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Autore: AleJen    20/10/2013    0 recensioni
Jennie è appassionata della materia dei suoi studi, studi danteschi, e si trasferisce a New York per essere seguita da un professore di fama internazionale. Ma lei è timida, e decisamente riservata a causa della situazione familiare che le grava sulle spalle. La presenza di David inoltre, professore decisamente bello ma scontroso e rigido, sembra non far altro che peggiorare la sua situazione... Anche se sarà proprio David a salvarla dal suo passato.
Genere: Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Violenza | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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“The place where I was born is by the shore, where the River Po runs down to rest at peace, with his attendant streams. Love, that is quickly caught in the gentle…”
<< Signorina Händel? >>.
Silenzio. Jennie era talmente presa dalla traduzione delle terzine chiave del canto, che non sentì nemmeno il professor Watson interrompere la spiegazione. Scribacchiava a matita la sua personale traduzione a fianco del testo originale. Ma trascorsero pochi attimi, e realizzò che non stava più parlando nessuno. Silenzio di tomba.
Alzò lentamente gli occhi, notando tragicamente che tutti la guardavano, la classe intera compreso l’insegnante, facendola rabbrividire più delle folate d’aria autunnale che c’erano fuori. Ci mancava solo che pure il muro e le lavagne avessero gli occhi. Ma più del resto dell’aula, la preoccupò proprio il professore.
A braccia incrociate sul petto, l’uomo la guardava con impazienza.
<< Può cortesemente dirmi che cosa sta facendo? >>.
<< Traducendo, professore >>. Seguirono un sospiro irritato del professore, e un paio di risolini femminili.
<< Traducendo. Signorina, stiamo analizzando la prima parte del canto da dieci minuti >>. Jennie abbassò lo sguardo, arrossendo improvvisamente sulle guance. Il professor Watson proseguì. << Sentiamo come ha tradotto, almeno >>.
Jennie abbassò leggermente il capo sul libro, la treccia bionda che le ricadde a lato del viso.
<< “The place where I was born is by the shore, where the River Po runs down to rest at peace, with his attendant streams. Love, that is quickly caught in the gentle heart, filled him with my fair form, now lost to me, and the nature of that love still afflicts me. Love, that allows no loved one to be excused from loving, seized me so fiercely with desire for him, it still will not leave me, as you can see. Love led us to one death. Caïna, in the ninth circle waits, for him who quenched our life.” >>. La voce delicata di Jennie riempì l’aula nell’articolare quelle parole. Il professore però continuò a osservarla con freddezza. Finché non schiuse le labbra.
<< Mi legga le stesse terzine in lingua originale, per cortesia >>. Aveva chiesto per cortesia, sì, eppure ciò suonò come l’ordine di un comandante. Jennie nuovamente abbassò gli occhi sul libro.
<< “Siede la terra dove nata fui/su la marina dove ‘l Po discende/per aver pace co’ seguaci sui./Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende,/prese costui de la bella persona/che mi fu tolta; e ‘l modo ancor m’offende./Amor, ch’a nullo amato amar perdona,/mi prese del costui piacer sì forte,/che, come vedi, ancor non m’abbandona./Amor condusse noi ad una morte./Caïna attende chi a vita ci spense”. >>
Jennie aveva letto le terzine in un italiano dolce e melodico, così incredibilmente perfetto da sembrare la sua lingua madre, lasciando senza parole il resto dei presenti che la osservarono attoniti e facendo sparire ogni sorta di sorrisetto dalle facce degli elementi femminili. Ma ciò non fece cambiare in meglio nemmeno di mezza virgola l’atteggiamento del professore.
<< Molto bene. E ora, se non le chiedo troppo, la pregherei gentilmente di seguire, perché non ho la minima intenzione di ripetere mezza sillaba. Sono stato chiaro? >>.
<< Sì, professore >>. Gli studenti tornarono a voltarsi verso la lavagna, e pochi secondi dopo, il professor Watson prese un gesso e scrisse alla lavagna in una calligrafia ordinata ed elegante. Jennie notò come non appena lui si fosse voltato di spalle, diverse ragazze sospirarono. Beh, sicuramente non per la simpatia. Il professor Watson era indubbiamente un bell’uomo. Alto, con il fisico degno di un modello, trentenne o giù di lì. La pelle non molto chiara, i lineamenti che nell’insieme creavano un’armonia perfetta nella bellezza, capelli appena mossi e scuri, occhi gelidi. Ma tutto ciò era stato violentemente stroncato dalla sua espressione così amaramente severa, che non lasciava trasparire alcun… nulla. Niente compassione, né ammirazione per un lavoro ben fatto, nulla di tutto ciò.
 
Jennie si sentì notevolmente sollevata, ora che erano finite le lezioni. Una fastidiosa giornata di metà ottobre, un sole praticamente inesistente nascosto da strati di nubi grigie dai primi accenni dell’arrivo imminente del decadere della natura, anticipato dalle foglie gialle e rosse degli alberi del campus che venivano scosse da un venticello pungente. Esso la costrinse a chiudere la zip del giubbotto in (eco)pelle marrone e senza collo, sostituito da un foulard bianco a motivo a rose, di un rosa pallido che non le mettevano troppo in risalto.
