cipiglio torvo. “Ho pensato di uccidermi prima di oggi; ti spaventa?” continua Sherlock, provando di nuovo a divincolarsi. “L’ho quasi fatto una volta, con un coltello. E poi c’è stata quell’altra volta con la sciarpa della mamma in soffitta”.

La risposta di Mycroft è non rispondere affatto.

“Scommetto che vuoi sapere perché.” Sherlock suona così soddisfatto di sé. Mycroft scuote la testa. Lo sa già.

Il viso di Sherlock è furioso ma i suoi occhi stanno supplicando per una ragione, una ragione qualsiasi, che gli permetta di continuare a parlare.

Un altro tentativo di fuga e Mycroft affonda le sue unghie nel braccio di Sherlock. Il dolore va bene. Questo dolore è niente paragonato a quello che sa che suo fratello si infligge ogni giorno. Quello che Sherlock soffre tra attacchi di frenetica attività e rabbia selvaggia, Mycroft lo soffre in solitario silenzio.

Il lampo taglia nuovamente il cielo in frammenti, e decisa, così decisa, la pioggia viene giù.

 

~

 

La mattina è nebbiosa e assolutamente splendida, l’erba ancora coperta di rugiada, gli alberi che cominciano a diventare dorati.

Mycroft impacchetta da solo le sue cose e le porta giù nella sala principale. Bacia sua madre sulle guance.

“Sì, sì,” dice lei. “Fa’ il bravo. Hai salutato tuo fratello?”

Non l’ha fatto. Glielo comunica. Lei fa una smorfia e dice, “Oh,” e  ricaccia Mycroft su per le scale, in camera di Sherlock.

Il ragazzo è spaparanzato sul letto, e sfoglia svogliatamente un gigantesco volume appoggiato sul suo cuscino. Nel momento in cui Mycroft entra dalla porta, emette un piccolo verso di gola e alza gli occhi al cielo.

“Arrivederci, allora,” dice Mycroft.

“Hm”.

“Sarò di ritorno per le vacanze invernali”-

“Che m’importa”.

Mycroft non si aspettava che gli importasse. Annuisce e si volta, percorre tutto il corridoio, tutte le scale, tutto il vialetto di ghiaia. Sale nella macchina che lo sta aspettando.

Non si guarda indietro.

Ma se l’avesse fatto… Se si fosse preso il tempo di voltare la testa solo un pochino e gettare uno sguardo alla finestra della villa in alto a destra…

Avrebbe visto lo spicchio di una faccia pallida e indagatrice, mentre sbirciava da dietro le tende e osservava la propria àncora andarsene via.

 

~

 

È tardo autunno ad Oxford, che è un’isola in sé stessa e per sé stessa, accademica e riparata. È tardo autunno e non ci sono piccoli, feroci fratelli a trascinarlo via da lì. È tardo autunno e si ritrova a stringere la mano di Figli Di Gente Importante In Posti Importanti, a creare legami, a formare alleanze. Nel mondo al quale Mycroft si sforza di appartenere, non ci sono cose come gli amici.

“Vuoi stare sotto i riflettori, vero?”

Non l’avrebbe messa in una maniera così superficiale, ma sì.

“Penso che tu abbia una possibilità. Sì, penso che tu ce l’abbia”.

Davvero, davvero, loro pensano che lui ce l’abbia.

 

~

 

Alla fine del suo terzo anno, quando la primavera ha finalmente cominciato ad avanzare con aplomb e Oxford si è vestita di un verde affusolato, Mycroft riceve una lettera.

Un’offerta.

Ma non il tipo di offerta che ha sempre voluto. Previsto, persino.

…abbiamo notato che Lei possiede determinate abilità che si potrebbero dimostrare utili…

…attività sovversive…

…interessati…

Tre giorni dopo, si ritrova seduto in un bar, gli occhi fissi su una tazza di tè freddo e amaro mentre l’uomo scarno che gli sta davanti gli fornisce dettagli sul suo impiego. “Ha mostrato una

predilezione per il ruolo di qualcuno piuttosto bravo nell’esercitare una forma più discreta di controllo,” dice l’uomo dolcemente. “C’è richiesta per questo tipo di cose”.

“Davvero”.

“Davvero. Ho sentito spesso dire che il miglior burattinaio è quello che non viene visto da nessuno; lei è d’accordo?”

Mycroft, a questo, si sporge in avanti. “Potrei.”

“È meglio che le dica, in ogni caso…” e qui, l’uomo gli offre un sorriso triste– “Non leggerà mai il suo nome sui giornali. Quasi certamente non terrà mai discorsi in Parlamento. Non lo farà certo per la gloria”.

“E per cosa lo farò, dunque?”

“Beh, per l’Inghilterra, ovviamente. Abbiamo tutti un dovere verso il nostro paese, alla fin fine.” Un altro sorriso, questa volta molto più luminoso. “Se tutto questo non fosse sufficiente, comunque, vi è anche una certa quantità di potere compresa nel prezzo”.

