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Autore: slanif    29/10/2013    1 recensioni
Genzo/Karl
Sulle note della bellissima canzone di Miley Cyrus – “Wrecking Ball”, questa fan fiction GenzoXKarl dal titolo omonimo. Per esigenze di trama, alcune parti della canzone che si ripetevano più volte nella canzone sono state rimosse, perciò questo non è il testo completo della canzone ma bensì con qualche taglio di strofa.
Genere: Angst, Sentimentale, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Genzo Wakabayashi/Benji, Karl Heinz Schneider
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Wrecking Ball
di slanif

**

 

I nostri cuori, li abbiamo lacerati e incatenati invano
Abbiamo saltato senza mai chiederci il perché
Ci siamo baciati, sono caduta sotto il tuo incantesimo
Un amore che nessuno potrebbe negare


La nostra storia è iniziata nel peggiore dei modi. Eravamo negli spogliatoi, al termine di una partita molto sofferta in cui io non ero riuscito a parare un goal e tu eri riuscito a fare un solo goal, con molta fatica. Eravamo entrambi furenti. Con la squadra, con noi stessi, reciprocamente. Continuavamo a lanciarci occhiate in cagnesco dalla parte opposta degli spogliatoi.
Fino a quando io non ho perso la pazienza: “Che vuoi?”, ti ho ringhiato contro.
Tu non mi hai risposto, ma il tuo sguardo era chiaro: “E’ tutta colpa tua se abbiamo perso”. Era questo che dicevano i tuoi occhi. Ed è stato quello che mi ha fatto infuriare, perdendo definitivamente la testa.
Mi sono avvicinato a te a grandi passi e alla fine ti sono giunto davanti, ti ho afferrato forte il polso e stringendolo tra i nostri due petti ti ho scosso forte: “Mi avranno anche fatto un goal, ma non mi sembra che tu ne abbia fatti chissà quanti…”. La mia voce un sibilo di rabbia, gli occhi due fessure, i denti scoperti come fossi un animale.
“Lasciami”. Il tuo sibilo fu altrettanto animalesco.
Non mi sentivo lucido. Ricordo ancora la forte sensazione di capogiro che mi ha annebbiato gli occhi.
Ti ho stretto più forte il polso con la mia mano enorme, in confronto alla tua così piccola e delicata, neanche fosse quella di una donna. L’ho stretto fortissimo, così forte che la tua mano era diventata cianotica.
E poi ti ho baciato. Forte, prepotente.
Altrettanto irruente, mi hai dato uno schiaffo in faccia. Neanche il tempo di reagire e subito un pugno sul naso.
Abbiamo fatto a pugni terribilmente, quella volta. In maniera feroce, così tanto intensamente che alla fine ci sentivamo meglio. Entrambi avevamo sfogato il malcontento, la frustrazione, la rabbia, il nervosismo, l’eccitazione di quel bacio rubato.
Ci guardavamo di sottecchi, seduti a terra, col fiatone e madidi di sudore.
“Perché mi hai baciato?”.
La tua domanda fu bruciapelo. Era tipico tuo, lanciare la bomba senza preoccuparti delle conseguenze sugli altri.
“Perché sì”.
“Non abbiamo cinque anni”.
“Perché ne avevo voglia”.
“Non siamo animali”.
Avevi una risposta pronta per tutto. E questo mi irritava terribilmente.
“Che diavolo vuoi che ti dica, Karl?”, ti ho domandato stizzito.
“Perché mi hai baciato?”. La bomba arrivò due volte, con la stessa portata, monotona e scontata, ma così vera.
Stetti in silenzio per un po’, a scrutarti da sotto la visiera del mio fedele berretto rosso. Poi mi uscì di getto: “Perché per quanto io non ti sopporti, non posso fare a meno di rendermi conto che mi piaci”.
Era una risposta stupida, ma era quella che mi venne in quel momento.
Tu mi fissasti con i tuoi gelidi occhi color ghiaccio, come il cielo della Germania in inverno, e non dicesti niente.
Aspettai qualche minuto, ma dalla tua bocca non uscì una parola, perciò mi alzai e cominciai a mettere le mie cose nella sacca. Avevo tirato fuori tutto l’occorrente per farmi la doccia, prima di cominciare a litigare con te, ma mi era passata la voglia. Preferivo farmela a casa e sprofondare lì nell’imbarazzo, piuttosto che rimanere negli spogliatoi, solo io e te, nudi, col cervello a tremila in fantasie e cose che non avrei dovuto immaginare su un altro uomo.
Chiusi la cerniera con un gesto secco, me la misi in spalla e aprì la porta.
“Va bene”.
La tua voce bassa mi bloccò. Con la mano sulla maniglia, mi fermai come una statua di marmo, congelato.
“Va bene. Proviamoci”.
Mi sono voltato di scatto verso di te, con gli occhi sgranati. Dicevi sul serio? In quel momento mi sembrava la cosa più incredibile che potesse succedermi…