Dannato professore. “Vai a New York, vedrai che lì troverai professori molto validi per preparare la tesi”. Sì, indubbiamente. Solo si aspettava che il professore specializzato negli studi di Dante fosse un ultrasessantenne magari burbero , ma almeno un po’ più clemente. E invece si era trovata un professore fin troppo bello, giovane, ma incredibilmente stronzo. Che poi, se non seguo, saranno affaracci miei? O ti dà fastidio una ogni tanto che non sta lì a sbavarti dietro come un cagnolino? Maledetto stronzo.
<< Jennie?! >>. Udì chiamare il suo nome, e si voltò.
<< Es tut mir leid für heute [Mi dispiace per oggi] >>. Jennie vide una ragazza della sua età circa, dagli occhi azzurri e i capelli rossicci, un fiore appuntato sopra l’orecchio e portava un abito blu abbastanza stretto a maniche lunghe. L’aveva notata in classe, sedeva in fondo alla fila di banchi davanti a lei, vicino alla finestra. Lei sorrise.
<< Oh, beh non è nulla… >>.
<< Ist alles ok? [E' tutto ok?] >>. Jennie osservò la ragazza con i suoi occhi verdi, ascoltando la sua buona pronuncia. Le faceva piacere che qualcuno le portasse rispetto. In fondo, non aveva fatto male a nessuno.
<< Si si, va tutto bene, grazie. Ma quello è sempre così? >>. La ragazza sospirò.
<< Non capisco che gli sia preso oggi, o che era particolarmente girato male… >>. Jennie la guardò nell’essere sopraffatta dai pensieri. << Non si è mai accanito tanto con un allievo >>.
<< Ah, magnifico! >>, rise amaramente Jennie. << Iniziamo bene >>.
<< Stai tranquilla, Watson non è certo noto per la sua simpatia. Magari lo fa solo perché sei nuova, secondo me gli passa. Comunque… >>. La ragazza le tese la mano. << Io sono Isabel McCormick >>. Jennie le strinse la mano.
<< Jennie Händel >>.
<< Wow, hai un bel nome >>. Jennie sorrise, ringraziandola. Ma poi finì per ricadere nei suoi pensieri, e sospirò.
<< Non prendertela, Jennie. Lo sanno tutti che Watson è uno stronzo, vedrai che magari tra qualche lezione ti avrà già dimenticata >>. Jennie increspò le labbra.
<< Speriamo. Anche perché vorrei specializzarmi proprio in ciò che insegna lui, purtroppo direi >>. Isabel sgranò gli occhi.
<< Davvero? Allora ti conviene già iniziare a studiare, se vuoi andare avanti con lui devi eccellere. Per questo siamo pochi iscritti ai suoi corsi, se hai fatto caso ora con te siamo in nove. Guarda Nick, ad esempio >>. Jennie corrugò la fronte.
<< Chi? >>.
<< Nick Steinbeck >>. Isabel prese Jennie per una spalla, facendola voltare verso il porticato da cui erano uscite. C’era un gruppetto di ragazzi vicino ai gradini dell’entrata, e Isabel ne indicò uno.
<< Il biondino, del nostro corso. Lui è bravo, anche se non ha almeno 29 in tutto. Perciò Watson gli complica la vita il triplo, e gli fa ripetere per la terza volta l’esame sulla politica di Firenze, un corso dell'anno scorso >>. Jennie restò a fissare il ragazzo che ricordava di aver visto in classe, alto e biondo, portava il giubbotto blu con gli stemmi di qualche college americano e aveva gli occhi chiari. Poveretto.
<< Accidenti >>. Isabel scoppiò a ridere.
<< Ehi, non volevo spaventarti. Su, su che andrà bene! >>. Jennie guardò la compagna di corso inarcando un sopracciglio.
<< Tu dici? >>.
<< Ma certo. Caspita, nel leggere le terzine hai ammutolito anche quella troia di Sharon! Lei che si crede miss-so-tutto-e-viaggio-a-trenta, si vanta di essere la più brava del corso di Watson e che per carità, l’italiano lo sa molto bene >>.
<< Chi è, quella che teneva perennemente la mano alzata a ogni domanda? >>. Isabel annuì.
<< Sì, proprio lei. Non l’ho mai sopportata. Ah, ma vedi come ci resterà di merda! >>.
<< Ma cosa ha fatto di così grave? >>.
<< Crede di essere la migliore del corso, e in più cosa fa? Vuole diventare la futura signora Watson. No ma, ma…ti sembra logico? >>. Jennie la guardò per un attimo, poi scoppiò a ridere.
<< Oddio, ma cos’è, una barzelletta? >>.
<< Notalo nelle prossime lezioni, senza dare nell’occhio. Avrai di che divertirti >>.
<< Beh dai, almeno c’è qualcosa di cui ridere. Ma scusa, di cosa dovrebbe restarci di merda? >>.
<< Del fatto che è arrivato qualcuno di migliore di lei, e voglio proprio vedere adesso! >>. Jennie restò sorpresa.
<< E chi, io? >>.
<< Ovvio, e chi se no? >>.
<< Dai, non esagerare! >>. Ma Isabel scosse la testa, convinta della propria affermazione.
<< Non esagero, mi baso sui fatti. Prima ho notato che quando hai letto le terzine, Watson non ha aperto bocca >>.
<< E cosa c’è di strano? >>.