Dovere.

Potere.

Mycroft dice che ci penserà, che per lui equivale a un sì.

 

~

La fine dell’inverno:

Quando i tetti si incurvano per il peso della neve e le strade brillano di ghiaccio e Sherlock Holmes si arrampica alla finestra del dormitorio di Mycroft come se fosse il posto nel mondo più adatto a lui.

“Cosa ti hanno detto i tuoi professori per farti arrabbiare, stavolta?” chiede Mycroft, cacciando una tazza di tè bollente nelle mani pallide e tremanti del fratello, solo per vederla scagliata a terra con violenza.

“Sta’ zitto,” sibila Sherlock. “Sta’ zitto e dimmi la verità. Ti è stato offerto un posto, vero? Non c’è nessun’altra ragione che spieghi il tuo non aver chiamato a casa per tre settimane. Chi è? L’MI5?”

“Non essere ridicolo,” lo sbeffeggia Mycroft. “Nulla di così lontanamente vistoso. Una posizione minore nel governo inglese”.

“Sì. Sì, ci credo proprio”.

Vi è una pausa, durante la quale Mycroft si piega e raccoglie in silenzio la tazza buttata a terra e la appoggia sul tavolo, lanciando un’occhiata piena di irritazione alle macchie per terra. “Dovresti dire alla mamma dove sei,” dice. “Sarà preoccupata”.

“La mamma si preoccupa sempre. Niente di nuovo”.

“E la tua scuola?”

“La scuola può andarsene all’inferno”.

Mycroft rilascia un lungo, stanco respiro d’aria stagnante. “Mio caro ragazzo, devi veramente smetterla di aspettarti che il resto del mondo si pieghi davanti a ogni tuo capriccio e stravaganza,” dice.

“Perché non dovrebbe?” sputa Sherlock. “Sono meglio del resto del mondo”.

Lentamente, Microft piega il busto in avanti e dice, “No. Non lo sei. Nessuno di noi lo è. Non siamo ‘superiori a tutto’, Sherlock, noi ci siamo proprio nel bel mezzo, del tutto.” Aggrotta le sopracciglia. “Sei pur sempre un essere umano”.

Sherlock sogghigna e caccia le mani nelle tasche dei pantaloni. Un principino con un occhio fisso sul trono e l’altro sulle nuvole. La sua espressione è cupa e Mycroft la conosce sin troppo bene. “Sei solo geloso,” dice Sherlock. “Perché io non ho paura di essere me stesso e tu di paura di essere te stesso ne hai troppa.”

Uno strano, oscuro fremito scuote Mycroft dalla punta della sua testa fino a quella delle sue dita. Inghiotte e lo guarda. Inghiotte. E. Lo. Guarda.

“Essere umani suona terribilmente noioso in ogni caso,” continua Sherlock. “Cos’è capace di fare la gente se non mangiare e cagare e fare sesso l’uno con l’altro-”

“Sherlock.”

“È vero e tu lo sai”.

Lo è, e lui lo sa, ma questo non impedisce che gli bruci lo stesso.

Mycroft sospira. “Ti do i soldi per l’autobus, così puoi tornare a scuola e telefonare alla mamma,” gli dice, dirigendosi verso la propria scrivania e aprendo uno dei tanti cassetti. “Sarà meglio che io non venga a sapere che li hai spesi in altre cose, Sherlock”.

Sigarette. Materiali chimici pericolosi. E così via.

“Mmnh,” mugugna vacuo Sherlock. Si butta sul letto di Mycroft, passando una mano sulle lenzuola per stropicciarle, prima di piegarsi in avanti e affondare il naso nella stoffa. Un breve sbuffo soddisfatto dopo e si stende, allungando il suo piccolo corpo magro su tutto il materasso.

“Non penso che sarò mai capace di amare nessuno; tu pensi che ne sarai mai capace?” chiede al soffitto.

La domanda in ogni caso è diretta a Mycroft, che non risponde. Lascia i soldi sulla credenza, la somma esatta, e osserva suo fratello fissare il bianco slavato del soffitto con un paio di occhi bianchi slavati.

Oh, Sherlock è sempre stato bravo nel porre le domande giuste.

“Non dire ancora alla mamma del lavoro, comunque,” dice Mycroft. “Non le farà bene saperlo”.

“Che succede se glielo dico?”

“Mio caro ragazzo, certe volte l’atto di commettere tradimento si tramuta nella sua stessa punizione”.

 Sherlock si arrampica fuori dalla finestra dieci minuti dopo con le monete nel pugno e non una singola promessa fatta.

Mycroft non si aspettava nulla di diverso.

~

Sarah Nedlin è un anno avanti a Mycroft e frequenta il suo corso di matematica. Si siede nel bel mezzo della prima fila, proprio dove il professore può vederla, proprio dove tutti posso vederla, e osservare i suoi capelli biondi splendere nella luce fluorescente e vedere le sue piccole mani veloci svolazzare mentre lei prende appunti.

