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Autore: Elettra_Black    12/04/2008    10 recensioni
Piccolo esperimento di ff sui Saints, con particolare riguardo per Camus il mio Gold Saint preferito. Il cuore di Camus si libererà della prigione di ghiaccio che lo ha tenuto prigioniero, restandone ferito come il più fragile degli amanti innamorati. Spero che vi piaccia.
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Aquarius Camus
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Relativa pace, relativa quiete. Le splendide giornate di inizio marzo, ad Atene, ingannano gli spettatori che la serenità e la pace del momento non sarebbero mai state intaccate da alcuna oscurità. I cieli sono spesso limpidi, di un azzurro pastello raramente macchiato da spruzzi di nuvole color panna; i giorni, per la gente comune, si susseguono miti e ripetitivi nella bellezza di quel ciclo continuo del sorgere e tramontare del sole. Atene è la capitale degli intellettuali, della filosofia, delle arti, dei riti pagani e affascinanti, del culto di Atena. Atena che solleva in alto la Nike, dea della vittoria; Atena dai riccioli eleganti e lo sguardo fiero, con la civetta sua protetta appollaiata sulla spalla sottile ma forte come i Titani che furono confinati all’estremo del mondo.
Eppure il male si era insinuato ad Atene, un male che portava una maschera e il titolo solenne di Gran Sacerdote. La dea Atena veniva osannata ogni giorno, il suo culto celebrato da vergini vestali che danzavano per lei, suonavano l’arpa, si dedicavano interamente alla dea senza smettere neanche nel sonno.
Tra queste vestali ve n’era una, alta e flessuosa, dai capelli color miele e le gote accese di rosso. Spesso le devote compagne di preghiera intrecciavano camelie o glicini tra i suoi capelli, e le ripetevano che era la più bella tra loro. Lei arrossiva, sorrideva timidamente e nulla più. Non avrebbe mai visto il suo riflesso in uno specchio, perché ella non possedeva la vista: i suoi occhi d’argento specchiavano il vuoto, non c’era alcuna luce che animava quelle due pozze perfette. E, forse per questo, non c’era alcuna vanità in lei. La piccola è stata accolta nel tempio di Atena grazie ad un uomo, allora sconosciuto, che la portò con sé dopo averla raccolta tra i corpi esanimi dei suoi genitori che avevano subito una rapina. A quanto pare un colpo secco alla testa le fece perdere la vista, e così si era trovata ad imparare a leggere con le dita, a riconoscere voci e passi, a cantare con il fruscio delle foglie. Mu, il sacro cavaliere di Aries venuto in suo soccorso quando era piccola, le aveva insegnato la strada per arrivare al tempio di Atena senza perdersi o rischiare di scivolare in qualche scarpata. Purtroppo le dodici case si ergevano maestose e solenni, ma piene di insidie per i visitatori sprovveduti. Ma lei riuscì ad imparare a memoria i gradini, il numero di passi prima di ogni dirupo o colonna.
<< Cinquecentosei, cinquecentosette, cinquecentootto…>> camminava tenendo un bastone di ulivo con la mano sottile, ma rovinata e callosa a causa del duro lavoro cui era dedita. Non aveva un nome, ma le sue compagne la chiamavano sorella o, a turno, con un nome di fiore. Era un gioco, e inoltre facevano di tutto per sottrarle del lavoro sia al tempio che intorno ad esso. Ma era una lavoratrice, e il più delle volte era lei a sbrigare alcune faccende come la spesa o la pulizia degli altari.
<< Credi sia il caso di andare da sola al mercato?>> le aveva chiesto Mu un giorno, quando lei si era offerta di aiutarlo nella manutenzione delle Gold Cloth. Le sue mani piccole potevano arrivare in ogni piccola insenatura e lustrarla con dell’unguento preparato dal Saint, quindi un lavoro più che accetto.
<< Ma certo, devo rendermi utile in qualche modo. Mi dispiace recarvi preoccupazione, ma non ve n’è alcun motivo. Credetemi, conosco la strada a memoria e i venditori sono molto gentili. Mi danno la frutta più fresca e la carne migliore, e mai una volta mi hanno negato il resto>>
E con queste parole riprendeva ancora a lavorare, fino a quando le sue mani non si arrossavano ancora. Completamente rovinate, non sembravano le mani di una ragazza della sua età. Lei stessa non sembrava più la ragazzina che era, la sua diligenza e devozione nei confronti della dea era immensa. Perfino il Gran Sacerdote la lodava quando sentiva parlare di lei.
