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Autore: Macaron    29/10/2013    9 recensioni
"Quella sera nella penombra della sua stanza John inizia a scrivere le avventure del geniale Sherlock Holmes e del suo fido assistente John Watson. Quella sera John inizia a studiare i libri di medicina che ha sempre ignorato e le cartelle che lo riguardano di cui ha sempre avuto paura. “Oggi” scrive sul suo quaderno, “ a ventisei anni mi sono sentito un essere umano.” Quella sera tutto cambia, di nuovo
Nessuno ha mai visto John Watson, ma quella sera dopo il primo abbraccio della sua vita John decide che non va più bene così."

Nessuno ha mai visto John Watson, nessuno ha mai voluto vederlo prima e nessuno ne ha mai avuto la possibilità dopo, nessuno fino a Sherlock Holmes.
Invisible!John
Genere: Malinconico, Sentimentale, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
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A Nat, perchè ne ha letto dei brani nonostante fosse triste e perché tutti dovrebbero avere una persona come Nat sul comodino.

A Leni, perché camminando per Milano mentre le raccontavo la trama ha riso e mi ha detto “Non puoi ammazzare trecento bambini, non sta bene!” ma anche “Scrivila!” e perché è il mio Re Mida delle fanfiction e tutto quello che scrive diventa oro.

 

 

 

Nessuno ha mai visto John Watson. Durante le prime ecografie la futura madre, Lydia, si era coperta gli occhi con la mano e non aveva rivolto nemmeno un’occhiata furtiva al monitor un po’ per scaramanzia, un po’ perché da ragazza si era iscritta ai corsi di medicina e anche se li aveva abbandonati dopo pochi mesi era convinta di riuscire a scorgere in quell’immagine sfocata il sesso del futuro nascituro che non voleva assolutamente scoprire. Si era coperta gli occhi con la mano e si era limitata a chiedere ansiosamente alla dottoressa se tutto andasse bene, se tutto fosse a posto con il suo bambino. La dottoressa non si era stupita delle preoccupazioni della giovane donna, di future madri con la tendenza a credere a qualsiasi tipo di superstizione ne aveva incontrate parecchie durante gli anni in cui aveva esercitato la professione, e stringendole la mano libera le aveva sorriso e aveva sempre confermato come tutto andasse benissimo, come tutto andasse splendidamente e come la signora s’avviasse alla fine della gravidanza nel modo più lineare possibile.

Nessuno ha mai visto John Watson. Dopo la scoperta della gravidanza, profondamente cercata da lei e dal marito che sognavano di dare un fratellino alla primogenita di ormai sei anni, Lydia si era divertita a immaginare suo figlio. Suo figlio, perché nella sua mente era sempre stato un maschietto. Se l’era immaginato con prima tanti capelli castano scuri come il marito e con i suoi stessi occhi perennemente pensierosi. Poi se l’era immaginato biondo, come lei, e con gli occhi di ghiaccio come il fratello che aveva perso quand’era ancora una bambina. Le sarebbe piaciuto un figlio con gli occhi color ghiaccio in cui rivedere la forza del fratello, in cui rivedere quell’uomo che aveva perso troppo presto e che le piaceva così tanto. Harriet, la futura sorella maggiore, era convinta che il fratellino avrebbe avuto gli occhi blu perché la mamma le aveva detto d’aspettarlo in una giornata di sole, una delle rare giornate di sole a Londra, in cui il cielo era così blu da far male e per qualche settimana Lydia prima di dormire aveva parlato a un bambino con gli occhi di un blu così bello da far male.

Lydia aveva parlato a un bambino dai capelli biondi e dagli occhi di un blu così bello da far male, gli aveva raccontato le stesse storie che narrava alla figlia minore, l’aveva accarezzato tramite al pancione e aveva condiviso con lui i suoi sogni per il futuro. Per settimane Lydia s’era addormentata con l’immagine di un bambino dagli occhi blu e dai capelli biondi vicino a lei.

Poi la dottoressa aveva detto “Signora Watson, dobbiamo parlare del cuore di suo figlio.” E il mondo di Lydia si era fermato. La dottoressa aveva detto “Il cuore di suo figlio non si è sviluppato a dovere.” E ancora “Ho già fatto vedere la sua ecografia a uno specialista, potrebbe non sopravvivere al parto e anche se ci riuscisse difficilmente vivrebbe per più di qualche ora.” La dottoressa aveva detto questo e a Lydia era sembrato di non poter sentire più nulla.

Per settimane Lydia si era addormentata immaginando un bambino biondo dagli occhi così blu da far male e poi la dottoressa aveva parlato e quell’immagine era andata in pezzi. La dottoressa aveva parlato e nella testa di Lydia non c’era più nessun bambino biondo, castano, moro ma c’erano solo tubi e defibrillatori e sangue e vuoto. Per settimane Lydia si era addormentata immaginando un bambino e poi la dottoressa aveva parlato e lei si era trovata ad accarezzare la pancia nel cuore della notte e non vedere più nulla.

Nessuno ha mai visto John Watson.

 

 

 

Harriet sa benissimo che nessuno di quei bambini al di là del vetro è suo fratello. La madre e il padre le hanno spiegato che il fratellino non tornerà a casa con loro quel giorno. Le hanno spiegato che la mamma partorirà un angioletto e che non potranno portarlo a casa con loro perché gli angioletti non sono di nessuno e vengono al mondo per aiutare gli altri e anche il suo fratellino farà così perché il suo cuore è troppo debole per un bambino vero, ma forte abbastanza per un angioletto, ma tutti i suoi altri organi sono perfetti e potranno aiutare altri bambini, potranno servire per fare felici i fratellini di qualcun altro. Harriet ha solo sette anni ma non è stupida e non riesce proprio a capire perché se il fratellino è un angelo nessuno vuole vederlo. A lei non è stato permesso, è rimasta in sala d’attesa con la nonna, ma il pianto della madre lo riconoscerebbe ovunque, come la sua voce che chiede alla dottoressa di portarlo via perché non vuole vederlo, perché non può vederlo. Harriet pensa che nessuno rinuncerebbe a vedere un angioletto, perché gli angioletti sono bellissimi e hanno le ali e volano e hanno i capelli biondi e riccioli e tutte queste cose bellissime e insomma nessuno può non voler vedere un angelo e allora perché i suoi genitori lo rifiutano? Lei, se potesse, lo andrebbe subito a vedere quell’angelo anche se per pochi minuti, anche se sapendo di non poterlo portare a casa con lei. Lei, pensa mentre scappa dall’abbraccio della nonna e corre verso il vetro che separa la sala d’attesa dalla sala dove stanno i bambini appena nati, lo vedrebbe più che volentieri quell’angioletto ma soprattutto vedrebbe il suo fratellino anche sapendo di non poterselo portare a casa, anche sapendo di potersi limitare a lanciargli qualche occhiata da un vetro. Perché quello, quello che sua mamma e suo padre non vogliono vedere, è il suo fratellino e anche se non è un angelo, anche se il suo cuore non è abbastanza forte per un bambino vero, a lei piace lo stesso e l’unica cosa che desidera è poterlo conoscere. Così Harriet scappa dall’abbraccio della nonna, le cui urla rimbombano quasi per l’ospedale, e si mette a saltellare freneticamente davanti al vetro che la separa da tutti quei minuscoli bambini appena nati.