A quanto ne sa Mycroft, è brillante come lo può essere una persona normale. Distaccata e calcolatrice e arguta; la migliore specie disponibile per testare la piccola ipotesi di Mycroft.

La raggiunge sul prato un venerdì pomeriggio e avvolge una mano attorno al suo braccio.

“Sai chi sono, vero?”

“Certo che lo so”.

“Bene, vorrei chiederti una cosa”.

Le spiega il suo piano. Nel mentre lei lo guarda con un paio di occhi seri e castani, e annuisce.

“La situazione sarebbe accettabile per te?” le chiede.

Ci mette due virgola cinquantatre secondi a formulare una risposta, e uno virgola zero tre secondi a dargliela. Nove minuti per raggiungere camera sua. Tre ore e quarantadue minuti e dodici secondi per copulare in tutti i modi possibili ai quali entrambi riescano a pensare così su due piedi.

Finiscono e puliscono e si vestono bruscamente, prima che Sarah si avvicini e stringa la mano di Mycroft e dica, “Stessa ora settimana prossima?”

Per due mesi interi, fanno questo. Due mesi trascorsi a scoparsi selvaggiamente ogni venerdì pomeriggio alle tre.

Due mesi e ancora tutto quello che Mycroft riesce a pensare guardandola è: un metro e sessantacinque di femmina umana, curvilinea, bionda e con gli occhi castani, che incidentalmente si ritrova ad avere un nome.

Lui se la gode, ovviamente. Ha l’impressione che se la goda anche lei.

Il tutto se ne va a puttane, comunque, quando lei un giorno si tira su e invece di pulirsi e vestirsi bruscamente e stringergli la mano, gli chiede se gli piacerebbe fare un giro e bere qualcosa con lei il pomeriggio successivo.

Ed è in quel momento che se ne rende conto. È in quel momento che il suo cervello lo costringe a realizzare che il piccolo Sherlock aveva ragione.

Ci mette tre virgola nove secondi a formulare la sua risposta e meno di uno per dargliela. Diciotto secondi è quello che ci mette lei a vestirsi e a marciare fuori dalla porta. Dodici ore è quello che ci mette lui per cancellare la sensazione del  corpo di lei da sé stesso.

Sherlock intuisce tutto durante la cena di Natale, quando la famiglia è seduta al lungo, formale tavolo e la loro madre gli chiede in una maniera così candida, “Niente di nuovo all’università, Mycroft?”

Mycroft risponde con l’usuale tiritera di bugie, questo, quello, i corsi sono stupendi e i professori sono fantastici. Sherlock lo osserva parlare dall’altra parte del tavolo, uno sguardo predatorio negli occhi mentre si porta un altro boccone di tacchino alla bocca.

Non dice una parola. Non ne ha bisogno.

Più tardi quella sera scivola accanto a Mycroft con un sogghigno sul viso e gli sussurra a un volume quasi inudibile, “Te l’avevo detto.”

Cinque minuti dopo sua madre sa tutto e sta piagendo silenziosamente chiedendogli perché, perché buttare via la sua vita lavorando per il governo fra tutte le cose, oh, deve proprio seguire le orme di suo padre.

La ascolta piangere con la mente per metà altrove. L’altra metà è fissa sullo spicchio di pelle pallida che lo sta guardando da dietro la porta, sorridendo e arrossendo di piacere per la vittoria.

 

 

 

 

 

 

sviluppo

~

 

 

 

 

 

 

L’ufficio in cui lavora è all’antica, con pannelli di legno e poltrone di pelle e copie esemplari di dipinti fatti da Stubbs appese ai muri.
A Mycroft è stato affidato un assistente quattro mesi dopo la sua assunzione. Aiden Pawn ha la sua stessa età, non è  nemmeno lontanamente brillante quanto lui, ed è nel complesso troppo allegro, tutto preso a scodizolare dietro a Mycroft con tanta patetica persistenza da divenire niente meno che una distrazione.

“Ecco, signor Holmes, abbiamo un buco alle quattro di questo pomeriggio, e hanno appena aperto questo nuovo ristorante dietro l’angolo-”

Mycroft sospira e lascia scivolare con calma i fogli che tiene in mano sulla scrivania. “Signor Pawn,” dice secco, tirando fuori la sua voce più aspra, “Lei è un membro del mio staff, non un mio… ‘amichetto’. Ritorni cortesemente alla sua scrivania”.

Pawn resiste fino all’anno successivo, quel suo stupido sorriso che non gli abbandona la faccia neanche per un attimo.
Poi un giorno Mycroft appoggia una cartelletta sulla sua scrivania e dice, “Pensaci tu e Pawn da’ un’occhiata e dice che non può farlo e Mycroft gli chiede perchè.

“Non è giusto,” è la risposta del ridicolo idiota. “Io non… ucciderò queste persone!”