 

Non hai mai detto che io me ne sono andata
Ti vorrò sempre
Non posso vivere una bugia, fuggendo dalla mia vita
Ti vorrò sempre


Sono uscito dagli spogliatoi come un automa. Non ti ho risposto, non ti ho detto niente. Ti ho solo fissato per un interminabile minuto e poi sono uscito. Mi sentivo un idiota, ma non sapevo cosa dirti, e alla fine avevo preferito tacere.
Immaginavo fosse una scemenza detta sul momento, con l’adrenalina a mille come complice, non pensavo fosse vero.
Non pensavo nemmeno che quello che ti avevo detto io lo fosse.
Come poteva essere? Eppure non mi sentivo un bugiardo. Mi sentivo molto vero, invece. In quel momento, mi passò persino per la testa l’assurdo insegnamento di mia madre che, ogni qualvolta scopriva che io o i miei fratelli dicevamo una bugia, ci bacchettava le mani. Il dolore cocente di quella bacchetta posso sentirlo persino ora, sulle dita, e in quel momento non mi parve bruciante come mi sembrava quando mentivo. Era il segnale con me stesso per capire se avevo detto una stupidata o se ero stato sincero. In quel momento, le mie dita non bruciavano. Le sentivo anzi congelate per il contatto col freddo autunno tedesco.
E poi io non sono mai stato uno che racconta bugie, perciò anche in quel momento mi parve di essere sincero. Non volevo fuggire via dalla realtà, non volevo negare quello che avevo fatto e che era successo. Volevo anzi analizzarlo e accettarlo. Quindi andare avanti.
Ripercorsi nella mia mente tutte le immagini di quei momenti, e mi parve tutto estremamente reale e sincero.
Ma Karl? Karl era stato sincero?

 

Sono arrivata come una palla da demolizione
Non ho mai colpito così forte per amore
Tutto quello che volevo era distruggere i tuoi muri
Tutto quello che tu hai fatto è stato distruggere me
Sì, mi hai distrutta