<< Per onorare la dea bisogna mettere da parte ogni cosa e non pensare a nient’altro che a lei>>
Così aveva detto. Erano parole lusinghiere, le sue sorelle a sera mangiarono con lei acini d’uva per festeggiare un tale onore. Ma lei continuava a tenere il viso chino, e a sorridere con impercettibile malinconia.
La casa di Acquarius era rimasta vuota per anni, così come quella di Libra e Gemini. Eppure le vestali, a turno, continuavano ad accendere incensi, candele e a tenere pulita ogni piastra dei pavimenti di marmo. Ma il Gold Saint era di ritorno dalla Siberia, il suo compito come maestro finito, e quello di Saint d’Atena ripreso ancora una volta. Si era recato nel proprio tempio una mattina al sorgere del sole, era arrivato il ventuno marzo, e la primavera era ufficialmente cominciata. I passi sicuri dell’uomo echeggiarono tra quelle imponenti colonne, ma l’ancella senza vista per la prima volta non si accorse della presenza di qualcun altro. Forse perché ormai era abituata al fatto che nella casa di Acquarius non vi era alcun guardiano. Non aveva mai incontrato Camus prima di allora, e di lui aveva colto solamente qualche frammento di conversazione delle sorelle che lo descrivevano come la personificazione in terra di una folata di vento artico, un cristallo gelido e intaccabile. Provò pena per lui.
Stava sistemando degli incensi vicino la statua che rappresentava il segno zodiacale della casa, accompagnando i gesti con un canto popolare greco che aveva imparato da dei bambini che al suo passaggio in città le regalavano un fiore pregandola poi di suonare qualcosa con l’arpa. Ma le sue mani stavano diventando fin troppo rovinate per suonare quel fine strumento, si vergognava perfino a toccarne le corde scintillanti.
Il Saint la scorse da lontano, dopo aver udito le sue parole, e rimase in piedi accanto ad una colonna a guardarla in silenzio. Lo scrigno della sua Gold Cloth era ancora sulle sue spalle forti, e dritto sulle gambe continuò a fissarla senza nessun particolare interesse. Si chiese quand’è che si sarebbe accorta di lui, e avrebbe lasciato la sua dimora per concedergli una meritata dose di solitudine.
Dopo un po’ lei si alzò e, voltandosi, sembrò ignorarlo ancora. L’uomo si sentì sbeffeggiato da quell’atteggiamento, senza sapere che i suoi occhi d’argento non riflettevano nessuna immagine. La giovane raccolse le vecchie candele sciupate, i candelabri da lucidare, e avvolto il tutto in un panno si avviò verso l’uscita. L’uomo la vide procedere verso di lui, notò che i suoi calzari erano rovinati e in procinto di staccarsi da quei piccoli piedi bianchi.
<< Chi…>> sussultò la giovane dopo aver sfiorato il gomito dell’uomo con il proprio. E solo allora Camus si rese conto che la poveretta non possedeva la vista. Le caddero per terra gli oggetti raccolti, e chinandosi per prenderli sussurrò una serie di ‘scuse’ infinite.
<< Perdonatemi signore>> sussurrò lei mesta, cercando con le mani le candele che erano rotolate via. Lui la osservò ancora, senza dire nulla, mentre lei arrancava e con le labbra contava “Uno, due, tre, quattro…” mancavano un paio di mozziconi di candela, e messa carponi ai piedi del Saint tastò il pavimento alla ricerca di quel misero pezzo di cera. Camus non l’aiutò, distolse lo sguardo e si avviò lontano da lei, nelle proprie stanze, ignorando quel breve incontro.
Facevano lavorare anche gli storpi adesso, pensò lui annoiato cercando di prendere sonno.
Il giorno seguente fu convocato dal Grande Sacerdote in persona, e qui, insieme agli altri Gold Saints, fece rapporto sul suo allievo e sul suo compito concluso. Almeno momentaneamente.