“Harry! Quante volte te lo devo dire? Devi rimanere con la nonna. Il papà arriva subito e qui non c’è nulla da vedere.” Sbotta la nonna ma poi posando lo sguardo sugli occhi tristi della nipote la sua voce si fa più dolce “ Dai ti porto a prendere un dolce in caffetteria.”

Harriet si aggrappa con la mano alle dita rugose della nonna e la segue senza fare storie. La nonna ha ragione, non c’è nulla da vedere lì. Non c’è nulla che l’interessi e non perché non ci sono bambini con le ali, perché Harry ha detto tutto quello che i suoi genitori si aspettavano ma non crede davvero che la madre possa aver messo al mondo un bambino con le ali, perché nessun bambino ha gli occhi del blu del cielo di Londra. Non c’è nulla da vedere in quella stanza, il suo fratellino non c’è e lei quella sera tornerà a casa senza averlo mai visto.

Nessuno ha mai visto John Watson.

 

 

 

John Watson non muore quel giorno d’agosto, il giorno della sua nascita. Prima della sua nascita i genitori firmano tutti i documenti che consentono al prelievo degli organi dal corpo del figlio e poi rimangono nella loro stanza ad aspettare. Rimangono per ore ad aspettare che qualcuno gli dica che il loro bambino se n’è andato, e che il suo fegato sta facendo felice una famiglia in Scozia la cui bambina non sarebbe altrimenti sopravvissuta a lungo, e che un medico o un’infermiera gli consegni quel corpicino senza vita a cui ormai hanno rinunciato settimane prima con il cuore spezzato. Succede. Succede esattamente così. La dottoressa arriva e il signor Watson percorre i diciassette passi che lo separano dalla stanza dove un bambino giace senza vita, dove suo figlio giace senza vita. E quello che segue è quello che segue normalmente e allo stesso tempo non lo è, perché non c’è nulla di normale in un lutto del genere, non c’è nulla di consueto in un dolore del genere. Ci sono lacrime e funerali e dolore e disperazione e nulla, nulla è normale in un caso del genere anche quando ogni cosa segue i giusti binari.

Solo che John Watson non muore quel giorno d’agosto. Solo che il corpo che Lydia accarezza e a cui dice addio non è quello del figlio, a conferma di quanto per l’ennesima volta nessuno l’abbia mai visto. John viene trasportato in una struttura medica di proprietà del governo inglese dove si dice che si facciano esperimenti sugli esseri umani oltre che sugli animali. John viene trasportato in una struttura medica di proprietà del governo inglese dove si dice che si facciano esperimenti sugli esseri umani perché è vero. John viene trasportato in una struttura dove i bambini per cui non c’è speranza e a cui la famiglia ha rinunciato, più o meno consapevolmente perché quanti genitori sarebbero disposti a rinunciare al proprio figlio e farlo diventare una cavia da laboratorio? (probabilmente diversi. Probabilmente molti di quelli a cui è stato detto che è l’unica alternativa alla morte. Probabilmente), diventano dei numeri, diventano degli esperimenti nei quali la loro sopravvivenza è solo un beneficio accessorio e quello che conta davvero è la conoscenza, è l’evoluzione. John viene trasportato in una struttura dove diventa solamente un numero, dove nessuno lo vede, dove nessuno vede in lui qualcosa di più di una cavia. John diventa il bambino numero sei dell’esperimento Bluebell, per mesi diventa un puntaspilli che appena si addormenta ha incubi e piange e si dispera fino a che qualcuno non lo consola. Nessuno lo consola mai perché nessuno lo vede, perché nessuno lo sente. Perché è solo un numero, è solo un esperimento e nessuno sente il bisogno d’abbracciare un esperimento. John diventa il bambino numero sei e poi dopo mesi di iniezioni, dopo mesi d’esperimenti che se non fosse così piccolo lo segnerebbero in maniera così drammatica da fargli sperare d’essere morto davvero (e forse è così, solo che nessuno lo sa), diventa qualcos’altro. Diventa uno dei bambini invisibili, diventa il bambino invisibile. Vivo ma invisibile. Nessuno ha mai visto John Watson, e in una struttura medica nella provincia di Londra nessuno può più vedere John Watson. 

 

 

 