<< C’è che da quando ho iniziato il suo corso, quindi dall’anno scorso, l’ho sempre sentito correggere qualsiasi malcapitato, anche Sharon e anche me. Il suo italiano è perfetto. Perciò credimi, ritieniti un’eccezione e tieni a mente che le tue capacità sono già molto elevate >>. Jennie non riusciva a crederle. Era sempre stata abituata al fatto che chi se la cavava abbastanza bene poteva permettersi di non essere corretto, non le eccellenze. Ma forse quella era stata una realtà d’oltreoceano. Che poi, IO sarei un’eccellenza? Bah….. Ridacchiò.
<< Inizio a vedere un barlume di speranza >>.
<< Sì, ma fa’ come se non ti avessi detto nulla >>.
Improvvisamente, il cellulare di Jennie iniziò a suonare. Lo trovò sepolto nella borsa, e notò che era il numero della segreteria.
<< Sì? >>.
<< Jennie Händel? >>. Corrugò la fronte, aveva forse dimenticato qualche documento? Eppure era certa di aver portato tutto ciò che serviva, anche ciò che era potenzialmente inutile.
<< Sì, sono io >>.
<< È la segreteria, volevamo comunicarle che il professor Watson le ha fissato un appuntamento per le tre. Lei sarebbe disponibile? >>. Jennie restò di ghiaccio, e non per la temperatura. E ora che cosa accadeva? Non l’aveva già strigliata abbastanza?
<< Sì…sì, io sono disponibile >>. Guardò l’orologio, mancava solo un quarto d’ora. Ma la segretaria aveva notato il suo tono di voce vacillante.
<< Ne è sicura? Altrimenti si presenta qui e rimandiamo l’appuntamento >>. Effettivamente era una proposta allettante, ma forse era meglio che si togliesse subito il pensiero.
<< Sì, confermi pure l’appuntamento alle tre. Grazie per avermelo comunicato >>.
<< Si figuri. Arrivederci >>. Quando Jennie premette il tasto di chiusura della chiamata, le tremava la mano. Isabel l’aveva guardata in ogni minimo secondo della conversazione.
<< Successo qualcosa? >>.
<< Dove riceve Watson per gli appuntamenti? >>. Isabel non sapeva se mostrare compassione, sorriderle o farle le condoglianze. Scelse di sospirare.
<< Vieni, ti accompagno >>, rispose infine mettendole una mano sulla spalla, per cercare di confortare almeno un po’ la nuova studentessa, e amica.
 
Jennie bussò piano alla porta dalla targhetta “D. G. Watson”. Le sarebbe piaciuto che Isabel fosse rimasta con lei, ma per ragioni puramente ovvie ciò non era possibile.
<< Avant i>>, giunse dall’interno. Jennie sospirò, abbassò la maniglia ed entrò.
Uno studio non molto grande, ma accogliente ed arredato con gusto, elegante ma non austero, con elementi classici ed elementi moderni. Addossati alle pareti c’erano scaffali in legno colmi di libri e raccoglitori, tutto perfettamente in ordine. Al centro, su un tappeto che aveva tutta l’aria di essere un originale e raffinato persiano, due poltrone dal rivestimento in pelle nera davanti a una scrivania dall’intelaiatura in ferro e la superficie in vetro. Dietro di essa sedeva Watson, che aveva indossato una giacca da completo scura adatta per il quotidiano sulla sua camicia bianca.
<< Buongiorno, professore >>. Il professor Watson alzò lo sguardo dal portatile posandolo sulla sua studentessa da dietro le lenti di un paio di occhiali dalla forma moderna, grandi e neri. La camicia aveva i primi bottoni aperti e lasciava intravedere il petto. Lui abbozzò un misero sorriso. Ora che lo osservava meglio, capiva le reazioni delle sue compagne di corso.
<< Prego, si accomodi >>. Jennie si avvicinò senza aggiungere nulla, cercando di mostrare una serenità che era puramente finta. Appoggiò la borsa decorata con un motivo a rose fucsia su fondo a righe bianche e blu sul tappeto, e si sedette sulla prima poltrona che incontrò. Il suo insegnante l’aveva seguita con lo sguardo in ogni suo movimento, finché i loro occhi non si incontrarono.
<< Allora, signorina >>, disse infine lui. << L’ho notata particolarmente preparata questa mattina. Lei da quanti anni studia l’italiano? >>. Watson unì le mani davanti a sé, unendo le punte delle dita.
<< Accademicamente, da otto anni >>.
<< Ciò mi lascia intuire che lei l’ha appreso anche al di fuori dell’ambito scolastico >>.
<< Sì, ho vissuto in Italia per qualche anno, da piccola >>.
<< E come mai ha deciso di venire a studiare qui? Proprio al suo ultimo anno accademico, per giunta >>.
<< Mi è stato consigliato dal mio professore, dato che volevo specializzarmi nello studio di Dante >>.
Jennie era ferma e concisa, dato che aveva l’impressione che il professor Watson fosse il classico tipo “voglio una risposta alla domanda, non un trattato”. Lui sorrise, ma a lei quel sorriso non piacque.
<< E perché non è andata a studiare a Firenze, ad esempio? Avrebbe potuto almeno essere più vicina a ciò che è materia dei suoi studi >>. Jennie aggrottò la fronte, decisamente irritata. Le parole “studiare a Firenze” le avevano risvegliato dei ricordi legati a una persona in particolare del suo passato. Infine abbassò lo sguardo, sconfitta. Il solo pensiero la rattristava.
