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Autore: LivingTheDream    22/10/2013    2 recensioni
"«... Rin?», «Ho una domanda da farti, Haru». Era come se le parole diventassero più piccole man mano che loro diventavano più grandi. Non significavano più niente, e finivano in così poco tempo."
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Haruka Nanase, Rin Matsuoka
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Autore: LivingTheDream

Titolo: Is that what demons do?

Personaggi/Pairing: Rin Matsuoka/Haruka Nanase

Wordcount: 1708

Rating: PG-13, G

Warnings: yaoi, post episodio 12 (ma tipo subito subito dopo)

Riassunto: “«... Rin?», «Ho una domanda da farti, Haru». Era come se le parole diventassero più piccole man mano che loro diventavano più grandi. Non significavano più niente, e finivano in così poco tempo.”

Note: Ah boh. Probabilmente la mia migliore nel fandom so far. Un grazie enorme a Moon che ha betato avvolo avvolo <3

Musica: Love Me Again, John Newman. Mi dicono dalla regia che la voce del cantante è anche tamarra quanto Rin.

 

 

It’s unforgivable, I stole and burnt your soul,

Is that what demons do?

They rule the worst in me, destroy everything,

they blame on angels like you.

 

Era seduto nel pullman per tornare a casa, dopo quella giornata che aveva cambiato la sua vita, quando aveva iniziato a ricordare. Anche se ricordare è una parola grossa: non aveva mai realmente dimenticato quella scena – era semplicemente scivolata sotto la superficie della sua rabbia e della sua solitudine in attesa di tempi migliori, in attesa del ritorno di chi avrebbe potuto ripescarla e portarla a riva.

Quindi, Rin era seduto nel pullman per tornare a casa quando aveva iniziato a trascinare a riva quel ricordo.

 

Rin sapeva già che sarebbe dovuto andare via, quella sera a casa di Haru. La mattinata a scuola era diventata un pranzo a casa di Haru che era diventato un pomeriggio a fare i compiti senza davvero provarci che era diventato un invito a cena. Appena alzatosi da tavola, Rin aveva chiamato sua madre per implorarla di lasciarlo dormire lì che sì, alla signora Nanase sta bene, sì, il pigiama me lo presta Haru, sì, hanno anche uno spazzolino.

Quando si era rintanato sotto le coperte, con un Haru sbuffante accanto, aveva capito che gli sarebbe mancato tutto. Quella città, quella lingua, la sua casa, la sua famiglia, ma che era la cosa più giusta da fare per realizzare il sogno di suo padre. Però aveva un groppo in gola, voleva piangere, ma lui era grande e solo i bambini piangono, come quella lagnosa di sua sorella. Onii-chan di qua e onii-chan di là. Come se l'avesse scelto lui di diventare fratello maggiore.

«Rin? Dormi?», la voce di Haru era arrivata come un sussurro.

«No. Tu?»

«Non riesco.»

«...»

«... Tu che ne pensi della staffetta che dovremo fare?»

«Che saremo i migliori!», aveva riso Rin. «Ci stiamo allenando tanto, non possiamo sbagliare! E poi siamo una squadra, la migliore del mondo!»

«Se lo dici tu...»

«Come mai sembri così triste, Haru-chan?», si era preoccupato Rin, tirandosi a sedere. Haru aveva fatto lo stesso, solo molto più lentamente.

«Non mi chiami mai Haru-chan...»

«Non è vero! Beh, forse non quando ci sono gli altri. Potrebbero ridere! Ma non è vero che non ti chiamo mai Haru-chan!»

«Sarà. E comunque non sono triste. Ho solo un brutto...»

«Presentimento?»

Haru aveva annuito, e l'istinto aveva detto a Rin che doveva parlare, o non sarebbe riuscito a dormire mai più.

«Haru-chan, io... io credo che, forse... tra un po' di tempo, beh, io potrei dover andare via».

La luce della luna dalla finestra aveva fatto risplendere gli occhi spalancati di Haru.

«Cosa? Perché?»

«Per seguire il sogno di mio padre, credo».

Tra di loro era scivolato un silenzio che due bambini non avrebbero dovuto capire, e che invece fu chiarissimo ad entrambi.