John Watson non rimane il bambino numero sei per sempre. Non diventa l’adolescente numero sei al compiere dei tredici anni. Non diventa l’adulto numero sei e poi un nuovo tipo particolare di soldato da impiegare in guerra, perché tutto il protocollo sperimentale ha sempre puntato a quello: a creare supersoldati invisibili o con altre caratteristiche non propriamente tipiche dell’essere umano, e non diventa l’anziano numero sei. Il progetto Bluebell si conclude una mattina di settembre, poche settimane dopo l’undicesimo compleanno di John. A quanto pare anche se scegli i tuoi collaboratori dopo lunghe indagini e lavori per il governo inglese può succedere che qualcuno del tuo staff parli e l’opinione pubblica non reagisce positivamente a parole come “esperimenti sugli esseri umani” e soprattutto quando sono associate ad altre parole come “Bambini” e “minori” e “creature indifese”. Il progetto Bluebell si conclude una mattina di settembre con un’ala di un edificio che viene praticamente sgombrata, con funzionari della polizia alla porta e con il personale che urla e distrugge documenti e sposta bambini come se fossero pacchi, come se fossero pacchi di cui sbarazzarsi prima che possano finire sui giornali e far scoppiare uno scandalo con cui l’Inghilterra non è pronta a confrontarsi. Tutto dev’essere buttato, cancellato, nascosto sotto il tappeto. Nulla dev’essere reso pubblico, nulla deve trapelare. Nessuno deve sentir parlare di bambini mutanti, nessuno deve vederli. Bisogna spostarli in un’altra struttura (spostarli per quanto? Spostarli e cosa fare di loro? Spostarli per guardarli morire visto che molti sono ancora così fragili da non sopravvivere al di fuori di un laboratorio?), bisogna nasconderli e bisogna fare in fretta. Devono rimanere degli esperimenti, devono rimanere dei numeri, perché con i numeri ci si può confrontare mentre  le loro facce,  il viso di un bambino dagli occhi scuri o di una ragazzina con le trecce non si possono accantonare, non si possono dimenticare. Bisogna nasconderli e bisogna fare in fretta prima che la bomba esploda. Bisogna chiudere tutto, dichiarare morti tutti quegli esperimenti (e poi ricominciare da un’altra parte, facendo solamente più attenzione), far scomparire quei bambini prima che sia troppo tardi. Cancellare e dimenticare. Nascondere sotto il tappeto. Una mattina di settembre il progetto Bluebell viene cancellato e tra tutti pacchi che vengono trasportati in furgoni, tra tutti i bambini che vengono trasportati altrove non c’è l’esperimento numero sei, non c’è il bambino numero sei. Perché come in tutti gli altri momenti importanti della sua vita nessuno vede John Watson. Sono tutti impegnati a distruggere documenti e spostare esperimenti con evidenti malformazioni (che non devono, non devono essere visti) che un bambino invisibile sfugge agli occhi del personale. Se ci fossero i medici e i ricercatori che si sono occupati di lui in quegli undici anni, in quegli undici anni in cui ha smesso di essere una persona ed è diventato un numero, non gli sarebbe sfuggita la sua assenza ma nessuna persona coinvolta così attivamente in un progetto penalmente perseguibile sarebbe presente a inscatolare tutto invece di essere su un aereo diretto il più lontano possibile. In undici anni John Watson ha smesso di essere un bambino, di essere una persona ed è diventato un esperimento e in quella mattina di settembre John smette di essere anche quello e diventa semplicemente nulla. Per la prima volta diventa invisibile anche per quelli che l’hanno creato. Nessuno si accorge di lui (e invece dovrebbero, dovrebbero accorgersi di lui perché è speciale. Perché è un bambino invisibile e come fai a dimenticarti di qualcosa di così unico?), nessuno si accorge che mentre stanno impacchettando documenti e spostando quello che rimane di degli esseri umani lui è semplicemente in un angolo a respirare spaventato. A diventare invisibile. Una mattina di settembre John smette di essere un esperimento e contemporaneamente smette di essere qualsiasi cosa. Nessuno l’ha mai visto come una persona prima, nessuno lo vede nemmeno come un esperimento adesso. Una mattina di settembre John smette di essere qualsiasi cosa. Fino a Sherlock Holmes.

 

 

 

A Londra sono poche le strutture governative che rimangono chiuse per sempre, soprattutto quando sono legate a un quasi scandalo. Soprattutto quando sono legate a un quasi scandalo che coinvolge minori e sono strutture perfette per diventare un ospedale, o almeno la sede secondaria di un ospedale. Nel giro di tre anni tutto l’edificio viene riaperto al pubblico con una serie d’iniziative che mirano a ristabilire l’opinione pubblica e ad accattivarsi le simpatie dei media. Vengono cancellate tutte le tracce del passato, di tutti i bambini che non ce l’hanno fatta e di quelli che ce l’hanno fatta ma sono diventati qualcosa di diverso, qualcosa di cui fa troppo male parlare. Nascono laboratori che ospitano iniziative legate alle scuole vicine. Vecchi locali prima pieni di documenti segreti diventano il centro della ricerca di cure per l’infanzia. Solo una stanza rimane chiusa, sigillata, a memoria di quello che è stato e che non è più, e che non deve più esistere. È in quella stanza che inizia la seconda fase della vita di John Watson. In una stanza polverosa di un ospedale dove nessuno sa che esiste e dove nessuno lo vede. In una stanza dove per la prima volta non è più un esperimento ma può provare ad essere qualcosa di diverso. Qualcosa di migliore, qualcosa che sia solo suo.

Non è facile. Non è facile cavarsela quando per undici anni della tua vita le tue giornate si sono limitate a test e cibo consegnato da persone che non sanno nemmeno il tuo nome, John che ha un nome l’ha scoperto a sei anni durante quella che doveva essere la sua prima giornata di scuola all’interno di un laboratorio perché nessuno sarebbe interessato a un soldato invisibile che non sa nemmeno leggere, e poi di nuovo test e poi nulla, nulla per ore. Non è facile quando non sai come funziona il tuo corpo, quando le uniche cose che sai della tua persona vengono da una cartella scritta in termini troppo difficili. Non è facile quando fino a pochi giorni prima non sapevi nemmeno cosa ci fosse fuori dalla tua stanza. Non è facile, non è facile eppure lo è perché John a suo modo è speciale. Non solo perché è un bambino, un ragazzino, invisibile ma perché è in gamba. Se gli fosse stato permesso di essere un bambino normale, prima dal destino e poi dalle persone che hanno preso decisioni della sua vita, sarebbe stato sicuramente uno di quelli in gamba. Non la persona più luminosa all’interno di una stanza forse, non un genio, ma uno di quelli in gamba. Uno di quelli che non mollano, che non si arrendono. È tenace. È come se la sua mente sia stata programmata per avere quella forza di cui era privo il suo corpo alla nascita. Non è facile cavarsela da solo ma contemporaneamente è così facile poter essere da solo, poter pensare da solo, poter imparare da solo, poter essere qualcosa di più di quello che è stato scelto per te che a John anche il resto sembra tutto così semplice. Non è ancora qualcosa, non è ancora qualcuno, è ancora un ragazzino invisibile che nessuno vede quando cammina per i corridoi dell’ospedale o quando sbircia gli adolescenti delle scuole che vengono a visitare la struttura ma almeno non è più niente.

Non è ancora qualcosa, non può essere ancora qualcosa fino a Sherlock Holmes.

 

 

 

John Watson incontra per la prima volta Sherlock Holmes il sette gennaio e lui ovviamente non lo vede. Gli passa così vicino che potrebbe sfiorarlo, se qualcuno potesse sfiorarlo, e non lo vede perché nessuno vede John Watson. Non lo vede ma tutto cambia, tutto cambia lo stesso. Perché non potrebbe essere altrimenti, perché non ci sono alternative quando un John Watson incontra uno Sherlock Holmes.