“Lei lo farà e lo farà in maniera veloce, silenziosa ed efficiente. È il suo lavoro, signor Pawn.” Mycroft alza le sopracciglia. “E se lei non ottempererà ai suoi doveri, io troverò qualcun altro che lo farà”.

E fa proprio questo.

Non vi è semplicemente il tempo né il luogo per discutere di morale.
Capite?

~

Sherlock ha vent’anni quando Mycroft comincia a farlo seguire. Cose innocenti, davvero – persiste ancora con quella sua ridicola dipendenza da droga? Prosegue bene i suoi studi?

Di giorno si siede nel suo ufficio e tira i fili con i quali controlla il mondo. Di notte si raggomitola di fronte alla schiera di telecamere CCTV e osserva in silenzio la vita di suo fratello.

Quattro novembre: si procura della cocaina in un viale a tre isolati dall’università.

Dodici novembre: salta l’esame di chimica per condurre un suo esperimento sui cadaveri della facoltà di medicina.

Venti novembre: viene morso da un bulldog. Litiga con il proprietario. Viene portato all’ospedale.

Venticinque novembre: va fuori a prendere un drink con il proprietario del bulldog.
Ventisei novembre: idem.

Ventisette novembre: idem

Ventotto novembre: idem.
Victor Trevor è più grande di Sherlock di due anni, ha i capelli biondi e un gran cuore ed è pieno di vibrante energia.

Mycroft si ritrova a osservare in silenzio i due giovani uomini cacciarsi in una miriade di situazioni che chiunque difficilmente riterrebbe decorose, ma loro si piacciono, si, loro si godono la rispettiva compagnia.

Dieci dicembre: scompare con V.T. dietro al pub. Ritorna con lui al suo dormitorio. Non ne emerge che al mattino.

Dodici dicembre: viene invitato nella residenza della famiglia di V.T. a Donnithorpe, Norfolk.

Mycroft rifiuta di permettere a se stesso di essere felice per Sherlock.

Finirà, queste cose finiscono sempre.

Al primo dell’anno, Sherlock è di nuovo solo e più amaro che mai.  É quello che succede a testare su sè stessi le proprie ipotesi; è il risultato di un ragazzo determinato a scoprire in quanti modi è capace di farsi del male.

~

 

La telefonata arriva alle due e quarantatre del mattino, la voce di sua madre terrorizzata e sul filo dell’isteria all’altro capo dell’apparecchio mentre snocciola piangendo rumorosamente una sequela di inutili dettagli. Mycroft si ritrova a vestirsi senza accorgersene mentre cerca di calmarla.

Ora è in mezzo alla strada, a metà di gennaio, nientemeno, con le mani nelle tasche e gli occhi fissi sul palazzo di fronte a lui, odiandosi e odiando suo fratello con ogni fibra del proprio essere. Odia Sherlock, lo odia per aver lasciato l’università, per aver ridotto i nervi della loro madre a pezzi, per essere diventato quello che è, per essere brillante oltre ogni limite e per essere selvaggiamente bello e per il semplice fatto di essere nato.

Emette un cupo e pesante sospiro, prima di fare un passo in avanti e suonare il campanello.

Sherlock risponde in esattamente ventidue secondi. Alto, magro, traslucido. Morto di fame. Fatto. Una sigaretta in mano. Maniche rimboccate, con tutti i fori degli aghi in bella vista in modo che il mondo se ne accorga; non ha nessuna vergogna, ma come ci riesce a non averla.

Sullo sfondo si ode la marcia funebre di Beethoven. Tipico di Sherlock, così melodrammatico. Mycroft lo osserva, lo osserva da capo a piedi. “Vedo che ti sei preso cura di te stesso,” dice, la voce tronca.

“Fuori dai coglioni”.

“Sherlock, chiama la mamma. È preoccupata.”

Una mano pallida e ossuta si alza, scorre attraverso quel garbuglio di capelli scuri. “Domani mattina,” mormora.

“È già domani mattina, Sherlock. Quand’è stata l’ultima volta che hai mangiato?”

Una scrollata di spalle.

“Sai che giorno è?” lo interroga Mycroft.

Un’altra scrollata di spalle.

“Ragazzo mio-”

“Smettila, Mycroft,” geme Sherlock. “Solo… Vattene? Per favore? Non hai un lavoro o qualcosa del genere?”

“Perché fai questo a te stesso?” La domanda è gentile e buona, genuina, onesta. Se solo le intenzioni che ci sono dietro lo fossero altrettanto.

E Sherlock questo riesce a capirlo. Oh, se riesce a capirlo.

Si vede un duro, aspro ghigno derisorio prima che la porta venga sbattuta in faccia a Mycroft, tagliando fuori la marcia funebre proprio mentre raggiunge il suo picco più tetro. Il vento si alza, più violento che mai. Montague Street assume un’apparenza diabolica a quest’ora della notte. Mycroft si alza il bavero e percorre solennemente all’indietro la strada, un braccio alzato mentre prova a fermare un taxi, furioso con sè stesso persino per aver finto che gli importasse qualcosa.

~

“Dov’é?”

