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Autore: iwashere    21/10/2013    3 recensioni
Dalla storia:
"E forse, andare di proposito contro ad altre macchine, anche se solo per gioco, gli farà venire un po’ da vomitare una volta tornato a casa.
Ma può sopportarlo, se Kitty continua a guardarlo così e a sorridere felice.
Divertente come i ricordi si ripresentino sotto altri aspetti e con altre persone e formino quelli che chiamiamo dejà vu, vero?"
Genere: Angst, Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Artie Abrams, Kitty Wilde
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Pairing: Artie/Kitty appena accennato.
Genere: Introspettivo, Angst, Generale.
Avvertimenti: Missing moment.
Rating: Verde.
Parole: 1480.
Note D’autore: Non è nulla di che, sono solo io che amo Artie all’inverosimile e a vederlo su un autoscontro proprio non mi sono sentita contenta. Per il resto ci vediamo sotto. <3
Note di betaggio: La mia adorabile Sara, come sempre.
Disclaimer: Glee non mi appartiene, ma tanto lo sapete già, no?
 

Cars.


Artie ha sei anni, quando sua madre per farlo contento se lo appoggia sulle ginocchia e lo fa giocare con il volante dell’auto parcheggiata davanti al supermercato di Lima. Artie quel giorno ride di cuore, mentre con le sue manine stringe forte il cerchio nero giusto un po’ sfocato davanti ai suoi occhi, il braccio di sua madre stretto attorno alla vita e giusto qualche diottria in meno di un normale bambino.
Artie ha sei anni, un appuntamento dall’ottico per la settimana prossima, eppure non importa, perché è felice e si sente grande, perché non ci vuole niente a guidare una macchina.
 

* - * - *

 
Artie ha otto anni, quando le macchine smettono di divertirlo e di essere belle e cominciano a fargli paura a morte.
Ha otto anni, Artie, quando le sue gambe smettono di rispondere a quello che chiede. Si sveglia in ospedale, sua madre nel letto accanto al suo – non dovresti essere in questo reparto, ma volevamo che ti sentissi più al sicuro vedendola al tuo risveglio. – e le persone sembrano non sapere che il suo cervello è più grande e sviluppato di quello che sembra.
Lo trattano come il bambino che è, e Artie lo odia. Odia quando di notte, le infermiere sparite da qualche parte dietro la porta bianca della sua stanza – tutto è dannatamente bianco e sterile e anonimo in quel posto, come se nessuno prima ci fosse morto o guarito – Artie piange perché vorrebbe alzarsi da solo per andare in bagno e invece deve premere il tasto rosso sul telecomando alla sua destra, appeso a quel letto che non è suo e che odia.
Sua madre si sveglia due giorni dopo di lui – lei era al volante ed è stata più esposta all’impatto frontale, è normale signor Abrams, starà bene. – e quando le spiegano cos’è successo, la sua memoria troppo traumatizzata perché possa ricordarlo, lei lo guarda e quando Artie sorride, piange.
Piange perché suo figlio ha otto anni, porta gli occhiali perché non vede bene da lontano ed è su una sedia a rotelle.
 

* - * - *

 
Artie ha dodici anni, quando lancia a sua madre l’idea di costruire una rampa per collegare il soggiorno all’ingresso. Perché non ne può più di dover aspettare lei per poter andare da una stanza all’altra solo perché quella maledetta sedia non glielo permette.
Sua madre non è mai stata così fiera di lui, e lo ripete a bassa voce mentre lo aiuta a mettere via i libri e a rimboccargli le coperte.
“Sei così piccolo tesoro, eppure sei molto intelligente.” Un bacio sulla fronte. “Ti voglio bene, buona notte.”
È da tanto tempo che la mamma di Artie non piange più. Perché la verità è che Artie ci vede poco e male – le sue lenti spesse e colme di dettagli che lui non riuscirebbe a cogliere altrimenti – ama i fumetti come tutti i bambini e sta su una sedia a rotelle.
La verità è che Artie non è diverso per via del modo in cui si muove, è diverso perché è intelligente all’inverosimile, maturo abbastanza da aiutare sua madre a smettere di incolpare l’uomo che li ha tamponati ed è autosufficiente come chiunque.
E allora lei lo ama per forza, perché è il suo bambino, è non è stata colpa di nessuno.
 

* - * - *

 
Artie sta fissando gli autoscontri da dieci minuti buoni, e Kitty dietro di lui continua a picchiettare piano le sue scarpe bianche da cheerleader sull’erba del luna park.
“Non dobbiamo salirci per forza, se non te la senti.” Kitty gli sfiora una spalla, le unghie lunghe e laccate che luccicano sotto le luci a intermittenza dell’insegna della giostra.
Artie prende un respiro profondo e si gira verso di lei, gli occhi illuminati e un sorriso dolce sul viso. “Non sarò molto utile, più che altro. Non posso premere il pedale dell’acceleratore.”
Kitty sorride di quel sorriso che è solo di Artie, quello pieno che le mette in mostra i denti e le labbra piene ricoperte dal gloss trasparente.
“E qual è il problema? È tutto automatico! Andiamo, ci divertiremo un mondo!” lo aiuta ad alzarsi e a sedersi sul piccolo sedile di plastica rovinato ai lati, il volante davanti a lui come in un ricordo sbiadito.
E forse, andare di proposito contro ad altre macchine, anche se solo per gioco, gli farà venire un po’ da vomitare una volta tornato a casa.
Ma può sopportarlo, se Kitty continua a guardarlo così e a sorridere felice.
 