<< Non mi è stato possibile >>. Perché questo emerito idiota somiglia così tanto a lui?
<< Quindi piuttosto ha attraversato l’oceano ed è venuta a New York >>. Jennie iniziò a spazientirsi seriamente, erano rare le persone che riuscivano a smontarla in quattro. E soprattutto, odiava le provocazioni.
<< Sì. Le crea qualche problema professore, se non ho potuto permettermi l’anno in un’università privata? >>.
Gli occhi di Watson si infuocarono davanti a quella risposta, che Jennie si domandava come avesse fatto a uscire dalle proprie labbra. Le iridi blu sembravano fiamme ossidriche. Watson prese un fascicolo di carte, fogli e scartoffie varie alla sua destra, da cui estrasse un foglio nel mezzo con modi non troppo delicati. Forse l’ho fatto incazzare… Scheisse!
<< Veda di contenere i toni signorina Händel, perché il suo comportamento non le è raccomandabile al suo secondo giorno >>. Watson le indirizzò un’altra occhiata poco amichevole, che la fece rabbrividire nonostante il giubbotto. << Io la avverto, la prego di ascoltarmi. Comunque ho notato che la sua media nella mia materia è sempre stata sul trenta…mmm… Il suo professore all’università di Monaco è stato Heinrich Schiele, giusto? >>. Jennie annuì.
<< Sì, dal primo anno >>.
<< Allora ciò mi conferma la sua preparazione anche dal punto di vista contenutistico, conosco bene il suo insegnante. Quindi le farò un test senza dover aspettare le sessioni d’esame, voglio valutarla io stesso >>. Non vedo l’ora, guarda. Jennie si trattenne dal sospirare, guardando l’insegnante dagli occhi di ghiaccio.
<< Certo >>, si limitò a rispondere. Cercò di rivolgergli la parola solo per lo stretto necessario, non voleva proprio parlargli. << Su quali argomenti? >>, gli domandò in seguito restando sulla difensiva, dubbiosa sul fatto che quello fosse un colloquio o uno scontro con il nemico in mezzo alla foresta dove cerchi qualsiasi nascondiglio per salvarti la pelle. Il professore si fece pensieroso.
<< Mmm…le scrivo un breve programma >>. Jennie lo osservò nello spostare l’attenzione al portatile, e iniziare a scrivere. Vedremo qual è la sua concezione di breve. A Jennie non sembrava di parlare con la stessa persona con cui si era scontrata la mattina stessa a lezione. Era ancora peggio. Si domandava come quelle ragazzine che frequentavano il suo stesso corso morissero dietro a uno stronzo stratosferico come lui. Va bene, sull’aspetto fisico non c’era nulla di che discutere, era perfetto. Punto. Ma la cosa finiva lì.
La stampante che stava da qualche parte nello studio iniziò a borbottare, e il professore si alzò. Jennie distolse lo sguardo, voltandosi verso la finestra e lanciando un’occhiata fuori. Ma immediatamente sentì Watson schiarirsi la voce.
<< Signorina Händel? >>. Jennie si voltò verso di lui. La stava nuovamente guardando con impazienza, e fastidio. Aveva appoggiato il foglio di fronte a lei, senza spiccicare parola, restando in piedi a braccia incrociate sul petto. Jennie prese il foglio e lo osservò senza fare caso a lui.
Le righe erano delimitate in una cornice, e in alto c’era scritto il suo nome in un carattere elegante. Appena sotto, un elenco puntato composto solo da due voci. La prima portava il titolo “Schriftliche Prüfung” [Esame scritto] . Subordinato a quella voce vi era un altro elenco intitolato “Der Ursprung des Stilnovo”, cui appartenevano “Der Minnesang (allgemein)” , “La lirica Provenzale (allgemein)” e “La Scuola Siciliana”. La seconda voce corrispondeva a “Mündliche Prüfung” [Esame orale] , sotto la quale c’era scritto “Il Dolce Stil Novo”. Lei sollevò le sopracciglia. Come mai è scritto in tedesco?
<< Per la prima valutazione ho preferito assegnarle un programma più discorsivo, che sostanzialmente è quello dell’anno scorso >>. Jennie annuì, non era poi così lungo. Le scocciava di più il fatto che fosse sia scritto che orale, ma pazienza.
<< Va bene >>, disse lei ritirando il foglio in una busta trasparente già piena di fogli. Nella borsa scorse la sua agenda, e si illuminò. Non le aveva detto la data. << E quando sarà questo test, professore? >>.
<< Lunedì 21. Veda di non prendere altri impegni >>. Jennie sospirò, e scribacchiò nella sua agenda di Monaco di Baviera, la sua città, del test in quella data. Secondo lei?, avrebbe voluto rispondere, invece lasciò posto a un semplice silenzio assenso. Ripose le sue cose nella borsa senza dire una sillaba, si sentiva a disagio in quel posto. Voleva uscire e respirare un po’ d’aria.
<< C’è altro, professore? >>, gli domandò infine Jennie, con la tracolla già in mano, pronta per andarsene e alla veloce. Watson continuava a guardare Jennie con ostilità e freddezza.