Sua madre è già un cadavere, eterea e quasi senza peso, trattenuta da un ultimo, persistente filo. Mycroft se ne sta ai piedi del suo letto d’ospedale con le mani raccolte una sopra l’altra e la guarda cupo. “A Londra, mamma,” risponde.

“Ho bisogno di parlare con lui. É importante.”

“Abbiamo provato a contattarlo.” La osserva sbattere le palpebre, stordita, ascolta il monotono blip del monitor e il debole gocciolare della sua flebo. Lei respira bruscamente e scuote la testa.

“Hai cercato giù al ruscello?” sussurra. “O nel boschetto dei sicomori, gli piace tanto giocare là.”

“Mamma”.

“Mycroft, vammi a prendere tuo fratello, è… Lo voglio vedere.”

La sua mano volteggia in aria, afferrando il vuoto, cercando un esile, pallido bambino di dieci anni e fallendo miseramente. Mycroft si fa più vicino, allunga la mano, le prende le dita e cerca di mantenere la presa, solo per essere respinto con rabbia.

“Tuo fratello. È imperativo… Oh, perchè voi due dovete litigare così tanto.”

Beep. Beep.

Se solo la cara donna sapesse che è arrivata dieci anni e un figlio troppo tardi.

Sospira stancamente e chiude gli occhi.


~

Sherlock non va al funerale.

È un dato significativo dello stato del loro rapporto, il fatto che Mycroft non ne sia nemmeno lontanamente sorpreso.

Suonano Elgar mentre calano il corpo sottoterra, il freddo ululare di un violoncello gutturale e pesante come l’argilla al di sotto, e Mycroft non si disturba neanche a dire addio.


~

Le infermiere sono più che solamente perplesse mentre lo guardano avanzare con fare stanco nel Reparto di Terapia Intensiva e abbassarsi sul banco d’accettazione con un’espressione irritata sul volto.

“Allora?” grugnisce. “Che si è fatto stavolta?”

La ragazza lo fissa con i suoi occhi grandi e piatti e balbetta, “Lui… Suo fratello ha rischiato di morire, signor Holmes. È un miracolo che sia-”

“Sì, sì. Che cos’era? Eroina?”

“Io… No, morfina.”

Sciocco.

“…segnalato come parente più prossimo. Ha premuto molto perché la chiamassimo.”

È il turno di Mycroft di essere sorpreso. Irrigidisce i lineamenti, comunque, e picchia la punta dell’ombrello contro le piastrelle del pavimento. “Molto bene. Posso vederlo?”

Viene condotto lungo corridoi di un bianco slavato, l’odore di antisettico che vibra nelle sue narici. Riesce a distinguere migliaia di altri odori, tra i quali sangue, vomito e alcool spiccano particolarmente.

“Eccolo.”

Pallido come non mai e mortalmente freddo. Mycroft ascolta l’infermiera fare click clack mentre se ne torna da dove sono venuti. Osserva suo fratello per un lungo, ostinato momento, notando i buchi degli aghi risaltare lividi e rossi contro la pelle bianca e altrimenti intonsa. Sherlock sembra niente meno che in pace; la sua fronte è in ombra, gli occhi infossati. Fragile in apparenza come lo sembrava quando non aveva che dieci anni. Mycroft ricorda un bambino coperto di fango nei boschi, che blaterava di volersi uccidere, e rabbrividisce.

Se solo la loro madre potesse vedere com’è ora.

Un lungo, sfinito sospiro e dopo gira i tacchi e se ne va.

“Non resta con lui?” gli viene chiesto mentre esce. “Vorrà vederla quando si sveglierà.”

“No. Non vorrà.”

“Dovrebbe pensare ad inserirlo in un programma di disintossicazione, signor Holmes. Comunque vadano le cose avrà-”

Mycroft si volta, gli occhi che si induriscono fino a raggiungere l’aspetto dell’acciaio lavorato. “Lei non viene a dirmi come trattare la mia famiglia,” dice, lento, gelido. “É mio fratello e mi occuperò di lui nella maniera che considererò più opportuna, e non in quella decisa dai capricci di una sciocca infermierina che ha una relazione con un suo superiore sposato, il quale, già che ci siamo, non ha alcuna intenzione di lasciare sua moglie da qui a poco.”
Quindi è così che si sente Sherlock ogni volta, riflette fra sé e sé mentre la guarda fuggire via trattenendo le lacrime. Un malato senso di soddisfazione si attorciglia attorno al suo stomaco e rifiuta di andarsene.

Lo ingoia e cammina bruscamente a passo di marcia fuori dalla porta.

Rimedierà a tutto questo; lo fa sempre.

 

~

 

“Sia onesto con me, Detective Lestrade. Quanto è grave?”

Il poliziotto mostra ancora segni di shock. Giocherella con un posacenere sul tavolo, che contiene i resti fumanti di due sigarette fumate rapidamente, e Mycroft riesce a vedere che ne ha ancora terribilmente voglia.