«Sarà diverso senza di te, Rin».

«Anche senza di voi», aveva riposto senza guardarlo in faccia. Quando poi lo aveva guardato dritto negli occhi, aveva detto «Anche senza di te».

Poi gli era venuta un'idea, una cosa che gli adulti fanno un sacco e che sua madre gli aveva detto che significa che sei contento di vedere una persona o che sei triste di vederla andare via. Anche Haru sapeva benissimo cos'era un bacio, quindi quando Rin si chinò verso Haru questo non si mosse. Il fatto che Haru lo immaginasse come labbra che si sfiorano appena e sguardi profondi mentre Rin lo immaginava forte e a occhi chiusi rese il tutto alquanto impacciato, con Rin schiacciato contro il viso di un Haru fin troppo sorpreso.

Durò poco e non ne parlarono più, ma fu il baciò più bello e spontaneo che Rin avesse mai dato, e l'unico per Haru.

Rin sapeva già che sarebbe dovuto andare via, quella sera a casa di Haru, e anche che le bugie non facevano bene a nessuno, ma sarebbe andato tutto bene.

Andava sempre tutto bene, a chi si voleva bene. No?

 

 

Nel momento in cui il pullman frenò davanti alla Samezuka, Rin aveva già le idee chiare. Lasciò il suo bagaglio sul sedile, costringendo indirettamente Nitori a portarlo dentro al posto suo, e scese di corsa in strada, per poi iniziare a correre – senza intenzione di fermarsi presto.

La sera era ormai calata, e i lampioni illuminavano la strada e gli sembravano le luci che si usano per indirizzare gli aerei sulle piste, lui li seguiva e basta, conoscendo bene la strada da fare. Correva senza pensare alla stanchezza della giornata, alle scarpe larghe, alla gente che passava: rischiò di essere investito due volte e travolse un uomo che usciva dalla sua auto; a metà strada si sfilò la giacca senza fermarsi, legandosela in vita, stringendo i denti e sperando, pregando, scongiurando che non fosse troppo tardi – anche se sapeva di esserlo di almeno qualche anno, ma Haruka glielo avrebbe perdonato, no? Haruka gli avrebbe perdonato tutto, se glielo avesse chiesto con sincerità. Haruka avrebbe dovuto farlo.

Si rese conto di essere davvero stanco solo quando si trovò davanti alla scalinata di pietra che lui e Haru salivano sempre di corsa, gareggiando su chi sarebbe arrivato per primo: nonostante tutto non si fermò nemmeno per un istante, girando di corsa verso casa di Haru e fermandosi solo quando aveva finalmente il dito sul citofono. In quel momento si rese conto delle luci spente e della porta chiusa, e sospirò.

Dopo aver velocemente scartato l'idea di provare dal retro si decise a sedersi davanti alla porta d'entrata, e fu lì che Haru lo trovò, un'ora dopo, di ritorno dal gelato per festeggiare offerto da Nagisa.

«...»

«...»

«... Rin?»

«Ho una domanda da farti, Haru».

Era come se le parole diventassero più piccole man mano che loro diventavano più grandi. Non significavano più niente, e finivano in così poco tempo.

 

Haru rimase immobile per qualche secondo, senza sapere cosa rispondere. Erano saliti direttamente in camera di Haru, ritrovandola morbidamente illuminata dalla luce della luna annaspante tra i lampioni della strada. Le pupille di entrambi erano dilatate per l'oscurità e per la paura di aver vissuto in una realtà falsa tutti quegli anni – paura che attorcigliava loro lo stomaco, premeva sulla schiena, si arrampicava su nella gola senza la forza di arrivare alle labbra. Haru sentiva le dita tremargli.

«Mi sbagliavo, Haruka. Mi sono reso conto che mi sbagliavo. In tutti questi anni ho sempre dato il tuo nome alle mie paure e ai miei insuccessi senza mai capire che quella sconfitta contro di te, anni fa, non avrebbe dovuto fare altro che aprirmi gli occhi – io- io ero così contento lì, con voi, con te, mentre nuotavamo nella piscina deserta –, e invece mi ha... incattivito, credo, io non lo so, davvero non so nemmeno cosa mi passò per la testa quel giorno. Mi portò a voler diventare il migliore, certo, ma dopo aver nuotato di nuovo con voi oggi io ho capito. Giuro, ho capito, ho passato tutto il viaggio di ritorno a pensarci, ed ho capito che io non voglio essere il migliore per tutti. Io voglio essere il migliore per me», una risata nacque e morì sulle sue labbra, e, come tutte le cose che si vedono nascere e morire, Haru se ne affezionò, «Voglio essere il migliore per te».