E durante il racconto più volte aveva sollevato le iridi glaciali sul gruppo di vestali in preghiera, con la tunica bianca senza maniche, soffermandosi sui capelli color miele di una delle più giovani. Di lei.
Quella sera scoprì che una delle occupazioni di quella giovane era di innaffiare le rose di Aphrodite. Stava ritornando nei propri alloggi, nell’aria c’era un profumo di terra bagnata e il suono delle gocce d’acqua che scorrono tra le foglie. E di nuovo la voce di lei nell’aria…
Era cieca e non si sarebbe accorta di lui, che male c’era ad avvicinarsi di più? E così fece, mosse qualche passo verso di lei e si fermò con le spalle posate sul gazebo di marmo posto al centro del giardino. Aveva i capelli raccolti, e la semplice veste bianca le scopriva parte delle spalle. Camminava anche a piedi nudi e, a giudicare da come muoveva le dita dei piedi tra i ciuffi d’erba, sembrava piacerle. Chi è stata privato della vista non può fare altro che sviluppare gli altri sensi, cercando di trarre qualche gioia in più in modo da colmare il senso mancante. E per lei quello era il momento più dolce della giornata: sentiva il profumo dei fiori accarezzarle le narici, la frescura della sera avvolgerle le membra bianche, e la piacevolezza della soffice erba sulla pelle.
Camus si trovò in quel giardino, sempre casualmente a parer suo, ogni sera le settimane che seguirono. Rimaneva in silenzio ad osservarla muoversi tra i fiori, ogni tanto cantare canzoni antiche e nostalgiche, o semplicemente, quando smetteva di innaffiare, sedere su una pietra bianca poggiando il capo sulle ginocchia alzate. Si sorprese a pensare che era bella, la cosa più bella che avesse mai visto. Ma si sarebbe staccato un braccio con le proprie mani pur di non pronunciare a voce un tale pensiero.
Era inoltre convinto che la giovane non si fosse mai accorta di lui, ma una sera, quando in cielo le stelle erano talmente luminose da poter tracciare una linea con il dito e disegnare le costellazioni, la giovane gli si era avvicinata, tenendo il viso chino in segno di rispetto.
<< Perdonatemi, dovrei innaffiare le camelie adesso. Sapendo che amate mettervi sempre davanti alla pianta ho fatto in modo di innaffiare prima del vostro arrivo ma, chiedo ancora scusa, oggi ho fatto tardi>>
Aveva la voce lievissima, eppure per il Gold Saint fu come un urlo che squarciò l’aria: quindi sapeva che lui la osservava da quel punto ogni sera? Quale disonore per lui, si sentì come un qualunque discolo sorpreso a spiare una fanciulla attraente.
<< Come lo sapevi?>> chiese lui con freddezza, fissandola con superiorità. Ma era un atteggiamento sprecato dato che lei non poteva vedere quest’ostentazione.
<< Sapere cosa?>> fu la sua risposta. Teneva ancora il viso chino, e i capelli le coprivano il viso.
Camus rimase interdetto, per poi voltare sui tacchi e lasciarla sola in quel giardino che profumava di rose.
Ma non smise di andare a vederla. Continuò, sera dopo sera, a poggiare le spalle al gazebo vicino alle camelie bianche e a guardarla mentre innaffiava le rose. Teneva spesso i capelli alzati, ma alcune ciocche ribelli le cadevano davanti al viso e sui suoi occhi ciechi. Rimanevano a metri di distanza, eppure entrambi godevano della presenza dell’altro: lui la guardava, si sfamava della sua vista; lei avvertiva la sua presenza, lo sguardo su di sé e perfino il respiro regolare. Dal peso della sua falcata lei aveva immaginato l’altezza del Saint, la robustezza degli arti e delle spalle. Man mano che il tempo passava la sofferenza di non poterlo guardare in viso era atroce, una spada che perforava il cuore ad ogni sospiro. Si trovò a chiedere di lui alle compagne di preghiera, e loro commentavano sempre allo stesso modo: << E’ la persona più fredda che abbia mai visto>> ma anche << Il suo bel viso è sprecato per quel carattere>>. Si chiese se a giovani come loro fosse concesso fantasticare e fare commenti sugli uomini. Comunque sia si trovò ad immaginarlo ancora, a cercare il suo viso nei suoi pensieri, provò a vederlo con i suoi occhi che ormai non vedevano più nulla.