Il giorno dopo arrivai agli allenamenti con l’aria spavalda di sempre.
La notte non avevo dormito molto, mi ero girato e rigirato nel letto come una trottola, agitato delle nuove prese di coscienza sulla mia sessualità.
Ma ovviamente questo non era una cosa che potevo mostrare al mondo intero, io sono un uomo tutto d’un pezzo!, e tutti così devono vedermi. Perciò, entrai con la solita grazia da elefante e dopo un saluto generale, buttai pesantemente la sacca sulla panca di legno chiaro. Spalancai il mio armadietto e non mi guardai intorno. Non volevo vedere se tu c’eri, e non volevo scontrarmi con te. Speravo che tu non ci fossi, a dirla tutta, e quel giorno ero quasi stato tentato di non presentarmi agli allenamenti, ma non era da me tirarmi indietro e scappare, anzi!, io affronto sempre tutto di petto, anche a costo di dare una gran capocciata contro un muro solidissimo.
Ma non ci fu bisogno di guardarmi intorno per scoprire se c’eri. Tu eri lì, proprio di fronte a me, che mi fissavi mentre mi allacciavo gli scarpini.
Alzai lo sguardo, e dapprima vidi le tue cosce dai muscoli potenti, poi il tuo petto scolpito e infine la tua faccia. Faccia che mi fissava con una strana espressione che non seppi decifrare.
Ti guardai interrogativo, nei miei occhi solo una rude domanda: “Che diavolo vuoi?”.
“Hai capito quello che ti ho detto ieri?”.
La tua voce come tante lame taglienti, un suono stridulo nelle mie orecchie.
“Che cosa dovevo capire?”. La tattica del finto tonto non era da me, ma non mi era venuto in mente nient’altro per temporeggiare, e perciò questo dissi.
“Quello che ti ho detto ieri” hai ripetuto, poi ti sei piegato verso di me e mi hai sussurrato all’orecchio: “Vuoi che lo urli ai quattro venti?”.
Sentì l’agitazione in petto, il fremente bisogno di scappare da quella situazione: “No”, riuscì solo a dire.
“Allora hai capito?”. La tua domanda suonava tanto come una minaccia…
“Sì, certo che ho capito, non sono mica stupido!” dissi, stizzito, alzandomi in piedi e voltandoti le spalle per un secondo per afferrare i guantoni nella borsa.
“Allora siamo intesi”. La tua lapidaria frase mi fece capire che tu avevi deciso. Che da quel momento in poi noi avremmo avuto… una storia? Potevo definirla tale? Potevamo davvero noi due avere una relazione?
Quelle stesse domande me le feci anche per tutti i giorni successivi.
A quel punto le cose erano cambiate. Non c’erano più Genzo e Karl che si incontravano agli allenamenti, se ne dicevano di tutti i colori e poi ognuno per la sua strada. Al massimo qualche uscita di gruppo con gli altri, ma mai da soli e mai troppa confidenza.
Adesso tu arrivavi a casa mia, entravi come fosse tua e ti appropriavi del mio divano, della mia televisione, del telecomando, del plaid, dei cuscini, del contenitore coi pasticcini e di qualunque altra cosa le tue mani arrivassero ad afferrare.
Ci sedevamo vicini, guardavamo quello che pareva a te e basta.
Mai una carezza, mai un abbraccio, mai due mani strette, mai più un bacio.
Non sapevo esattamente cosa fossimo, e se era vero quello che avevi detto, allora forse dovevamo fare qualcos’altro, ma tu perché non agivi? Toccava a me prendere l’iniziativa, come quel giorno negli spogliatoi dopo quella terribile partita? Non ne avevo idea…
E mentre decidevo, aspettavo. E temporeggiavo. E il tempo passava.
E io, ogni giorno, cercavo di capire un po’ di più cosa tu volessi, ma senza riuscirci.
Non che tu fossi d’aiuto, intendiamoci… non facevi proprio un bel niente! Ti mettevi sul divano, con i piedi sul tavolinetto basso lì di fronte, ti avvolgevi nel plaid e facevi la mummia. E non è che uno con una mummia immobile davanti ha tante idee da farsi…
Quanto era alto quel tuo muro, Karl?, quello che tu usavi con tutti? Se stavamo insieme come avevi deciso, allora perché con me eri sempre così chiuso e non dicevi niente?
Potevamo anche passare pomeriggi interi senza dire una parola oltre il “Ciao” di quando arrivavi e il “Ciao” di quando te ne andavi. Non era normale, giusto? Anche io che non avevo grande esperienza in ambito amoroso me ne rendevo conto…
Così un giorno presi il coraggio a due mani e, mentre eri intento a sgranocchiare un pasticcino sbriciolando il mio plaid bordeaux, ti afferrai rudemente il volto e, voltandoti verso di me, ti diedi un fac-simile del bacio che ti avevo dato l’altra unica volta che ci eravamo baciati.
Mi staccai subito, e vidi che tenevi gli occhi aperti.
Li vidi fissarmi inespressivi, poi una luce in loro e un sorriso beffardo sulle tue labbra: “Era ora, portiere…”. La tua bocca sulla mia a sussurrare, prima di chiudersi in un bacio, il tuo corpo cavalcioni sul mio, il plaid a terra, le tue mani sul mio collo, le mie sui tuoi fianchi.
Fu il primo, vero, bacio che ci scambiammo.