 

Divertente come i ricordi si ripresentino sotto altri aspetti e con altre persone e formino quelli che chiamiamo dejà vu, vero?

 
 
Artie arriva a casa, e come aveva previsto, si sente uno schifo. Si trascina fino al bagno accanto alla sua camera, e aspetta. Il corpo proteso in avanti, verso la vasca, e aspetta che il suo corpo si ribelli alla cosa terribile che ha fatto.
Quando era piccolo, Artie aveva odiato la persona che aveva investito lui e sua madre. Aveva distrutto la loro macchina, le sue gambe e la loro vita. Aveva frantumato in mille pezzi le sue ossa e gli occhi di sua madre, troppo stanchi per piangere e sempre troppo spenti.
Dopo una decina di minuti in cui il suo stomaco si era rifiutato di punirlo come voleva, decide di tornare in salotto e accendere svogliatamente la televisione.
Si guarda intorno, e per la prima volta nella sua vita si rende conto di come tutta la sua vita si sia svolta in funzione della sua sedia.
La spazio tra il divano e il tavolino, perfettamente calcolato e rimasto inalterato per anni. La libreria piena dei suoi fumetti, ma solo fino al terzo ripiano, perché più in alto di così non arriva. La rampa che non è mai sembrata così grande e poco armonizzata con il resto del soggiorno.
Per la prima volta dopo anni, Artie piange.
Piange perché non si ricorda più com’è essere padroni di se stessi e dei propri movimenti, perché non ha idea di come viveva prima della sedia. Perché non ha mai potuto ballare e fare tutte le coreografie che il professor Schuester insegnava loro, perché non canterà mai davanti da un’asta da microfono.
Prima che sua madre lo veda, ritorna in camera, si nasconde sotto le coperte e spegne la luce, senza rendersi conto di quanto inusuale possa sembrare a dormire alle cinque del pomeriggio. Allunga una mano, si afferra le ginocchia e le avvicina al petto.
Esilarante, come nemmeno piangere gli venga naturale.
 

* - * - *

 
Il giorno dopo, Artie torna come nuovo. Si lava la faccia e porta via la scia delle lacrime, inforca gli occhiali e va in cucina a fare colazione. Sua madre, dopo avergli lasciato un bacio tra i capelli castani, si sposta nella sua camera per rifargli il letto – le abitudini sono dure a morire, e, a detta sua, quello è l’unico modo che ha per essere davvero d’aiuto a suo figlio, ora che è così grande.
Quando torna in cucina però, Artie capisce che lei sa. L’ha visto, l’alone sulla federa in prossimità degli occhi, ancora umido come se avesse pianto per tutta la notte. Lei sa eppure non dice nulla, perché in realtà non c’è molto da dire. Allora finge un sorriso, e prima di uscire gli lascia un “Sono fiera di te” che per la prima volta Artie non comprende.
“Fiera di cosa, mamma? Non sono niente di speciale. Sono spezzato, io lo so e tu lo sai. Il mondo lo sa, il mondo lo vede.” Continua a sorseggiare il suo caffè come se non si fosse infilato in un discorso spinoso e spiacevole.
Sua madre arresta la sua camminata verso l’uscita, consapevole che quella sarà una lunga chiacchierata.
“Sono fiera del fatto che la mattina ci metti solo trenta minuti a prepararti, mentre quando avevi otto anni in meno di un’ora non riuscivamo ad uscire di casa. Sono fiera del fatto che hai aiutato quella tua amica bionda quando è rimasta paralizzata.” Artie sussurra un Quinn più a se stesso che a sua madre, e ricorda. Sorride malinconico, perché Quinn gli manca davvero un sacco. “Sono fiera del fatto che eri orgoglioso di ciò che potevi insegnarle, e che non ti sei abbattuto quando lei si è alzata da quella sedia. Sono fiera perché sei consapevole.”
E Artie non può che darle ragione. Quando Quinn si era alzata, la sera del ballo, non l’aveva odiata. L’aveva invidiata, forse, ma era stato principalmente molto contento per lei. Si era sentito come a consegnare un compito in classe perfetto, si era sentito importante. Perché quando lei si era alzata, l’aveva guardato negli occhi e aveva sorriso, e Artie aveva sentito la forza che le scorreva nelle gambe, si era sentito quella forza.
“Io sono fiera di te, Artie, e anche tu dovresti esserlo.”
Artie sorride, quella mattina, perché lo è.

* - * - *

Perchè ogni cosa che scrivo è così triste? Offro cioccolata a tutti per farmi perdonare, in cambio mi lasciate qualche recensione?
Ritorno nel mio angolino fino a che non avrò l'ispirazione per scrivere altro,
Tatiana.

   
 
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