<< Sì. Vorrei metterla al corrente del suo atteggiamento a lezione. Se lei si presenta al corso vuol dire che lei è lì per seguire, quindi veda di non farsi più sorprendere a fare altro oppure se ne resti a casa sua e si prepari gli esami da sola. Se con Schiele era abituata così beh, con me è diverso. Se lo tenga bene a mente, perché non glielo ripeterò una seconda volta >>.
Jennie era rimasta a osservare Watson in silenzio, non sapeva come era riuscita a trovare il coraggio di essere restata a fissarlo negli occhi. Il suo discorsetto la mandava su tutte le furie, ma cercò di contenere la rabbia dietro a una maschera impassibile. E quando ebbe finalmente finito, prese la parola.
<< Mi permette una domanda, professore? >>.
<< Sentiamo >>.
<< Lei mi ha convocata qui per un colloquio oppure per umiliarmi? >>. Watson fu sorpreso della domanda, e lo zittì. Vedendo che, incredibilmente, la sua domanda era risultata come un fendente, proseguì. Non con arroganza, ma semplicemente seria e concisa. << Io non sono il tipo di persona che pensa lei, perché mi creda se le dico che non sono venuta qui per farle perdere tempo. Io ho un obiettivo che voglio raggiungere, che è laurearmi in studi danteschi, ed è quello che farò. Comunque le assicuro che l’episodio di questa mattina non si ripeterà più, mi scuso se l’ho infastidita >>. Jennie si sentì soddisfatta di aver fatto valere le proprie ragioni, soprattutto di avere confutato il giudizio affrettato – e sbagliato - che Watson le aveva dato, anche se ora lo temeva. Non aveva idea di come avrebbe potuto reagire. Anche se lui non aveva fatto altro che guardarla con freddezza per tutto il tempo.
<< È tutto, signorina Händel? >>. Lei si alzò in piedi e mise a spalla la tracolla. Sentiva già profumo di libertà.
<< È tutto. Arrivederla >>. Il più velocemente possibile, andò ad aprire la porta e la lasciò sbattere alle sue spalle.
 
Jennie stava in piedi nel porticato antistante l’edificio principale, appoggiata a una colonna che sosteneva l’arco principale davanti alla porta. Un bel po’ di gente stava sotto al portico, essendo sprovvisti di ombrello. Si era messo a piovere all’improvviso, confinandola lì sotto fino a quando la pioggia non sarebbe almeno diminuita di intensità e dopo forse sarebbe corsa fino alla fermata del bus. Abbassò lo sguardo sul cellulare e alzò il volume della musica, permettendole di evadere il mondo almeno per tutta la durata della canzone che amava di più.
The last time you fall on me for anything you like, your one last line you fall on me for anything you like and years make everything alright you fall on me for anything you like, and I, no, I don’t mind.
This is the last time, dei Keane. Era la canzone preferita di lui ai tempi in cui l’aveva incontrato, e avevano stabilito assieme che era la loro canzone. Riusciva sempre a rasserenarla, ogni volta che la ascoltava, indipendentemente il testo. Le veniva una gran voglia di cantare il ritornello anche lì in mezzo alla gente, proprio come quel giorno al mare con lui, infischiandosene degli altri. Per dimenticare lo scontro con il suo insegnante, per rifugiarsi in quei pochi ricordi belli che aveva, talmente significativi per lei che se li teneva sempre stretti stretti e non li abbandonava mai. Nemmeno Watson glieli avrebbe strappati via, no, mai.
Una mano dal nulla le si poggiò sulla spalla. Jennie sussultò, domandandosi chi osava interrompere la sua canzone. Poi si voltò, sfilandosi una cuffietta sola dall’orecchio. Restò stupita per niente piacevolmente di ritrovarsi faccia a faccia con Watson. Cosa vuole ancora da me, quest’uomo? Umiliarmi anche davanti al resto dell’università? Cos’ho sbagliato? E da quanto tempo è qui? Deglutì a fatica.
<< Posso parlarle? >>. Lei lo guardò negli occhi con sofferenza, anche se le fiamme azzurre erano sparite. Poi annuì. << In privato >>, aggiunse lui. Quelle parole le fecero prendere un colpo, ancora lei si domandava che cosa aveva fatto adesso.
<< …sì, certo >>, abbozzò Jennie mentre fermava la musica sul cellulare. Fece per girarsi verso l’ingresso ma Watson, nel suo trench firmato (si vedeva che non era, per così dire, comprato al mercato. Non ci giurava, ma le sembrava un Burberry) si avvicinò al muro d’acqua e aprì un grande ombrello nero.
<< Venga >>. Jennie si guardò attorno, praticamente quasi tutti la stavano guardando. E due! In un giorno solo, a causa della stessa persona. Poi sospirò tra sé e si avvicinò a lui. Meglio non farlo aspettare ‘sto qua, che poi si incazza.
Jennie seguì Watson lungo il vialetto deserto, sotto al suo ombrello abbondante per due senza rischiare di prendersi nemmeno una gocciolina.
<< Cosa deve dirmi, professore? >>, domandò infine Jennie spezzando il silenzio. Watson non la degnò di mezzo sguardo (che forse era sempre meglio delle fiamme ossidriche), guardando il vialetto davanti a sé. Lei attese una sua risposta, prima o poi, realizzando a quanto fosse… strana quella situazione.
<< Volevo solo chiederle scusa per prima >>, le disse sempre indirizzando i suoi zaffiri azzurri in qualsiasi direzione tranne che nella sua. Jennie scosse la testa.