Rin aveva fissato per tutto il tempo le scapole di Haru, affilate sotto la maglietta sottile. Haru lo aveva guardato per tutto il tempo negli occhi, ricercando in essi la rabbia, la sfida, l'amore e la tristezza.

«Nell'ultima immagine che avevo di te, Rin, correvi via dalla piscina. 'Smetto', avevi detto, ed era tutta colpa mia, nella mia testa. Non solo te ne eri andato da un giorno all'altro lasciandomi confuso, disorientato, solo, ma lo avevi fatto dopo mesi e mesi dove eravamo l'uno l'ombra dell'altro, nonostante non fossimo amici. E ora tu torni qui e mi chiedi di ricordare, di cambiare idea, di ritornare a quelle sensazioni. Eravamo bambini. Ora non più. Con che coraggio puoi ragionare allo stesso modo?»

Rin spalancò gli occhi, sentendo le ginocchia cedere leggermente e lo stomaco rigirarsi su sé stesso. Non si aspettava nulla di tutto questo. Aveva appena mandato tutto all'aria?

«Io- Haruka, senti, io...» tentò per qualche secondo, strofinandosi il braccio con la mano, «Mi rendo conto di cosa ti ho fatto e di ciò di cui mi stai incolpando, ma quello non ero io. Te lo giuro, quello – quel ragazzino che è corso via quel giorno, quello che ha gettato a terra il nostro trofeo, quello che ha minacciato Rei – quello non ero io».

«Rin, i-io...», iniziò Haru, ma Rin gli afferrò il braccio e lo tirò a sedere sul pavimento prima che potesse dire altro. «Ecco, eravamo qui, ti ricordi? Quella sera in cui venni a dormire a casa tua e ti dissi della partenza. Giurasti di non dire niente a nessuno, era il nostro segreto, e non solo quello. Ti ricordi, Haru?»

Il silenziò calò nella stanza. Rin si ancorava alla maglietta di Haru come per assicurarsi che non fuggisse, come per assicurarsi di non fuggire lui stesso, e si riconobbe agitato. Lui era abituato ad avere tutto sotto controllo, e lì di sotto controllo non c'era nulla.

«Haru-chan...»

Fissava il viso di Haru, e a un certo punto questo cambiò. Lo sguardo di concentrazione, le sue sopracciglia aggrottate, le labbra strette, tutto si rilassò. I denti andarono a mordere il labbro inferiore, gli occhi a guardare il pavimento. In quel momento Rin ebbe paura, e fece una cosa che gli adulti fanno un sacco e che sua madre gli aveva detto che significa che sei contento di vedere una persona o che sei triste di vederla andare via, anche se in quel momento lo faceva per salvarsi.

Si tese verso Haru, tirandogli la maglietta e stringendolo a sé, una mano con due dita ancorate alla manica della maglietta blu chiaro e l'altra poggiata sulla guancia dell'altro. Schiuse le labbra e lo baciò con tale forza da far scontrare i loro nasi, per poi mordergli il labbro inferiore e leccarglielo, facendo del suo meglio per non piangere di nuovo perché non lo faceva da anni e le lacrime di quel pomeriggio non erano davvero finite tutte.

Quando si scostò da Haru, che aveva a modo suo ricambiato il bacio, questo lo guardò con serietà e le labbra rosse, umide, leggermente più gonfie. Rin lo osservò alzarsi lentamente, muovere un paio di passi, prendere il cellulare dalla scrivania e andare a sedersi sul letto.

«Tieni», gli disse, porgendogli l'oggetto. «Chiama chi di dovere e dì che stanotte rimani a dormire da me».

 

«Puoi amarmi di nuovo, Haru?»

 

 

 

   
 
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