Sherlock ha dodici anni, i capelli ricci , gli occhi color ghiaccio e l’uniforme scolastica tutta in disordine. Cammina veloce, più veloce di tutti gli altri ragazzini in gita con la scuola, e non ascolta nulla di quello che l’insegnante gli dice e si guarda in giro come se riuscisse a capire il funzionamento di ogni singola attrezzatura, come se riuscisse a vedere ogni cosa. Tranne lui, ma va bene lo stesso perché nessuno vede John e qualcuno che vede tutto il resto è già abbastanza interessante. Sherlock cammina veloce e quasi lo sfiora mentre forza la serratura di un locale dove non dovrebbe entrare, e John vorrebbe dirglielo che non può entrarci ma non lo sentirebbe quindi rimane solo a guardare affascinato, e ha gli occhi che brillano quando riesce finalmente ad entrare e si trova davanti a una distesa di microscopi. John di persone ne ha viste nell’anno che è trascorso dall’apertura dell’ospedale. Ha visto persone intelligenti, persone stupide, donne bellissime e uomini brufolosi e una quantità enorme di ragazzi che assomigliano a quello che sarebbe potuto essere lui ma nessuno ha mai avuto quel bagliore negli occhi. Nessuno gli è mai piaciuto così tanto senza aver detto nulla.

 

 

 

Diversi studi confermano che nell’infanzia è piuttosto comune per i bambini creare rapporti interpersonali basati sull’immaginazione e non sulla reale presenza fisica. Questo fenomeno, che generalmente aiuta il bambino ad alleviare le sue paure ed ansie svolgendo una sorta di funzione di tutor, prende il nome di amico immaginario. Gli psicologi lo definiscono un fenomeno completamente normale nelle fasi della crescita.

John Watson però non è un bambino normale, non è un ragazzino normale, non ha c’è nulla di normale in lui. John è invisibile e non può avere amici normali. A tre o quattro anni non ha potuto guardare i cartoni animati con gli altri bambini, non ha potuto giocare con le costruzioni. Non ha potuto essere scelto per primo o per ultimo per la squadra di calcio della scuola a sette anni. Non ha potuto tirare le trecce alla moretta del primo banco, quella con gli occhioni verdi che non gli piace ma a cui non riesce a smettere di pensare a dieci anni. Non ha potuto litigare con il suo migliore amico a tredici perché la stessa morettina sembra prestare più attenzioni a lui. Non ha avuto amici normali e così la cosa che si avvicina di più a un amico immaginario è una persona reale. A pensarci razionalmente non c’è nulla di più immaginario di un amico reale per John. Sherlock, perché seriamente non sarebbe potuto essere nessun altro dal momento in cui si sono quasi sfiorati in corridoio e non c’è stato più spazio dentro di lui per altro, non gli parla davvero, non gioca con lui, non lo prende in giro, non lo consola quando è triste (John pensa razionalmente che non lo consolerebbe comunque neanche se potesse vederlo perché quelle sono le cose che fanno gli amici normali e Sherlock è qualcosa di molto più difficile e straordinario). Sherlock non lo abbraccia, non lo sfiora. Sherlock non lo vede nemmeno, cosa c’è di più immaginario di questo? Una persona reale che è amica di una persona invisibile. Niente di più di un amico immaginario (niente di più dell’unico amico che John abbia mai avuto).

 

 

 

Immaginario o meno quello con Sherlock è l’unico rapporto nella vita di John Watson. Ad essere precisi passa almeno un paio d’ore alla settimana con una signora dai capelli biondi e gli occhi verdi che si reca a fare la spesa dal Tesco vicino all’ospedale. Nella cartella clinica a lui dedicata c’erano i dati di tutti i suoi familiari ma John non ha mai voluto cercarli perché che senso avrebbe avuto scoprire che si sono dimenticati di lui? Come avrebbe potuto aiutarlo? Però nella cartella c’era anche una foto della donna che l’ha messa al mondo, a quindici anni John si sente troppo arrabbiato per definirla madre, ed aveva i capelli biondi e gli occhi verdi così quando si reca nei supermercati per procurarsi da mangiare gli piace passare un po’ di tempo con le donne con quei colori, vivere un po’ delle loro vite ed immaginar visi dentro.

Fatta eccezione per la signora dai capelli biondi quello con Sherlock è l’unico rapporto nella vita di John. Dopo quella prima visita all’ospedale, finita con il fratello maggiore costretto a recuperarlo mentre è intento a scoprire la cura per qualche malattia mortale o a far scoppiare l’intera struttura, Sherlock Holmes trascorre in ospedale almeno due pomeriggi alla settimana. Dopo quella prima visita John Watson e Sherlock Holmes trascorrono insieme almeno due pomeriggi alla settimana. Sherlock riceve il permesso di occupare una stanza del laboratorio, a quanto pare la sua famiglia è ricca stando a quanto lo sente borbottare al telefono, per i suoi esperimenti e lì si incontra con John. Forse incontrarsi è un termine eccessivo, forse denota troppa positività visto che si tratta d’incontri a senso unico ma si tratta pur sempre di qualcosa. Sherlock è sempre da solo nel laboratorio, non invita mai amici o fidanzate o fidanzati, e John è solo quindi possono provare ad essere soli insieme, vero? E parla. Parla tantissimo. Non sempre, perché ci sono settimane intere in cui rimane a studiare quello che vede nel microscopio senza dire una parola, ma quando inizia sembra non smettere più. Da solo, ovviamente perché John non è lì per lui ma poco importa perché è come se gli parlasse. Snocciola dati. Riporta conclusioni. Si lamenta dell’inutilità dei compiti della scuola, questo generalmente al telefono con il fratello che sembra essere l’unico a chiamarlo, e dell’impossibilità di comprare del tritolo al supermercato e John pensa di rubarlo per lui, pensa di poter diventare il braccio (invisibile) di quel cervello che lo affascina tanto.

 

 

 