Un pomeriggio si trovava alla casa di Aries per la solita manutenzione delle Gold Cloth, dove Mu si occupava di rinforzarle ancora e ancora. D’un tratto lei, con uno dei pezzi d’oro tra le mani, si schiarì la voce: << Non ho mai preso quest’armatura>> mormorò con un filo di speranza nella voce. La teneva tra le mani tremanti, e vi passava le dita con lentezza.
<< Già, tu non hai mai incontrato Camus>> rispose lui distrattamente <<…è la Gold Cloth di Acquarius, le sacre vesti di Camus appunto>>
Sì, erano proprio le sue, pensò sorridendo radiosa. Tenne ogni singolo pezzo con estrema cura, cercando di imparare a memoria i disegni incisi sul metallo indistruttibile. Appartenevano a lui. Quella sera che avrebbe fatto? Gli avrebbe magari confidato di essere stata lei a…No. Non poteva rivolgersi in tono confidenziale a lui, non poteva rivolgergli la parola per qualcosa di tanto superfluo. Avvertì un groppo al cuore, e fermandosi un attimo portò una mano al petto: faceva male.
<< Oh, mi dispiace Camus. Dovrai attendere ancora un paio d’ore, non abbiamo finito>> la voce di Mu interruppe i suoi pensieri, facendola sussultare. Lui era lì e lei non se n’era accorta! Si voltò di scatto verso un punto in cui aveva sentito un passo, e rimase impietrita nel sentire lo sguardo stupito del Gold Saint a pochi passi da lui: era come se con gli occhi quell’uomo la stesse accarezzando, come se fosse qualcosa di materiale il suo semplice sguardo! Aveva caldo al viso, infatti era arrossita. Rendendosi conto di avere il capo rivolto verso di lui, lo abbassò di scatto sperando di non essere notata dai due.
Camus dal canto suo era rimasto nel suo glaciale silenzio, ad annuire alle parole di Mu e a guardare la vestale con la scusa di controllare le sue vestigia sacre.
<< E’ lei che si occupa di questo?>> chiese duramente. Aveva notato le sue mani arrossate, rovinate e graffiate in più punti. Era questo che gli dava enormemente fastidio, ma l’altro lo tradusse come un segno di snobismo nei confronti di una semplice vergine del tempio. Infatti gli rivolse uno sguardo severo e parole altrettanto dure: << E’ una valida aiutante >> disse solamente riprendendo ad occuparsi del proprio lavoro. Camus rimase immobile ancora a lungo, continuando a guardarla lavorare con le braccia che le tremavano. Notò il suo disagio, le sue gote rosse e…se ne sentì lusingato. Tuttavia non trasparì nulla dal suo volto impassibile e sprezzante.
Quella sera ci fu più tensione nel giardino delle rose. Lei continuò ad innaffiare, ma si sentiva sempre sul punto di sbagliare, di offendere il Saint a pochi metri da lei.
Non si accorse del frusciare del fogliame, della pelle squamosa del sottile e mortale animale che strisciava verso i suoi piedi nudi. Mosse un passo, poi un altro e tutto accadde in una manciata di secondi: i denti letali a mezzaluna del serpente schizzarono nell’aria, ma la sua bocca rimase spalancata in una sorta di grido muto. Camus l’aveva imprigionato in un cristallo di ghiaccio, un attimo dopo aver tirato la ragazza a sé che tenne stretta in una morsa quasi disperata.
Silenzio.
La giovane realizzò quello che era successo in un secondo momento, quando il suo orecchio era accostato al petto dell’uomo e, per la prima volta, ne sentì scaturire il battito regolare del suo cuore a testimonianza che anche lui ne possedeva uno. Era caldo il suo corpo, e immenso come lei lo aveva immaginato più volte, ma capace di paralizzarla come un inverno freddo con un giunco sottile e fragile. E lei tremava. Tremava assaporando quel contatto che non aveva osato sperare. E lui rimase immobile come una montagna, immobile e taciturno con un polso di lei ancora stretto nella sua mano. Era un polso sottilissimo. Lei era sottilissima adagiata al suo petto, il Saint si trattenne dal sollevare la mano e toccarle i capelli, che odoravano di iris appena raccolti. Si trattenne, ma per quanto?