<< Non doveva, professore >>. Questa volta Watson si bloccò di colpo, voltandosi verso di lei. La sua occhiata fu talmente intensa che rischiò di prenderle male.
<< Sì, invece. Mi sono lamentato di lei, quando riflettendoci bene l’ho giudicata male. Mi dia modo di confermarmi che non mi sbaglio >>. Jennie restò bloccata dalla sua occhiata ancora per un attimo. Poi cercò di sbrigarsi a rispondergli, dato che a quanto pare il professor Watson era di pazienza limitata.
<< Certo professore, lo farò >>. Watson si fece di nuovo pensieroso, mentre riprendeva a camminare in silenzio, e Jennie lo seguiva disperatamente solo per non finire sotto alla pioggia. Dove diamine sta andando? Non può almeno degnarsi di dirmi una mezza sillaba, un “se ne vada” così posso correre a prendere il bus in santa pace? Jennie sospirò, poi prese coraggio per rivolgersi di nuovo a lui.
<< Professor Watson, posso…? >>. Lui la interruppe.
<< Le do un passaggio fino a casa >>, disse come se si fosse improvvisamente risvegliato dal profondo dei suoi pensieri, e non avesse minimamente sentito cosa aveva detto lei.
Cosa?! Se è un incubo, per favore qualcuno mi svegli.
<< Ma professore, veramente… >>. Lui scosse la testa.
<< Niente “ma”. Mi segua >>. E così il professore prima offendeva, poi si scusava, poi imponeva quello che voleva lui. Jennie annuì impercettibilmente, seguendo Watson. Un vento freddo si alzò, spostando la traiettoria delle goccioline d’acqua. Jennie fu obbligata a diminuire la distanza di sicurezza che teneva da lui, se non voleva bagnarsi.
<< Non vorrei disturbarla >>, continuò Jennie, sperando che la ascoltasse. << Dovrebbe passare il bus a breve >>. Ma Watson non sembrava minimamente intenzionato a cambiare idea, la fulminò con lo sguardo (un lampo blu da restarci secchi), e proseguì per la sua strada. Ok ok, scusi tanto!, pensò lei dopo essersi ripresa dal fulmine. Aveva perso la sua battaglia.
Davanti a loro si aprì un parcheggio. Non c’erano molte vetture, ma quelle presenti erano tutte automobili tedesche. Poche ma buone! Watson si avvicinò a un SUV nero del quale disinnestò l’allarme con la chiave che estrasse dalla tasca del trench. Era una Q5 in versione sportiva S line, e lasciò Jennie piacevolmente stupita.
<< Prego >>. Jennie alzò lo sguardo e vide Watson che le teneva aperta la portiera. Lei arrossì.
<< Grazie >>, rispose con un filo di voce e si arrampicò sul sedile posto un po’ troppo in alto per i suoi gusti. Watson richiuse la portiera con un colpo secco e Jennie si allacciò immediatamente la cintura, per poi prendere la propria borsa e abbracciarla a sé come si fa con un cuscino. Gli interni erano sulle tonalità del grigio e del nero, tutto pulitissimo perfetto e impeccabile. Dal profumo si sentiva che l’auto era nuova.
Nel frattempo, Watson era salito al posto del conducente , abbandonando l’ombrello sul tappeto dietro al sedile. Poi osservò Jennie, così accoccolata alla borsa, e il suo sguardo si fece interrogativo.
<< Si sente bene, signorina Händel? >>. Lei alzò lo sguardo, trattenendolo su di lui per un microsecondo. Poi annuì.
<< Sì, sto bene >>.
<< Dove abita? >>.
<< Brown Street, numero 18 >>. Watson si dedicò a infilare la chiave nel blocchetto e avviò il motore.
<< Le dispiace se metto un po’ di musica? >>. Jennie scosse la testa.
<< Certo che no, si figuri >>.
La Q5 fece marcia indietro e uscì dal parcheggio, quando il suono di una batteria e chitarre elettriche riempì l’abitacolo.
She’s my cherry pie, cool drink of water such a sweet surprise, tastes so good makes a grown man cry, sweet cherry pie. Jennie restò a bocca aperta nel sentire una canzone così rock provenire dallo stereo nell’auto del professor Watson. Guardò lo schermo del computer in mezzo alla plancia, dove lesse Cherry Pie, Warrant, 1990. Probabilmente da lui si sarebbe aspettata un repertorio di musica classica o qualsiasi altro genere, non il rock. Ma con la coda dell’occhio lo notò tamburellare le dita a ritmo sul volante e ciò le fece capire che gli piaceva. Jennie si appoggiò al sedile, e restò a guardare fuori la giornata piovosa, umida e autunnale.
<< Se vuole può cambiare, il tasto è sullo schermo >>. Lei si voltò di poco a guardare il professore, e lui le sorrise, un sorriso sincero e come si deve, da un capo all’altro delle sue splendide labbra. Aveva tutta l’aria di un invito, perciò si raddrizzò e si allungò per cambiare canzone come le aveva proposto.
Un’altra chitarra elettrica si fece sentire, e una voce potente dopo l’intro. Jennie notò Watson inspirare a fondo, e socchiudere gli occhi per un attimo.
Mother, tell your children not to walk my way, tell your children not to hear my words, what they mean, what they say, mother.