Sherlock si presenta in laboratorio due giorni alla settimana, come minimo, per anni e lui e John crescono insieme. Sherlock passa da essere un ragazzino troppo magro e troppo alto, e con troppi capelli ricci, ad essere un uomo. Passa da essere un ragazzino con il colletto della divisa sempre disordinato ad essere un giovane uomo elegante, con il lungo cappotto e con la voce profonda (John si chiede che suono avrebbe il suo nome pronunciato da quella voce ma non lo scopre mai). Crescendo inizia a non presentarsi più a giorni fissi nell’edificio e passa anche intere settimane senza farsi vedere ma torna sempre ed è l’unica certezza nella vita di John. Non lo segue mai fuori dall’edificio, nemmeno quando sarebbe tentato di farlo perché pensa che non sia giusto spiarlo, perché pensa che non sia quello che fanno gli amici normali. Non lo segue nemmeno quando durante un esperimento Sherlock si rovina la camicia che indossa e mentre si cambia sulle sue braccia John può scorgere il segno di diverse punture di siringa. Non lo segue nemmeno in quel momento anche se l’unica cosa che vorrebbe sarebbe che il loro rapporto fosse reale, che lui fosse reale. L’unica cosa che vorrebbe in quel momento sarebbe poterlo seguire ovunque e strappargli la siringa di mano e controllare nel cassetto dei suoi calzini per buttargli via tutto quello che nasconde e impedirgli di buttare via se stesso. Perché John è stato buttato via diverse volte nella vita e alla fine va anche bene così (perché lui non è niente, non è nessuno, non è speciale. È solo troppo testardo per scomparire davvero) ma Sherlock è geniale e scopre le cose e vede tutto, ed è intelligente e affascinante e ogni tanto arriva in laboratorio con pile di enigmi e li risolve e anche se non dovrebbe avere senso improvvisamente tutto ce l’ha e non può permettersi di buttarsi via. Non lo segue nemmeno in quel momento, rimane immobile a guardarlo rivestirsi e sedersi sulla seggiolina  davanti al microscopio e poi lo abbraccia da dietro. È il primo contatto della sua vita e anche se sa benissimo che non è reale per un attimo gli sembra che Sherlock s’irrigidisca sotto la sua presa per poi rilassarsi. È il primo ed unico contatto della sua vita e non importa se non è vero, non importa se è tutto falsato, non importa nemmeno del motivo che l’ha spinto a superare tutte le barriere che si è costruito in quel contatto è racchiuso tutto il suo mondo. Sherlock continua a girare le rotelle del microscopio e a non vederlo e non sentirlo ma in quel momento a lui va bene così, va davvero bene così. Va bene così e non è abbastanza. In quel momento, in quel contatto, c’è tutto il suo mondo, c’è tutto quello che ha sempre voluto e tutto quello che gli è sempre mancato.

Quella sera nella penombra della sua stanza John inizia a scrivere le avventure del geniale Sherlock Holmes e del suo fido assistente John Watson. Quella sera John inizia a studiare i libri di medicina che ha sempre ignorato e le cartelle che lo riguardano di cui ha sempre avuto paura. “Oggi” scrive sul suo quaderno, “ a ventisei anni mi sono sentito un essere umano.” Quella sera tutto cambia, di nuovo.

Nessuno ha mai visto John Watson, ma quella sera dopo il primo abbraccio della sua vita John decide che non va più bene così.

 

 

 

John è in gamba. Se avesse avuto una vita normale sarebbe sicuramente diventato medico perché la medicina la capisce, la medicina funziona per lui. Perché gli piace studiare, gli piace rimanere nella biblioteca universitaria a sfogliare i testi. Gli piace farsi chiudere dentro alla biblioteca e rimanerci tutta la notte a perdersi sulle ossa delle persone, sulle malattie, a capire cosa rende le persone diverse le une dalle altre, a capire cosa rende un me proprio quel me particolare. Non sa come trattare con le persone, non ha mai parlato con nessuno davvero se non nella sua testa, ma pensa che ne sarebbe capace perché le ha sempre guardate all’esterno e l’empatia è un sentimento che gli riesce davvero facile provare. Sarebbe stato un medico se avesse avuto la possibilità di avere una vita normale e probabilmente uno di quelli bravi che rimangono un paio d’ore di più al lavoro quando c’è una brutta influenza. Anche se è in gamba e anche se sarebbe un bravo medico John ci mette dieci anni a riuscire a perfezionare una farmaco, se così si potrebbe chiamare, che mira a farlo tornare normale, a farlo tornare visibile. Ci sono un sacco di calcoli, molti ha imparato a farli da Sherlock, li ha imparati osservando Sherlock, e c’è tanta osservazione, ci sono tante notti passate a vedere persone morire al pronto soccorso e a memorizzare la reazione di farmaci per testarle sul suo corpo. Dieci anni. Dieci anni a studiare un farmaco, a guardare Sherlock crescere senza di lui, a guardarlo diventare un consulente investigativo (così c’è scritto sul suo sito che John impara a memoria), e ad aspettare di poter crescere con lui. Dieci anni passati a cercare di diventare un uomo vero. Dieci anni ad aspettare.

Dieci anni passati ad ascoltare Sherlock suonare il violino, ma chi porterebbe in un laboratorio di chimica un violino?, e a immaginarsi tutte le avventure da vivere insieme. Dieci anni passati tra provette che scoppiano e speranze che sembrano sempre più lontane (ma che non lo sono mai davvero, mai quando Sherlock è nella sua stessa stanza). Dieci anni passati tra prelievi del sangue e sogni ad occhi aperti. Dieci anni passati tra microscopi e fantasie. Dieci anni di fallimenti, di piccole vittorie. Dieci anni ad aspettare.

Ma dieci anni ad aspettare cosa? John è in gamba, John non è uno stupido e ci impiega pochissimi mesi a capire che il suo corpo non è preparato ad una vita normale, che non può sopportarla. Ci mette pochi mesi a capire che se non è morto quel giorno d’agosto è solamente perché è diventato un esperimento, è solo perché per lui è stata scelta una vita diversa, a tratti atroce sicuramente ma anche l’unica che il suo corpo è in grado di sopportare. Il corpo di John non è fatto per una vita normale, non può sopportarla ed ogni soluzione a cui riesce a pensare è solo temporanea, questione di minuti o forse di ore, nulla di più. John passa dieci anni della sua vita ad aspettare di morire per poter vivere prima. E se John fosse una persona diversa da quel bambino che appena nato si era aggrappato con così tanta forza alla vita probabilmente farebbe scelte diverse. Solo che quando si tratta di Sherlock non è mai una scelta. Lo è sempre, eppure non lo è mai, perché non ci sono davvero alternative.

 

 

 

Il primo giorno in cui John si guarda allo specchio non prova niente. Guarda un ragazzo biondo, dai capelli troppo lunghi e che avrebbero sicuramente bisogno di un taglio migliore di quello che è sempre stato costretto a improvvisare quasi ad occhi chiusi, con gli occhi grandi e il naso buffo e non prova niente. Dovrebbe essere emozionato, dovrebbe battergli il cuore perché è la prima volta che diventa reale, perché è la prima volta in cui può pensare a se stesso come un essere umano e invece non sente niente. Vede un ragazzo, vede un giovane uomo allo specchio e non sente niente, ed è come se vedesse un estraneo, ed è come se non riuscisse ad andare oltre a un corpo, oltre a dei capelli biondi e degli occhi blu. Dovrebbe essere emozionato, dovrebbe battergli il cuore così tanto da scoppiare ma non sente niente. John si guarda allo specchio e l’unica cosa a cui riesce a pensare è “Questo è il primo passo” e poi ancora “Per Sherlock” e in quel momento, solo in quel momento il suo cuore perde un battito. Il primo giorno in cui si guarda allo specchio John non diventa reale perché, anche se non lo sa, lui è già diventato reale anni prima, quando un ragazzo dai riccioli scuri l’ha quasi sfiorato in un corridoio. Il resto, tutto il resto, sono solo piccoli passi avanti. Dopo pochi istanti l’immagine allo specchio svanisce, il farmaco evidentemente non si è ancora stabilizzato, e a John rimangono solo tutte le sue fantasie.