<< Non devi camminare a piedi nudi…>> disse lui con il solito tono distaccato <<…sei una sciocca>> aggiunse dopo aver notato il rossore di lei. Di lei che non disse una sola parola, ma si limitò a tremare convulsamente.
<< Ti faccio paura?>> chiese duramente, lasciandola andare immediatamente <<…allora?>> aggiunse spazientito. Lui era così del resto. Non voleva certo piacere alla gente…
<< No, non mi fate paura>> sussurrò lei tenendo il viso chino, con una mano stretta al petto << Mi avete appena salvato la vita>> aggiunse tenendo, come al solito, il viso chino con i capelli color miele davanti al viso. Lui fu sul punto di andare via e lasciarla da sola, come ogni sera, ma rimase a causa della mano di lei sul suo braccio << Posso toccarvi il viso?>>
Il viso?
Sì, certo. Per lei che non ha vista, i suoi occhi sono le mani. Quelle mani così rovinate…
Non rispose. Prese il polso di lei, portandosi le dita arrossate della giovane al proprio viso.
Sì, poteva…tutto sommato le avrebbe permesso ogni cosa.
Una lacrima scese lungo la guancia della vestale, e un sorriso illuminò il suo volto timido mentre lo accarezzava lentamente. Non era neanche una carezza: sfiorò il suo profilo con i polpastrelli, disegnò le linee del viso toccandogli l’attaccatura dei capelli e poi scese fino al pomo d’Adamo.
<< Riesco a vedervi, signore…>> sussurrò lei con commozione <<…adesso riesco a vedervi…>>
Camus sospirò brevemente. Non aveva preso fiato da quando le sue dita lo avevano sfiorato, e adesso poteva farlo. Ma non appena la sua mano si fu staccata dal viso, lui la riprese portandosela alle labbra: baciò il dorso, con lentezza il palmo, e poi le dita.
<< Non è vero, non mi vedi…>> mormorò lui stringendo gli occhi con le labbra premute sulla sua pelle <<… questo non è vedere. Io non mi accontenterei di sfiorarti il viso. Se fossi al tuo posto mi ucciderei pur di vedere il colore della tua pelle, dei tuoi capelli, il…>> si fermò di colpo. Stava sorridendo.
Sì, il suo sorriso…
<< Non devi rientrare?>> sibilò lasciandole la mano. Non doveva perdere il controllo di se stesso, non con lei, non in quel luogo.
Non doveva e basta…
<< Sì, devo >> sussurrò lei chinando il viso in segno di rispetto, per poi allontanarsi verso i propri alloggi. E lui la osservò fino a che non fu certo che era al sicuro nelle sue stanze.
Osservò il serpente congelato in quella prigione di ghiaccio, e capì che dal momento in cui le aveva salvato la vita tutto era finito e cominciato allo stesso tempo. Era finito il suo distacco dal resto del mondo, ed era appena cominciato un rito che andò avanti per molte altre sere.
Lei innaffiava i fiori, e lui la osservava da lontano. Ma capitava che si trovassero vicini, che la mano di lui si soffermasse tra i suoi capelli color miele. Una volta aveva sfilato via il suo fermaglio di legno sciogliendo le ciocche morbide. Era un peccato che tra i capelli non potesse portare sempre ghirlande o gioielli, ma ad una vestale era proibita ogni forma di vanto. E fu per questo che, una volta, lei si trovò a rifiutare un suo regalo: era un pettinino d’argento con dei fiori sul manico. Si appuntava sul capo tenendo ferme le ciocche, l’uomo l’aveva fatto comprare da un servo.
<< Non puoi metterlo neanche quando stiamo da soli?>> aveva chiesto lui a voce bassa. Non facevano che sussurrare, nella continua paura di essere scoperti. Lei arrossì, e chinando il viso sorrise tristemente. Il Saint odiava quei sorrisi, perché nonostante fossero belli come la luna, erano il simbolo di qualcosa che non potevano avere.