 

Ti ho portato in alto nel cielo
E adesso non stai tornando giù
la situazione è cambiata lentamente,
tu mi hai lasciata bruciare
E adesso siamo cenere sul terreno


I nostri incontri successivi non finivano più sul divano a guardare la tv, ma direttamente sul letto. Ci strusciavamo, ci accarezzavamo, non smettevamo un secondo di baciarci.
La mia eccitazione era a mille e saliva ogni volta di più, e anche tu mi sembravi ogni giorno più coinvolto e passionale.
Le tue guance si colorivano, ed era incredibile vedere un po’ di rossore su quella pelle sempre pallida…
Sentivo il tuo corpo bruciare, il mio ustionava di desiderio.
E alla fine successe.
Non so come, non so in che modo, ma successe.
E fu bellissimo.
Intenso.
Passionale.
Selvaggio.
Fu rude, come noi, ma io cercai di farti il meno male possibile.
Non fu semplice, ma lo volesti fare tante e tante altre volte ancora, dopo quella prima volta, perciò immagino di essermela cavata abbastanza bene…
Eri fremente, e io mi sentivo ribollire. Mi sembravi una Creatura Celeste, un Angelo, ultraterreno… eri così bello e sexy, così sensuale e coinvolgente, che non potevi essere vero. Ti sentivo ad altezze infinite, mi portavi con te e poi mi lasciavi cadere giù. Tu, invece, rimanevi sempre su, sempre in alto, sempre un passo avanti a me. Mio nel corpo, ma mai con la mente.

 

Non ho mai avuto intenzione di iniziare una guerra
Volevo solamente che tu mi lasciassi entrare
E invece di usare la forza
Penso che al tuo posto io ti avrei lasciato entrare