 

 

 

Il farmaco, la cura? La pozione? John non sa davvero come chiamare qualcosa che è destinato a farlo vivere e morire insieme, non funziona subito a dovere. Durante i primi esperimenti, una volta perfezionata una formula di base, il suo effetto dura solo pochi istanti. Pochi istanti che lo lasciano poi riverso sul pavimento in preda alla tachicardia e a dolori così forti da fargli desiderare di essere morto (non lo desidera mai, non può. Non adesso che è così vicino ad aver vissuto). Il suo corpo inizia ad abituarsi ad essere vivo, inizia a cambiare forma e questo è davvero poco divertente.

I secondi diventano minuti e quando lo diventano John prova ad essere coraggioso. Lo è sempre stato, solo non ha mai avuto occasione di mettersi alla prova. John prova ad essere coraggioso e quando il farmaco inizia a renderlo visibile per qualcosa di più di una manciata di secondi John prova l’ebbrezza di camminare per i corridoi dell’ospedale come una persona, e non come il fantasma di un essere umano. Nessuno fa caso a lui, le persone sono troppo prese dai loro impegni, sono tutte impegnate a correre, a scrivere su uno smart phone, a pensare alla fidanzata che li ha traditi con il loro migliore amico per accorgersi di un uomo assolutamente normale che cammina vicino a loro, per accorgersi di quanto quest’evento possa essere speciale. Non è grave. John non è ferito dal fatto che nessuno lo noti, che nessuno provi qualcosa sfiorandolo con lo sguardo, che nessuno lo veda quasi. Nessuno l’ha mai visto, nessuno ha mai visto John Watson. Perché diventare visibile dovrebbe cambiare le cose?

Il farmaco inizia a renderlo visibile per un paio di minuti alla volta, prima di ridurlo a un ammasso di brividi e tremori, e John pensa che non ci sia modo migliore d’impiegare quei minuti a camminare vicino a Sherlock. Passa le notti sveglio a ingurgitare caffè per regalarsi solo una decina di secondi d’autonomia in più e ogni volta passa quei secondi a seguire Sherlock nel percorso fino alla macchinetta del caffè. Lo prende sempre, nero con due zollette di zucchero e contemporaneamente digita qualcosa al cellulare (e John si stupisce di come sia difficile trattenersi dall’appoggiarsi a lui per leggere quello che sta scrivendo com’è stato solito fare per dieci anni della sua vita) e non parla con nessuno, non parla con lui ma solo il fatto di essergli vicino, di essergli vicino come una persona vera sembra valere tutte le controindicazioni, tutto il dolore. Tutto.

John accompagna Sherlock alla macchinetta del caffè camminando un paio di passi dietro a lui, è facile farlo perché è più basso ed è come se anche le sue gambe fossero programmate per seguire Sherlock senza fatica, e poi passa la notte a ripensare a quei momenti. Chiude gli occhi nella sua stanza, quando i dolori dati dalle controindicazioni del farmaco iniziano ad affievolirsi e quando la stanchezza si fa così forte da impedirgli di poter lavorare ancora, e ripensa a quei momenti, li rivive centinaia di volte nella sua mente come se fossero un film, cercando di modificarne qualche particolare per renderli più vividi, cercando d’immaginarli all’interno di una routine in cui Sherlock possa notarlo. Chiude gli occhi mentre il sonno prende il sopravvento, e mentre con una mano inizia ad accarezzarsi, e immagina una realtà in cui può proporre a Sherlock di bere un caffè insieme e sentirsi rispondere “Nero, due zollette”. Chiude gli occhi e immagina una realtà fatta di casi da cui occuparsi, di cellulari che si passano e dita che si sfiorano (e solo il pensare a quel contatto è qualcosa di quasi intossicante, di così eccitante da star male), di notti insonni a sfogliare libri e poi di mattine a scrivere storie di un detective e del suo partner. Chiude gli occhi e immagina una realtà fatta di litigate per le teste nel frigorifero, fatta di troppe tazze di tè lasciate in giro, fatta di corse per la città in taxi e di spalle che si toccano quando il sonno inizia a sopraggiungere. Chiude gli occhi e immagina una realtà fatta di film di 007 visti sul divano con le lunghe gambe di Sherlock che s’incastrano con le sue, di sonate di Bach alle tre del mattino e delle mani di John intente a ricucire il sopracciglio del consulente dopo l’ennesima discussione con un sospetto non troppo convinto di essere colpevole. Chiude gli occhi e immagina Londra, immagina la neve fuori da una finestra e casa, e un mondo in cui la gente lo può vedere, in cui Sherlock lo può vedere. Casa. Sherlock. Calore. Si addormenta ripensando al percorso con Sherlock fino alla macchinetta del caffè e sentendosi al caldo. La mattina dopo riesce a prolungare l’effetto del farmaco di altri trenta secondi.

 

 

 

Si dice che la frase che capita spesso di vedere sopra cartoline di bellissime località balneari “Oggi è il primo giorno del resto della tua vita” sia valida per tutti i giorni tranne che per uno: il giorno in cui muori. A quanto pare non è proprio così, non per tutte le persone. Non per John Watson.Il primo giorno in cui John inizia il resto della sua vita, il giorno in cui tutte le cose hanno finalmente un senso, il giorno per cui ha aspettato dieci anni è anche l’ultimo giorno della sua vita.

 

 

Lo sa ancora prima di iniettarselo, lo sa ancora prima di percepirne gli effetti collaterali fin dentro le ossa che ormai il farmaco è stabile, che ormai in quell’ultima puntura c’è la possibilità di diventare visibile. Si rigira tra le mani la siringa e il suo pensiero va a al personaggio di una fiaba che da bambino nessuno gli ha mai letto, a Pinocchio quando chiede alla fata turchina la possibilità di “diventare un bambino vero” e in quel momento non si sente poi così diverso dal burattino, perché anche lui è semplicemente un bambino (cresciuto forse) che aspetta di diventare un bambino vero. E di morire. Probabilmente Pinocchio questo non l’aveva messo in conto, pensa mentre si lascia sfuggire una risata amara. Probabilmente se avesse passato trenta e passa anni non visto avrebbe pensato anche lui che ne valesse la pena. Probabilmente se avesse conosciuto Sherlock, che è più pericoloso di tutte la balene e affascinante di tutti i paesi dei balocchi, avrebbe pensato anche lui che ne valesse la pena.