<< Siete sicuro? Un dono del genere è degno di una dea, una regina. O comunque non per…me…>>
E lui lo appuntò sul capo di lei, sistemando alcune ciocche << E invece è proprio per te>> si era trovato a rispondere, con lo sguardo nervoso che cercava di vigilare su di loro: era sempre in tensione, cercando in mezzo agli alberi e alle colonne la presenza di qualcuno.
Lei pianse di felicità, lacrime che vennero raccolte dalle sue dita forti da combattente, che scesero sul mento e lo sollevarono verso di sé.
La baciò.
Erano morbide le sue labbra, e in quel tocco si immerse nell’oblio di quel contatto meraviglioso. Durò pochi attimi. Attimi che fecero dimenticare ogni cosa ai due, e passare inosservata l’ombra che li aveva appena visti.
E i loro incontri continuarono. Dolce è la sera di due amanti clandestini, e per loro più che mai.
Le rose, l’acqua che scorreva sulle foglie e sui petali, lo sguardo di lui che si sfamava di ogni sorriso di lei e dei suoi movimenti che erano una poesia costante. Se una donna era capace di trasformare in versi i sentimenti di Catullo, quella semplice ancella era in grado di fargli battere per davvero il cuore. Un cuore sempre avvolto da una tormenta di neve e dai ghiacci dell’Antartide.
Una mattina la giovane si soffermò davanti alla statua della dea Atena, e sfiorandole i piedi si inchinò addolorata cominciando a pregare: pregare di essere libera, di poter vivere il tormento del suo amore con il Gold Saint, di…
<< Hai qualche desiderio in particolare da chiedere alla dea?>>
La voce del Sommo Sacerdote la fece sussultare: era davanti a lui, la maschera fredda nascondeva il suo volto.
<< Perdonatemi, mi sono soffermata a lungo>> bisbigliò lei alzandosi di scatto, e facendo per andarsene. Ma l’uomo le mise una mano sulla spalla, e la costrinse a fermarsi.
<< Mia cara, esprimi pure i tuoi desideri apertamente>>
<< No…non posso, vi prego…>> sussurrò lei avvampando <<…una semplice vestale non ha desideri, ma solamente l’obbligo di adorare la…>>
<< Una fanciulla che non possiede la vista non desidera tornare a vedere?>> chiese lui in tono amabile facendola sussultare.
Le labbra schiuse in un’espressione di stupore, le mani rovinate strette nella propria veste bianca. Non riuscì a dire nulla, che l’uomo le posò la mano sulla fronte e una scarica di luce invase il suo cranio facendola barcollare.
La testa le scoppiava, le tempie pulsavano e per un attimo le mancò il respiro. Ma vedeva. Una miriade di colori tutti insieme, dal pavimento scuro alla maschera blu e rossa del Sacerdote, dal cielo azzurro oltre l’alta finestra al grigio marmo della statua di Atena. Per un attimo le era parso di vedere una lacrima sgorgare da quegli occhi di pietra.
<< Io…>> boccheggiò sconvolta, ma l’uomo le indicò la porta.
<< Forza bambina, sei assolta dai tuoi doveri. Corri a rivedere il mondo che tanto ami…>>
La giovane gli prese le mani, pianse di felicità e le baciò con devozione << Grazie…oh, grazie…>>
Corse via, corse fino a raggiungere i centinaia di gradini che portavano verso i giardini e le dodici case. Non contò i passi, perché vedeva ogni meraviglioso dettaglio di quel luogo sublime, e non si accorse del terreno sdrucciolevole. Lì dove c’era impiantato del marmo solido, improvvisamente si sgretolò al suo passo e si staccò con lei dalla roccia: cadde nella scarpata con frammenti di colonna, una scarpata che conduceva ad una vecchia arena.
Accorsero in molti. Sul marmo colava del denso sangue scarlatto, e molte rocce erano piantate sull’addome della giovane che con i suoi occhi d’argento stava fissando il cielo. Un azzurro bellissimo, il più bello che ci fosse mai stato.