Cercavo di farmi andare bene tutto questo. Alla fine, mi dicevo, stavi condividendo con me cose che non penso avevi mai condiviso con qualcun altro.
Eppure, dopo quasi un anno in cui ci vedevamo, mi resi conto che non mi bastava più. Non era più sufficiente. Volevo di più.
Volevo entrare nel tuo mondo, nella tua mente, nella tua anima, nel tuo cuore.
Non avevo idea se tu pensassi a me in termini romantici, ma per me ormai tu eri il mio ragazzo.
Eri importante, e tale volevo essere per te.
Ma come fare?
Avevo provato in svariati modi a entrare in argomento, ma tu lo glissavi con la tua innata classe, la stessa che avevi in campo quando correvi o facevi palleggi col pallone. Perciò alla fine mi accontentai di guardare i tuoi gesti, cosa facevi nei miei confronti, e mi resi conto che c’era poco da guardare.
Tu non facevi niente per me.
Certo, mi donavi il tuo corpo, e questo era incredibile ed emozionante ogni volta, ma oltre questo?
Una relazione non è fatta solo di sesso. Ci sono tante altre cose in mezzo, cose che io cominciavo a sentire forte per te…
“Cosa siamo, Karl?”.
Te lo chiesi una notte di autunno, a pochi giorni dalla prima volta che ci baciammo, mentre eravamo stesi al buio nel letto.
Non mi risposi, ma so che i tuoi occhi mi fissarono nel buio.
Mi feci coraggio e proseguì: “Voglio dire… ormai è un anno che ci frequentiamo, quasi…” inghiottì a vuoto. Ricordo ancora il rumore sordo che fece la mia gola, acuto e assordante in quel silenzio assoluto “Cosa siamo, noi due?”.
Tu continuasti a non rispondere.
Allora io insistetti: “Cosa sono io, per te?”.
Mi sentivo una ragazzina idiota, di quelle che devono confessarsi al loro primo amore e dicono cose impacciate e senza senso, ma volevo solo sentire cosa mi diceva l’istinto e seguirlo.
Ma fu un errore. Me ne resi conto solo dopo. Forse, se non avessi parlato, tu non avresti reagito in quel modo. Forse, se io ti avessi dato più tempo, le cose sarebbero andate diversamente.
Forse…
Ma non si vive di forse.
Si vive solo di quello che si fa e si sente, e la tua reazione alla mia domanda su furente.
Ti alzasti di scatto dal letto, gettasti in aria le coperte, accendesti la luce e ancora in mutande mi urlasti contro, col volto paonazzo dalla rabbia: “Cosa? Cosa sei tu per me? Ma cosa vuoi?”.
Ti fissai a occhi sbarrati: “Che…?”.
Non riuscivo a capire.
Perché quella reazione enorme? Che senso aveva? Non ti avevo mica chiesto di buttarti di sotto al posto mio…
“Non devi rompermi, Wakabayashi, non devi!”, continuasti ad urlare “Non puoi permettertelo!”.
“Beh, penso di poterti chiedere una cosa che riguarda anche me, no?”. Mi ero portato a sedere sul letto. Ti fissavo, a gambe incrociate, i gomiti sulle ginocchia, la voce impassibile, l’espressione calma.
Dentro, bruciavo di paura.
“Non ti riguarda proprio un bel niente!” urlasti “Tu non sei niente”.
Il tuo sibilo freddo mi frantumò il cuore. Non so che rumore faccia un cuore che si rompe, non so nemmeno se un cuore si può rompere, ma ti assicuro che in quel momento sentì il mio sgretolarsi.
“Molto bene” ti dissi.
Mi alzai dal letto, afferrai la tua roba dal pavimento, te la ficcai in mezzo alle braccia e prendendoti per un avambraccio, ti spinsi dapprima fuori dalla stanza e infine in corridoio fino alla porta d’ingresso.
“Vestiti e vattene”.
In quel momento ti odiavo. E tu odiavi me.
Mi hai fissato con i tuoi grandi zaffiri e senza dire una parola ti sei vestito e hai afferrato la maniglia.
“Sei come tutti gli altri. Sei buono solo a scappare”.
Me lo hai detto senza voltarti, prima di spalancare la porta e uscire per sempre dalla mia casa e dalla mia vita.
Io invece sono rimasto lì a fissare la porta, in boxer, come un deficiente. Per così tanto tempo che non me lo ricordo neanche. So solo che dopo avevo la febbre a causa del freddo preso, tutto nudo su un corridoi gelido per ore.
Mi girava la testa, mi sentivo a pezzi, ero stanco e fiacco e non potevo credere che fosse successo davvero.
Avevo davvero sbagliato a parlare? Ma se una coppia non parla che coppia è? Ma noi eravamo davvero una coppia? Evidentemente no… eppure tu avevi detto quella cosa, alla fine… ti avevo pressato troppo? Avrei dovuto pazientare e vedere se prima o poi dalla tua bocca sarebbe uscito qualcosa? Se ti fossi corso dietro avremmo potuto sistemare le cose?


Non hai mai detto che io me ne sono andata
Ti vorrò sempre


Non lo so e non lo saprò mai.
Tu non sei più tornato.
Non mi hai più guardato in faccia, non mi hai più rivolto la parola e alla fine io sono andato a giocare in un’altra città, perché era diventato insostenibile per me vederti ogni giorno.
Sì, alla fine sono scappato.
Da te, da noi, da tutto quello che c’era stato e da tutto quello che non era stato detto. Da tutto quello che avrei voluto dirti, urlarti, da tutti i pugni che avrei voluto tirarti.
Tra noi è finita, e non so neanche bene il perché…
Ma io me ne sono andato, e ormai non c’è più posto per un Noi.
Sempre ti penso, sempre ti voglio, sempre cerco di capire.
Sempre.
Invano.
Avrei dovuto starmene zitto. Avrei dovuto correrti dietro e chiederti cosa volessi dire con quell’ultima frase. Avrei dovuto fare delle cose che non ho fatto e che mi rimpiangerò per sempre.
Avrei dovuto afferrarti e dirtelo, finalmente: “Ti amo, resta con me”.
Ma non l’ho fatto.
E il dolore acuto che ho provato quando tu sei andato via e io non ho fatto niente, è stato paragonabile solo al frastuono assurdo che fa una palla di cemento che distrugge un palazzo. Un boato. Sordo. Al mio cuore.
Solo…

**FINE**

   
 
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