“Io… Mmhm.” Lestrade sospira e si passa una mano dentro un groviglio di capelli prematuramente grigi. “Sinceramente? È un dannato incubo.” Una pausa, come se si aspettasse che Mycroft dicesse qualcosa, che reagisse, ma Lestrade è svelto abbastanza da capire che l’uomo di fronte lui intende tenere la bocca chiusa e va avanti. “È brillante, glielo concedo. E non è mai arrivato sulla scena del crimine mentre… Sotto l’effetto di nulla. Ma, ehm.”

Mycroft annuisce. “Ma?”

Un’altra pausa, un altro istante di frustrazione.

“Cazzo,” dice infine Lestrade. “Giuro che non volevo farmi coinvolgere. Limitare tutto agli affari, sa?” Colpisce il tavolo con il pollice. “Bell’effetto ha avuto quella decisione. Cristo…” Un paio di occhi annebbiati lo guardano. “Immagino che probabilmente lei non capisca.”

“Sì, sono certo di non capire.” Mycroft sorride con calore mentre dice la sua bugia fra i denti.

“Penso che si stia uccidendo,” mugugna Lestrade. “E la diavolo di parte peggiore è che penso che lo sappia e che non gli importi nemmeno.” Rinuncia finalmente alla battaglia fra sigaretta e non sigaretta, tornando a rovistare  nella sua tasca e tirandone fuori una, accendendola in fretta, vergognosamente, lanciando sguardi afflitti in direzione di Mycroft nel momento in cui fa il primo tiro.

“Lo so che dovrei smetterla,” dice il detective. “Probabilmente ci faccio la figura dell’ipocrita bello e buono, no? Sì, è così anche nella mia testa.”

“Non sono qui per giudicarla, detective.”

“Oh, certo che no.” Lestrade sorride. “Tutti giudicano tutti. Non è che possiamo impedircelo.”

Un sottile filo di fumo si leva pigramente al soffitto. Oscillante e simile a un fantasma.

Una decisione, presa.

~

 

Sherlock sta urlando.

La porta della camera da letto è stata messa sotto feroce assedio, oggetti scagliati contro in preda a una rabbia cieca e soverchiante, da inutili cuscini a pugni duri e disperati. “Fammi uscire, Mycroft! Bastardo, figlio di puttana, vecchia merda disgustosa, fammi uscire! Ti faro a pezzi con le mie mani, fottuto stronzo!”

Fuori, seduto tranquillamente sulla sua sedia con una tazza di caffè in una mano e il giornale nell’altra, Mycroft annuisce con aria indulgente. “Ma davvero,” dice. “Quanta caparbietà da parte tua.” Guarda con calma il proprio orologio. “Quasi dieci ore, mio caro ragazzo.”

Un altro rauco ruggito. Un altro suono attutito, molto più pesante dell’ultimo. Mycroft sospira.

“È per il tuo bene, Sherlock.”

Vi è una pausa di silenzio, seguita dal violento suono di qualcuno che vomita, e poi un grave ‘thunk’.

“Ti prego.” È un piagnucolìo, un gemito, un acuto. È Sherlock Holmes, arreso, disperato, supplicante, pietoso. “Ti prego, Mycroft, solo… Ti prometto che sarò… Ti prego…”

Mycroft piega la testa da un lato, le sopracciglia aggrottate.

“…ti prego… ti prego…”

Si ode un doloroso, soffocato singhiozzo dall’altra parte della porta che fa annodare lo stomaco di Mycroft in una maniera sconosciuta. Sospira e apre di nuovo il giornale. “Ci siamo quasi, fratellino,” mormora.

Nessuna risposta.

Il silenzio è persino peggio delle urla.

Mycroft beve tranquillamente un sorso del suo caffè e controlla l’ora.

Non sarà mai perdonato per questo.

Si dice che non gli importa, davvero.


~

La pioggia picchietta soffice contro il davanzale, formando piccole rosette d’acqua, fragili, che subito scompaiono.

Lo stereo è acceso, il volume tenuto basso.

“Detesto Mozart,” borbotta Sherlock dal divano.

“Sei a casa mia. Ascolteremo quello che deciderò io.” Mycroft fissa suo fratello con occhi stanchi e piega un angolo delle labbra all’ingiù. “Mi aspetto un pieno risarcimento dello spettacolare danno inflitto alla mia innocente camera da letto, comunque.”

Sherlock sbuffa, ma solo perché entrambi sanno che è povero come un topo di chiesa e mille volte meno fedele.

La musica continua.

Confutatis… maledictis…” Sherlock canta insieme al coro. “Cantano dell’inferno.”

“ ‘L’Inferno è vuoto, e tutti i diavoli sono qui,’ ” cita automaticamente Mycroft.
Lo sguardo di Sherlock si sposta su suo fratello, poi di nuovo se ne allontana. La sua vicinanza è strana e inusuale, quel corpo peculiarmente estraneo in questo contesto. “Com’è vero,” dice, prima di chiudere gli occhi.
“Non addormentarti,” mormora Mycroft dolcemente, incapace di nascondere il tono di rimprovero della sua voce. “Ti perderai la Lacrimosa.”