Le voci corrono, e alla casa di Acquarius arrivarono dopo pochi minuti dall’accaduto. Quella fu l’ultima volta che dei Saints o vestali videro Camus pallido e in preda al panico. Lo videro abbandonare il suo allenamento quotidiano e correre con indosso l’armatura dorata che scintillava al sole. Quando arrivò sul posto lei era lì, con il viso rivolto verso di lui che gli sorrideva.
<< Avevo ragione>> boccheggiò con il sangue che colava fuori dalla bocca, e che ad ogni colpo di tosse schizzava ovunque <<…è così che vi immaginavo>>
L’uomo la raccolse dalle macerie. Le feriti erano profonde, avevano squarciato il suo ventre danneggiando gli organi.
Stava morendo.
<< State…piangendo…>> disse ancora lei. Intorno a loro un brusio si sollevò in aria, e l’uomo avvolse la giovane con il proprio mantello, che poco a poco si inzuppò di sangue.
<< Come fai a vedermi?>> chiese lui con voce strozzata. Lei non rispose. Aveva capito, era stata fin troppo sciocca a credere al miracolo del Sacerdote. Evidentemente un Gold Saint può venerare una sola dea, non due.
<< Non voglio…andarmene vedendovi così…>> lo pregò lei sempre più debole <<…vi prego, non addoloratevi per me. Vi…vi scongiuro…>>
C’era troppa gente. Era accorso perfino Mu, che fissò la scena con orrore.
<< Non te ne stai andando>> sussurrò lui in modo che solo lei potesse sentirla. Anche allora erano soli, soli in qualcosa che li accomunava <<…sta sera dobbiamo vederci.
Dobbiamo…do…>> strinse gli occhi, non voleva piangere. Lei sollevò la mano rovinata e gli accarezzò le labbra con le dita << Vi amo, siete…l’unico dio che ho venerato per davvero…>>
<< Dannazione…>> imprecò lui tenendola stretta al petto, come avrebbe dovuto fare ogni secondo da quando l’aveva vista la prima volta <<…dannazione…dannazione…>>
Adesso non c’era più vita in lei. Se n’era andata guardandolo serena. Non aveva visto nulla per quasi tutta la vita, e amato lui più di qualsiasi altra cosa.
Camus la strinse ancora al petto, le baciò piano le labbra mentre scattava via, verso la dimora di Acquarius. Sul fianco destro c’era un giardino. Non c’erano rose, ma fiori di campo dai mille colori diversi, e il profumo era principalmente quello di iris. Ce n’erano tantissimi.
Fendette l’aria con un movimento del braccio, e delle gigantesche schegge di ghiaccio squarciarono la terra in modo da fargli adagiare il corpo della sua vera dea. Una tomba silenziosa, una tomba in mezzo agli iris. Una tomba su sui l’uomo rimase ore e ore, piangendo per la prima volta in vita sua. La chiamò con quel nome che non aveva mai pronunciato, che adesso era scolpito nel suo petto di ghiaccio: amore. Una parola così inutile, spesso falsa, impossibile credere che proprio lui sia caduto negli inganni di questo mostro ingannevole. Eppure così è stato…
Le lacrime che non aveva mai versato in tutta la sua vita le versò con lei, in quella tomba appena costruita per quella dea dalle mani rovinate, dal sorriso malinconico, dal tocco leggero. Era più semplice non amare affatto, sarebbe stata la cosa migliore. Una ferita del genere non l’avrebbe mai risanata, mai.
L’avrebbe raggiunta sicuramente. Presto…
La sua dea.
<< Non sapevo che l’amassi>> gli aveva mormorato Mu a pochi metri da lui <<…non avrei mai pensato che proprio tu potessi farlo>>
<< Sta zitto, sparisci>> sibilò con rabbia restando carponi sulla terra smossa, il sangue ancora impregnato nelle sue mani <<…sparisci…>> aggiunse in un ultimo singhiozzo.
E Mu lo lasciò da solo, perché così sarebbe rimasto fino al giorno della sua morte. Una morte che sarebbe stata una liberazione dal dolore di averla persa. Tra le mani stringeva il fermaglio d’argento, e lo guardò addolorato. Quel fermaglio non l’avrebbe mai più messo tra le ciocche color miele della sua dea. Mai più…lo avrebbe tenuto lui, in ricordo di quel sorriso e di quelle guance rosse.
  
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