Mother ’93, Danzig, 1993. Anche Jennie la conosceva, ricordava di averla sentita nel film “Una notte da leoni 3”, che era andata a vedere al cinema con Jörg, il figlio di Schiele, diversi mesi prima.
<< Le piace? >>, domandò Watson senza scollare gli occhi dal parabrezza. Sul suo viso si era dipinta un’espressione nettamente più serena, non più scazzata come non molto prima nel suo ufficio.
<< Sì, la conoscevo già >>. Lui ridacchiò.
<< Ho come l’impressione che i suoi e miei gusti musicali non corrispondano >>. Jennie scosse la testa.
<< Beh, dipende. Ad esempio, Mother a me piace >>.
<< Sono contento che le piaccia, è una delle mie preferite >>. Lei sollevò le sopracciglia, stupita del repentino cambiamento del professore. Da antipatico, stronzo, maleducato a loquace e piacevole. Sarà una copertura. Lei annuì, poi guardò fuori. Riconobbe la strada di casa fino alla sua Brown Street, deserta e tranquilla, che ospitava la sua casetta, l’edificio di mattoni poco più avanti.
Watson individuò il numero 18, e rallentò per accostare proprio davanti alla porta. A Jennie piaceva casa sua, l’edificio era un’ex costruzione industriale, a due piani e dalle finestre grandi, dalla quale avevano ricavato due appartamenti a piano terra e due piccoli loft. Lei viveva nel loft che dava sulla strada, era un ambiente piccolo tutto sommato, praticamente una stanza unica a soffitto unico dove era stato costruito un soppalco per la camera da letto, e una stanzetta attigua per il bagno.
<< È qui, giusto? >>, domandò di punto in bianco Watson. Jennie annuì, mentre guardava il titolo dell’ultima canzone iniziata da pochi secondi. I was made for lovin’ you, Kiss, 1979. Conosceva anche quella canzone, e il suo ritornello soprattutto. La ascoltava spesso lui, e le aveva insegnato le parole. I was made for lovin’ you, baby, you were made for lovin’ me, and I can’t get enough of you, baby, can you get enough of me?. Lui le aveva pure cantato quelle parole… Si mordicchiò un labbro solo al pensiero. Watson la osservò, e quando fu ricambiato le regalò di nuovo un sorriso.
<< Aspetti un attimo >>. Watson spense il motore, recuperò il suo ombrello dietro il sedile e scese dall’auto. Jennie lo osservò mentre raggiungeva la sua portiera. Quel trench gli stava divinamente. Le aprì la portiera, e Jennie scese facendo attenzione a non centrare qualche pozzanghera. Si trovò di nuovo sotto all’ombrello insieme a Watson, e lui la accompagnò fino alla porta dell’edificio. Jennie aprì la tasca esterna della borsa, frugando al suo interno finché non sentì il tintinnare del mazzo di chiavi, che ripescò sempre sotto lo sguardo non più irritato del professore. Infilò la chiave giusta nella toppa, poi si voltò verso di lui.
<< Ehm… La ringrazio professore, davvero >>.
<< Di nulla, signorina Händel. Se si fosse presa tutta quell’acqua avrebbe rischiato un malanno, e poi si sarebbe persa delle lezioni. Non sarebbe stato peggio? >>.
<< Beh, sì… ha ragione. Ora la lascio, devo ancora finire di riordinare un po’ di cose dalla valigia… Grazie ancora per il passaggio >>.
<< Si figuri. Allora le auguro buon pomeriggio >>.
<< Arrivederci, professore >>. Watson, in risposta, le sorrise un’ultima volta ma fu contagioso al punto che, per quanto scettica, Jennie ricambiò calorosamente. Poi il professore si allontanò e salì sulla Q5, mentre lei lo ammirava nel suo portamento elegante. Aspettò che lui se ne andasse, ma lo intravide trafficare con il telefono, perciò aprì la porta e sparì dietro di essa.
 
Il professor Watson fece rientro a casa con un paio di buste in più rispetto alla sua solita borsa nera. Appoggiò il tutto sul divano per tornare a lasciare il trench sull’appendiabiti all’ingresso del suo appartamento. Prima di arrivare a casa aveva fatto un salto da Burberry e da Tommy Hilfiger per comprare due cosette di cui sosteneva di aver bisogno. In realtà, la sua cabina armadio era già piena zeppa ma non ce l’aveva in mente. Da Burberry aveva comprato una sciarpa nuova con il tipico motivo a quadri con le linee nere e rosse su fondo beige, e da Tommy Hilfiger una camicia e un maglioncino grigio scuro. Era inutile, ormai in giornate gradevoli non ci sperava più.
Recuperò la sua borsa e se la trascinò nello studio. Era la stanza dove si sentiva più a suo agio, perché non permetteva mai a nessuno di metterci piede (non che avesse tanta gente in giro per casa, anzi), e quindi la sentiva come la parte più personale della casa dopo la propria camera da letto, altro luogo in cui non permetteva a nessuno di entrare e tantomeno di condividere il suo letto, sebbene matrimoniale. Voleva condividerlo con una precisa persona sulla faccia della Terra, anche se era consapevole che era una follia. Probabilmente avrebbe dovuto decidersi ad abbandonare l’idea, il tempo passava e le cose non erano sicuramente migliorate. Non è ancora arrivato il momento di arrendersi.