S’inietta il farmaco e inizia a camminare piano verso la stanza della macchinetta del caffè. Non sa quanto tempo gli resta, non sa cosa farne di quel tempo che gli resta. Non sa nemmeno cosa dire a Sherlock, non sa nemmeno se dirgli qualcosa, sente solo di aver bisogno di averne l’opportunità almeno per una volta nella vita.

Sherlock non è nella stanza della macchinetta del caffè e il cuore di John perde un colpo. È ridicolo ma tra tutte le cose a cui aveva pensato, tutte le cose che aveva pensato che potessero andare storte, quella che Sherlock non fosse presente non gli era mai passata per la mente. Ridicolo. Quello è il primo e l’ultimo giorno della sua vita e l’unica persona che l’ha resa degna d’essere vissuta, il suo miglior amico (immaginario ma pur sempre amico), non c’è.

Si avvia verso la stanza del laboratorio che erano soliti condividere, potrebbe andare dovunque, potrebbe cercare una ragazza e chiederle di uscire, potrebbe ballare nudo in mezzo alla strada solo per il piacere di essere visto e l’unica cosa che vuole è andare nel posto che considera più simile alla sua idea di casa. Sherlock è chinato sul microscopio e quando arriva non alza nemmeno lo sguardo. Va bene così. Va bene così. Quel laboratorio è pubblico, non c’è nulla di strano se un uomo qualunque ci entra e se Sherlock non lo nota perso nei suoi pensieri. Va bene così. Va bene anche solo essere lì insieme.

“Pensavo non arrivassi più. Non c’eri alla macchinetta del caffè.”

Non c’è nessun altro nella sua stanza ma non è davvero possibile che Sherlock stia parlando con lui. Nessuno ha mai parlato con lui, non è davvero possibile. Nessuno l’ha mai nemmeno visto. Nessuno ha mai visto John Watson.

“Come scusi?”

“ Vai alla macchinetta del caffè tutti i pomeriggi alle 14.30. Oggi non c’eri. Pensavo non arrivassi più. Sei in ritardo e non stai al passo con la conversazione.” nella voce di Sherlock, quella voce baritonale che lui si è così tanto abituato a riconoscere negli anni che hanno trascorso insieme, non c’è esitazione come se non stesse cercando di dedurlo. Come se non ne avesse bisogno.

“ Mi hai visto?” Non vorrebbe dirlo. Non vorrebbe chiederglielo e sentirsi una ragazzina pubescente dalla voce stridula. Non vorrebbe che le sue prime parole per Sherlock fossero quelle di una tredicenne con la cotta, ma la verità è che lui è ancora quella tredicenne con la cotta, che non è mai riuscito a smettere di esserlo in sua presenza.

“ Sei in ritardo. Caffè alle 14.30 e poi in laboratorio alle 14.45. Sei in ritardo.”

Lo sguardo di Sherlock si posa su di lui, solo per qualche istante, come se non avesse bisogno di più tempo, come se gli servisse solo la conferma di qualcosa che già conosce. “ Ti ho sempre visto, John.”

Il suo cuore batte così forte che pensa che potrebbe morire proprio in quel momento. Forse sta davvero succedendo.

Il suo cuore batte così forte che non sente quasi il telefono che squilla e Sherlock che risponde. Il suo amico immaginario si volta verso di lui e copre il telefono con la mano.

“Devo rispondere, torno subito. Un caso da sei, dovrei risolvere tutto al telefono.” Lo dice come se lui sapesse di cosa si tratta (lui sa di cosa si tratta), come se questa fosse solo l’ennesima conversazione tra loro (lo è, solo che non lo sa).

Prima di chiudersi la porta alle spalle Sherlock si gira ancora verso di lui “Stavo pensando a Baker Street. Una casa modesta, due camere da letto. La padrona di casa mi farà un prezzo di favore. Dovrebbe andare bene per noi. Ti ho sempre visto, John.”

La porta si chiude.

Nessuno ha mai visto John Watson. Nessuno ha mai visto John Watson prima di Sherlock Holmes.

 

 

 

 

La prima volta che Sherlock Holmes incontra John Watson, anche se lui ancora non lo sa, è il giorno dopo il suo compleanno. Sherlock sgattaiola in un laboratorio di chimica e il suo mondo, e quello di John cambiano. Mentre corre lontano dalla sua insegnante, e verso la conoscenza o almeno una versione non troppo noiosa della conoscenza che in quel momento coincide con chimica ed esperimenti, percepisce un leggero calore contro la sua spalla. È una piccola cosa a confronto di tutto quello che lo aspetta nel laboratorio, tutte le cose nuove e potenzialmente pericolose e quindi interessanti che lo aspettano, ma il suo gigantesco e complicato cervello non manca di registrarlo perché non è per niente normale che il vuoto trasmetta calore e a lui tutte le cose strane e non normali piacciono.

La prima volta che Sherlock Holmes percepisce John Watson è un mercoledì pomeriggio quando l’ampolla con una sostanza tossica che ha colpito distrattamente con il gomito non cade e non ha senso. Il suo cervello anche questa volta non riesce a fare a meno di notarlo. La sera nella sua stanza cerca di calcolare la forza con cui ha colpito l’ampolla e la pendenza del banco su cui era disposta. Rompe ventisette ampolle e mai nemmeno una volta una di loro non cade.

La prima volta che Sherlock Holmes si accorge di John Watson è quando un ragazzetto più grande decide di prenderlo di mira. Sherlock non è generalmente uno che scappa ma a sedici anni non è nemmeno così piacevole finire con la testa nel water fuori da un laboratorio di chimica, quindi ogni tanto scappare va bene, scappare funziona. Funziona meno però quando, anche se sei un genio e il più intelligente della scuola, ti dimentichi la chiave del laboratorio e non sai come entrare e il ragazzetto più grande è a pochi passi da te e la porta è irrimediabilmente chiusa. Irrimediabilmente chiusa fino a quando smette di esserla e mentre scuote la maniglia qualcosa nella toppa fa rumore e gli permette d’aprirla. Non c’è una sola possibilità che una serratura del genere abbia ceduto semplicemente per le sue pressioni, nemmeno una possibilità.