“Ho abbastanza lacrime da farmele bastare per una vita intera, grazie,” è la risposta quasi inudibile di Sherlock. Come sempre, come al solito, gli disobbedisce, e subito prende sonno.

Odora di fiele e di tabacco e di lui. Mycroft sente quello strano senso di vuoto farsi strada come un verme nel suo addome.

Per una volta, non riesce a scacciarlo via.

…Pie Jesu Domine, dona eis requiem… Amen.

 

 

 

 

riepilogo

~

 

 

 

 

 

“Non c’è modo di svicolare, signor Holmes. Le cercheremo un nuovo assistente prima che lei si ammazzi di lavoro.”

Il grugnito che Mycroft fornisce in risposta è senza impegno, se si vuole essere buoni. Sin dal disastro che fu Aiden Pawn, ha preferito di gran lunga rinunciare a che qualcun altro sbrigasse i suoi affari da poco al posto suo. Il sonno è per i deboli, dopotutto.

Non prende assolutamente sul serio la dichiarazione della segretaria fino a quando non entra nell’ufficio il lunedì seguente e trova una donna sorridente dai capelli scuri ritta di fronte alla sua porta, con una mano tesa verso di lui e l’altra che si stringe al petto un cellulare.

“Buongiorno,” dice.

“Buongiorno,” risponde lui.

Lei si chiama Eliza quado la incontra per la prima volta, e Rachel la settimana dopo, e Juliet quella dopo ancora, ma alla fine risulta sempre essere lo stesso paio di occhi luminosi e la stessa fidata presenza.

“Cosa sarà oggi, allora, mia cara?”

“Tiffany, penso. Mi è sempre piaciuto quel nome. Abbiamo l’incontro col segretario capo alle due, comunque.”

Mycroft si obbliga a ricordare Sarah Nedlin per la bellezza di trenta secondi, prima di obbligarsi a dimenticare.

Questa, lei, è diversa. Si avvicina così tanto al capirlo, persino. Ogni giovedì notte lei gli porta il suo tè e un fascio di registrazioni delle CCTV e le guarda con lui, e lui le racconta di Sherlock, a suo modo, inserendo qualche aneddoto qua e là.

Lei si china ad osservarlo e una volta dice persino, “Beh, deve amare davvero tanto suo fratello.”

È una delle rare volte nel corso della sua vita in cui Mycroft Holmes rimane veramente, completamente esterrefatto.

Si irrigidisce sulla sua sedia e si ritrova incapace di distogliere gli occhi dallo schermo in bianco e nero di fronte a lui – lo schermo in cui Sherlock continua ad affaccendarsi, a esistere, a respirare, più vivo e in salute di quanto probabilmente sarà mai.

Brillante, oh, così brillante. Mycroft si morde la lingua.

Dietro di lui, lei emette un piccolo verso di scuse.
“No, no,” mormora infine. “É molto probabile che sia…”

Si volta verso di lei e nota che lo sta guardando con un’espressione di estrema curiosità sul volto.
Poi Mycroft sorride e annuisce e avverte ancora una volta quel piccolo spasmo di piacevole dolore nel petto, e questa volta finalmente lo spasmo è stato chiamato col suo nome, e spegne il monitor.


~

Visita la tomba di sua madre a metà estate e le dice che aveva ragione a fare tesoro di Sherlock più di quanto avesse fatto tesoro di  lui, perché Sherlock era quello che ne aveva più bisogno.

Poi se ne va, se ne va per non ritornare mai più, se ne va e prende la decisione di mantenere tutte le promesse che ha fatto in vita sua, a lei e a tutti gli altri.

 

~

“Sapevo che ti saresti fatto vedere,” sta dicendo Sherlock, tutto saccente e imperioso. Tiene in equilibrio sulle delle dita pallide e sottili, quasi in punta, un bicchiere riempito a metà di disgustoso sherry. Mycroft ridacchia e fa “tsk” con la bocca.

“Hai trent’anni, Sherlock,” gli dice. “Trenta. Pensavo che i tuoi gusti si sarebbero raffinati un minimo, giunti a questo punto.”

“Che cosa adorabile per me.” Sherlock arriccia il naso. “Vuoi qualcosa?” Regge una sigaretta fra le dita pallide. Ha smesso con la cocaina. La nicotina sarà un’altra battaglia, suppone Mycroft. Sospira.

“Sono a posto, grazie.”

Sherlock prende un’altra boccata dalla sua sigaretta e guarda fuori dalla finestra. “Sentili,” dice, indicando pigramente la monotonia della città, le grida, le risate, la vita. “Sentili, quanto sono noiosi.”