Aprì svogliatamente la borsa e ne estrasse i libri, che appoggiò sulla scrivania di legno scuro. Poi alzò lo sguardo, che finì dritto sulle uniche foto che teneva esposte in tutto l’appartamento. Erano due cornici non molto grandi, ed erano il motivo per cui non permetteva a nessuno di entrare. Ne era gelosissimo, e avrebbe tenuto lontano chiunque a costo di mettere il filo spinato o la corrente elettrica alla porta. Afferrò una cornice, e restò a fissarla. Osservò da dietro le lenti degli occhiali la ragazza dai capelli biondi seduta sugli scogli vicino a una chiesetta. Alle sue spalle, il mare. Con l’indice tracciò il contorno della sua figura sul vetro, e inspirò a fondo chiudendo gli occhi. Il profumo di lei si fece di nuovo vivo, nonostante lei non fosse lì. Non riesco a credere che sei così vicina a me…, pensò riaprendo gli occhi e guardando la foto con un velo di malinconia. Indirizzò gli occhi azzurri all’altra cornice, che inquadrava la ragazza e lui nell’estate che precedeva l’anno della laurea. Si abbracciavano, e lei aveva gli occhi sorridenti. A Watson vennero i brividi nel notare quel dettaglio, e i suoi pensieri guizzarono a quella mattina.
La sua nuova studentessa era molto bella, aveva lunghi capelli biondi e gli occhi color nocciola. Occhi stupendi, che a seconda della luce assumevano sfumature sulle tonalità del verde, ma erano spenti. Non brillavano, erano lontani. Ma portava il profumo della ragazza della foto. Si chiamava Angel ed era la sua fragranza preferita, lei lo metteva sempre. Quando la studentessa più di un’ora prima aveva cambiato canzone sullo stereo della sua auto, dal suo foulard a rose era salita a lui la scia di quel profumo intenso. Che dire poi della sua reazione davanti alla canzone dei Kiss? Lui aveva insegnato a quella ragazza le parole del ritornello, ovviamente per il significato. Un ultimo elemento, poi, gli aveva dato conferma della sua teoria. La sua studentessa, che mentre ascoltava la sua musica sul cellulare sotto al portico dell’edificio principale del campus, ascoltava This is the last time, l’aveva sentita provenire dalle cuffie e aveva letto il titolo sullo schermo. Watson guardò di nuovo la foto di loro due assieme. Quella era la loro canzone, ma non per il testo. Piaceva a entrambi, tutti e due la trovavano bella, e avevano stabilito che era loro.
Da principio l’idea l’aveva lasciato perplesso, è impossibile, si era detto mentre la stava ascoltando leggere in italiano. Ma tutti quegli elementi combinati assieme, compreso l’aspetto fisico, l’avevano portato a quella precisa conclusione. Jennie Händel è la mia Jennie. L’abbinamento dei due fattori lo lasciava ancora un po’ frastornato, ma non c’era ombra di dubbio. La sua Jennie, la ragazza bionda della foto dietro al vetro della cornice che aveva osservato e guardato tutte le volte che aveva bisogno di sentirla vicino a sé, e cioè ogni giorno per tutti i quattro anni che avevano seguito quell’estate. Da quando l’aveva incontrata, non si era mai innamorato di un’altra donna. E sì che ne aveva incontrate un bel po’. Loro due si erano sentiti per quasi un anno ma poco prima che lui si laureasse, quando voleva chiamarla per invitarla ad andare a vederlo, non c’era più, il numero chiamato è inesistente, e lei era sparita nel nulla. Ogni volta che ci pensava ancora si domandava il perché, così di punto in bianco, anche se lei era sempre stata felice di sentirlo fino all’ultima volta, lo sentiva dal tono della sua voce.
Sentì una fitta nel petto nell’affrontare il ricordo. Dopo che lei era tornata a casa dalla vacanza, gli era rimasta la sua voce per telefono quando lui la chiamava, sempre. Poi gli fu sottratta anche quella, brutalmente, come se l’unico filo rosso che li teneva ancora legati da un punto all’altro dell’Europa fosse stato tagliato da un paio di forbici. Era sorpreso dal dolore che gli aveva causato, non perché non l’avesse presa seriamente, ma perché la loro era stata una “relazione” di una settimana e nemmeno approfondita. Non erano mai stati insieme durante quei giorni in cui non si riuscivano a staccare l’uno dall’altra. Jennie era molto dolce e lui la vedeva comunque fragile, perciò si era trattenuto dal prenderla, portarla sul letto della sua camera d’albergo e fare l’amore con lei. Si era promesso che sarebbe capitato magari l’estate seguente, quando si sarebbero organizzati e sarebbero andati di nuovo in vacanza insieme.
Sospirò, sfiorando di nuovo il viso di Jennie nella foto. Nulla di tutto ciò era mai accaduto. Ma un altro pensiero gli guizzò in mente, facendolo riprendere dalla spirale di malinconia in cui stava cadendo per l’ennesima volta. Jennie era lì, ora. Per qualche ironia della sorte era addirittura diventata una sua studentessa, dato che era stato proprio lui a insegnarle le nozioni di base della Divina Commedia. Avrebbe cercato, lentamente, di riavvicinarla a lui. Avrebbe atteso tutto il tempo che serviva, ma l’avrebbe riavvicinata.
Riappoggiò la cornice sulla scrivania, e sorrise. Non la perderò una seconda volta.
  
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