“Una volta eliminato l’impossibile, quello che resta per quanto improbabile deve essere la verità ” si dice tra se e se quella notte quando non riesce a dormire e si rigira tra le mani la chiave del laboratorio. Il giorno dopo decide di credere all’esistenza di qualcosa, proprio lui che era convinto che non avrebbe mai creduto in niente di non provato scientificamente, proprio lui che ha passato i primi sedici anni della sua vita a rifiutare qualsiasi cosa di così sentimentale. Il giorno dopo decide di credere all’esistenza di un amico invisibile. Da quel giorno non salta più una visita al laboratorio e inizia a parlare dei suoi esperimenti ad alta voce. È ridicolo ed infantile e stupido e lui odia sentirsi stupido ma non può farne a meno. A sedici anni Sherlock Holmes sceglie di credere in qualcuno prima che in se stesso.

La prima volta che Sherlock Holmes sente davvero John Watson ha ventitre anni. Sono passati sette anni da quando ha accettato di scendere a compromessi con tutto quello in cui ha sempre creduto e iniziare a convivere con una presenza nella sua vita, con una sorta di amico immaginario. Non è stato semplice e non è nemmeno sempre stato divertente. Si è sentito stupido, ha pensato d’essere impazzito e poi è sceso a compromessi con l’avere nella sua vita una presenza a malapena percepibile. Una presenza che apre le porte dei laboratori, che sposta qualche tazza e che rimane ad ascoltarlo quando sciorina l’ennesima conclusione che ha dedotto. Sono passati sette in cui si è scontrato con tutto quello che gli ha detto di non credere, con tutto quello che lui è sempre stato. Sette anni in cui è cresciuto, in cui è cresciuto insieme a qualcuno che non dovrebbe neanche esistere, che non dovrebbe nemmeno percepire, che nella realtà non c’è e tutto questo non ha così senso da far andare in corto circuito anche il suo gigantesco cervello. Sette anni in cui l’unica cosa che l’ha aiutato a smettere di pensare, a smettere di rimuginare, in un momento in cui i casi sono solamente teorie perché nessuno affiderebbe un caso di omicidio a un ragazzino di vent’anni, è stata la cocaina.

La prima volta in cui Sherlock Holmes sente davvero John Watson ha ventidue anni, i capelli troppo lunghi, un leggero accenno di barba sul volto (che lo fa sembrare fin troppo simile a tutti quei sospettati su cui s’interroga come dice sempre suo fratello), e il segno di quattro iniezioni fresche sulle braccia. È stanco, è stanco di pensare, è stanco di essere annoiato e contemporaneamente di non riuscire a smettere di scervellarsi su qualcosa che non ha senso. È stanco anche di essere così intelligente da non potersi limitare a credere in qualcosa che non può provare o invece scapparne. È stanco e l’unica cosa che sembra aiutarlo è la cocaina. La cocaina e un laboratorio in cui continua a tornare come a cercare la conferma di qualcosa (potrebbe chiederla quella cosa. Potrebbe esigerla quella conferma ma a fare una domanda al vuoto si sentirebbe troppo umiliato).

Quel giorno la sua conferma arriva senza il bisogno di chiederla ad alta voce, perché lui non lo sa ancora ma è vicino all’unica persona a cui può chiedere le cose senza dirle davvero. È vicino all’unica persona capace di ascoltarlo anche quando non parla ad alta voce. La sua conferma arriva con un contatto così forte e profondo che non ammette dubbi, che non ammette incertezza. Arriva con due mani, perché quella che sente è sicuramente la pressione di due mani, che lo sfiorano da prima dubbiose e poi con maggiore forza mentre lui si rilassa in quel contatto. Le dita sfiorano i segni ancora freschi delle punture come se volessero guarirle, come se volessero cancellarli e Sherlock si trova a pensare che quel tocco così sicuro e contemporaneamente delicato potrebbe certamente appartenere a un medico. Le braccia lo cingono e il suo cervello smette di pensare, smette di fare domande e si permette unicamente di sentire. Sentire e basta. Caldo. Sicurezza. Cura. Tutto quello che non ha mai voluto nella vita è in un contatto con qualcuno che non esiste eppure esiste. Con qualcuno che non c’è ed eppure c’è. Con qualcuno che non dovrebbe esserci eppure esiste.

Quando torna a casa quel giorno getta le ultime dosi di cocaina nel gabinetto e inizia a cercare informazioni sugli esperimenti sui minori che si sono svolti a Londra. Due mesi dopo, due mesi in cui non si presenta in laboratorio e accetta anche a malincuore l’aiuto del fratello, torna in quella che ormai conosce come un’ex sede di esperimenti del governo inglese con in mano il violino e nella testa un nome e qualche dato.

Passa i dieci anni successivi a suonare il violino all’interno di un edificio, a parlare ed immaginarsi qualcuno che non dovrebbe esserci eppure è e a perfezionare una cura (non mortale) per l’invisibilità. Non che gli serva davvero, non che serva davvero a Sherlock Holmes. Sherlock Holmes ha sempre visto John Watson, ha solo aspettato dieci anni per poterglielo dire.

 

 

John Watson muore il giorno del primo giorno della sua vita. Mentre Sherlock è intento a risolvere un caso da sei, il primo dei loro casi insieme, il suo cuore inizia a battere all’impazzata e il suo corpo viene scosso dai tremiti ma John non percepisce nient’altro del calore, della sicurezza, della genuina felicità. È stato visto. È vissuto. Non potrebbe essere più felice nemmeno se avesse tutto il tempo del mondo.

 

Nessuno ha mai visto John Watson. Nessuno ha mai visto John Watson fino a Sherlock Holmes.

 

 

 


 

 

Solito pippone e blabla: L’idea di questa storia viene da una puntata di Fringe, quarta stagione dalla regia mi dicono la 4x08 (Grazie!), che ho visto nel dormiveglia e questo spiega perché mi è rimasta l’emozione della storia in testa. Non sono stata nemmeno a provarci a spiegare tutta la parte sovrannaturale, come s’è capito XD, perché non è davvero la mia tazza di tè, però ho cercato di rendere un po’ l’atmosfera più malinconico-fiabesca (con il lieto fine perché per me c’è un lieto fine gigantesco) e insomma spero non sia uscita fuori proprio una chiavica pazzesca. Ringraziamenti vari per aver letto, tazze di tè delle carovane e cake mele e cannella per tutti.

Il titolo viene da Creep dei Radiohead, giusto per continuare sulle cose allegre. (ehi ho scritto qualcosa che non è fluff, momento epico)

 

Una piccola nota:

 John non ha mai avuto veri contatti fisici con nessuno e quelli che ha avuto sono stati con persone che nemmeno lo consideravano (da piccolo mentre venivano fatti esperimenti su di lui) quindi pensa che come le persone non possano vederlo così non possano nemmeno sentirlo. Ovviamente la sua percezione è totalmente sballata ma nel momento in cui tocca Sherlock è convinto che sia un contatto a senso unico.

 

  
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