Mycroft Holmes ha trentasette anni e si prende cura della propria intelligenza, perché è uno dei suoi pochi pregi che gli sia mai tornato utile. Ha perso ogni snellezza mai posseduta in passato, e quindi è possibile che una dieta gli farebbe bene, ma è troppo occupato a prendersi cura di Sherlock per potersi prendere cura di sé stesso. È così che va.

“Stai provocando un bel po’ di guai, in questi giorni,” dice Mycroft. “New Scotland Yard si lamenta spesso di te.”

“Bene! Bene.” Sherlock sorride, palesememente soddisfatto di perché. “Ce la sto facendo.”

Mycroft sospira. “Ancora ti ostini a suonare Scriabin quando Bach potrebbe bastare, vedo.”

“Sempre.” Un altro sbuffo. “Perché sei qui?”

“Non posso farti visita senza avere un motivo dietro?”

Un paio di occhi traslucidi vengono levati al cielo. “Santo cielo,” borbotta Sherlock. “Tu hai sempre un motivo dietro. Che cosa vuoi?”

Mycroft si accomoda sul divano e accavalla le gambe all’altezza del ginocchio. “Mi piace molto questo posto,” dice. “Molto meglio di quello di prima. Riesci a permetterti tutto ciò?” Indica la stanza attorno a sé, la confusione e il caos che seguono Sherlock ovunque lui vada.

“Non ho bisogno dei tuoi soldi.” Sherlock soffia anelli di fumo in direzione del soffitto. “So prendermi cura di me stesso, Mycroft.”

No, non sa farlo. Non l’ha mai saputo fare. Non riesce a capire che l’unica ragione per cui è vivo è perché ha sempre avuto qualcuno che lo proteggesse, che si prendesse cura di lui, che aprisse le porte giuste e chiudesse quelle sbagliate.

Sta meglio. Sta meglio, bene come non lo è mai stato; ora, se solo riuscisse a lasciarsi andare ogni tanto, a donare una parte di sé a qualcun altro di sua spontanea volontà-

Non penso che sarò mai capace di amare nessuno; tu pensi che ne sarai capace?

“Come stai?” chiede Mycroft, dopo un lungo e spoglio silenzio. “Sembri in letargo. Ti stai tenendo occupato?”

“Ho un lavoro, Mycroft,” sbotta Sherlock.

“Sì. Gli affari stanno palesemente decollando.”

“Il sarcasmo non ti si addice,” sibila Sherlock. “Fammi indovinare. Vuoi che venga a lavorare per te. Beh, è molto gentile da parte tua, Mycroft, ma la mia risposta è no, e puoi prendertela e ficcartela su per il-”

“Ti ringrazio, Sherlock.” Mycroft sorride con dolcezza e attraversa la stanza. “Molto bene. Credo che me ne andrò, allora.”

Sherlock balza in piedi, la cenere della sigaretta che cade e comincia lentamente a fumare attraverso il tappeto. “Tutto qui?” urla. “Non hai intenzione di… minacciarmi con una disintossicazione fatta con tutti i crismi o qualcosa di ugualmente poco fantasioso?”

“No.” Mycroft si mette la giacca. “No, riserveremo gli ultimatum per un’altra volta. É stato bello vederti-”

“Bugiardo.”

“-come sempre. Stammi bene, Sherlock.”

“Mangia un po’ di sedano, Mycroft.”

Mycrost sorride mentre si reca alla porta, girandosi giusto in tempo per vedere la bocca di Sherlock piegarsi in un sorriso petulante mentre alza le braccia in aria e ride vittorioso.


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Note della traduttrice: visto che la storia si rifà molto al mondo della musica classica, ho pensato di specificare alcuni particolari (che nemmeno io conoscevo – tradurre questa storia ha ampliato di brutto la mia cultura :D E’ bello quando succede :D). Tutte le informazioni sono parafrasate da Wikipedia.

1.      Alexander Scriabin (1872-1915), pianista e compositore russo, sviluppò un sistema musicale basato sostanzialmente sull’atonalità e sulla dissonanza, influenzato dal misticismo e dai suoi problemi di sinestesia. Può essere benissimo considerato l’opposto polare di Johann Sebastian Bach (1685-1750) e della leggendaria armonia delle sue composizioni. Si può supporre che i noiosi e conformisti ospiti di casa Holmes non sarebbero stati per niente felici di ascoltarlo – da qui la provocazione di Sherlock.

2.      Edward Elgar (1857-1934) è stato un compositore inglese, musicista auto-didatta, i cui lavori sono considerati classici (soprattutto i concerti per violino e violoncello) del repertorio musicale britannico. E’ meno conosciuto al di fuori dal Regno Unito.

3.      La “Messa da requiem in re minore” di Wolfgang Amadeus Mozart fu composta nel 1791 e lasciata incompiuta alla morte dell’autore.  Il Confutatis e il Lacrimosa citati nel testo sono rispettivamente il settimo e l’ottavo movimento.

4.      (Precisazione non musicale): “L’inferno è vuoto, e tutti i diavoli sono qui” è una citazione da “La Tempesta” di William Shakespeare.

  
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