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Autore: Patta97    29/10/2013    5 recensioni
La vita normale aveva sempre annoiato John Watson.
Un giovane studente di medicina, nel 1898, non poteva comunque avere così tante ambizioni o avventure nella propria vita: lo scopo che tutti si aspettavano John avesse era quello di lavorare in uno studio in proprio per poi tornare a casa dalla moglie e trovare una zuppa calda e dei marmocchi urlanti.
Ma per lui non era così. Non proprio.
Perché John era speciale o, se proprio vogliamo usare un altro termine, John era strano.

Seconda storia della serie "Di favole e racconti", ispirata dal film di Burton, dal cartone della Disney e naturalmente dal libro di Carroll.
Note: AU, Alice!John, Hatter!Sherlock
Genere: Fantasy, Fluff, Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Di favole e racconti'
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Ciao! 
Ehm, sì... Sarei dovuta tornare col secondo capitolo della long, ma ho trovato una fan art su Tumblr e non ho saputo resistere.
Non me la sono sentita di mettere "cross-over" fra le note perché, insomma, i personaggi in fondo li cambio e la trama non è spiccicata a nient'altro, quindi... Come già detto nella presentazione, questa storia si ispira ed usa personaggi di: a) Alice's Adventures in Wonderland di Lewis Carroll - b) Alice in Wonderland di Tim Burton - c) Alice nel Paese delle Meraviglie della Disney e d) Sherlock di Mofftiss/BBC. Ci saranno un sacco di citazioni da tutte queste bellezze nel testo della storia, quindi non ho messo note finali per ogni cosa: chi vuole intuire intuisca!
Sì, in pratica non posseggo nulla, se non una gran voglia di rimestare tutto questo e un buon grado di pazzia, perché come sappiamo "tutti i migliori sono matti!".
Ho creato questa serie (con come prima storia "Tu puoi vedermi") per esperimento. Se questa storiella andrà bene e vi piacerà, scriverò una JackSkeleton!Sherlock - Sally!John, sempre perché non ho nulla di meglio da fare.
Eclisso e vado a ripassare i miei appunti sull'Illuminismo, un bacio sempre più grande,
Chiara





 
John in Wonderland





La vita normale aveva sempre annoiato John Watson.
Un giovane studente di medicina, nel 1898, non poteva comunque avere così tante ambizioni o avventure nella propria vita: lo scopo che tutti si aspettavano John avesse – dai suoi genitori a sua sorella, dai suoi compagni di corso alle ragazze che lo guardavano ammiccanti – era quello di lavorare in uno studio in proprio per poi tornare a casa dalla moglie e trovare una zuppa calda e dei marmocchi urlanti.
Ma per lui non era così. Non proprio.
Perché John era speciale o, se proprio vogliamo usare un altro termine, John era strano.
Fin dalla sua più tenera età, infatti, faceva dei sogni che un rispettabile figlio di un altrettanto rispettabile borghese non avrebbe dovuto fare. Sogni popolati da fiori parlanti, animali estinti e re malvagi, sogni che lo facevano sentire vivo, che gli facevano provare emozioni perlopiù sconosciute ai ragazzi della sua età: deliziosa paura, eccitante adrenalina, incondizionata gioia, voglia di vivere.
Non ne aveva mai fatto parola con nessuno – come avrebbe potuto? da dove cominciare? lo avrebbero creduto pazzo! -, ma quei sogni facevano sentire il giovane John sempre più annoiato e deluso dalla vita reale, dalle strade lastricate, fumose e trafficate di Londra, dalle lezioni di anatomia, dalle serate “sigaro e brandy” con suo padre e i rispettivi colleghi, dagli incontri con la sua futura sposa Mary che sua madre si ostinava a organizzare. Non sognava quei luoghi da qualche tempo ormai e si era quasi abituato alla prospettiva di vivere una vita normale, monotona e triste.
Ed è qui, bambini, che inizia una delle più straordinarie fra le storie: in uno di quei pomeriggi uggiosi quando John, stretto nella carrozza scricchiolante di famiglia insieme alla madre e alla sorella, si dirigeva verso villa Morstan, poco fuori città.
Lo stesso pomeriggio in cui John entrò davvero nel Paese delle Meraviglie.
 
- John… John!
- Sì, madre?
- Levati dalla faccia quell’espressione sognante, siamo arrivati dai Morstan! Harriet, alza un po’ la gonna appena scesa, o ti si sporcherà l’orlo del vestito… John! Ti decidi a scendere da questa carrozza?!
John sospirò e uscì dallo stretto abitacolo non appena un paggio grassoccio gli aprì la portiera con un piccolo inchino. Seguì le figure ondeggianti e fasciate d’azzurro di sua madre e Harriet fino alle scalinate esterne della villa, dove li accolse Mrs. Morstan, ancora più bionda e simile a una meringa del solito.
- Alice cara! – cinguettò in direzione della madre di John. – E Harriet, che piacere! Mary sperava tanto venissi anche tu!
Somiglia tanto a una palla da cricket formato gigante. si ritrovò a pensare il ragazzo con un sorriso divertito.
- John! – lo scosse Alice Watson con un sussurro udibilissimo. – Bacia la mano a Mrs. Morstan!
Il giovane lasciò stare per un attimo i suoi sconvenienti pensieri e poggiò le labbra sul dorso della mano inguantata che la sua quasi suocera – come amava definirla sua madre – gli porgeva, improvvisando anche un piccolo ed educato inchino.
- Sempre così galante, questo giovanotto! Se solo fantasticasse di meno, Alice cara, sarebbe il partito perfetto…
- Lo so, Margaret cara, lo so – convenne Alice, addolorata.
- Mary ci sta aspettando dentro, sta servendo il tè.
- Che ragazza d’oro!
- Oh, sì! Se solo i nostri futuri nipoti avranno la sua bellezza e avranno i piedi per terra come lei… saranno perfetti!
Harriet sorrise di nascosto all’udire quei discorsi, lanciando un’occhiata divertita in direzione di Joh… dov’era John?
 
Vedete, il nostro amico non aveva avuto l’esatta intenzione di fuggire.
Ma mentre, ascoltando gli imbarazzanti discorsi di sua madre e Mrs. Morstan, si stava perdendo di nuovo nei suoi soliti pensieri – come sarebbe stato se, in quell’esatto istante, lui avesse indossato la gonna e le dame braghe e camicia? - , qualcosa aveva catturato la sua attenzione con la coda dell’occhio, poco lontano da dove si trovava lui, ai piedi dell’ampia scalinata: un movimento bianco e fulmineo.
E voi, piccoli in cerca di avventure, cosa avreste fatto? Sareste andati a vedere cosa si nascondeva fra le alte e labirintiche siepi della villa o sareste rimasti lì, con biglietto di sola andata per un tè delle cinque con troppo poco zucchero e decisamente troppo limone? Come immaginavo.
Infatti John si dileguò senza problemi, a passo svelto verso le siepi.
Un altro lampo bianco e… batuffoloso. Sempre più incuriosito, John iniziò a correre sulla ghiaia, senza preoccuparsi che poi avrebbe dovuto spiegare a sua madre i graffi sul cuoio dei suoi stivali tirati a lucido per l’occasione, senza preoccuparsi del fiatone e del sudore che iniziava a imperlargli la fronte. Anzi, angolo erboso dopo angolo erboso e vicolo cieco dopo vicolo cieco, il ragazzo iniziò a ridere, felice.
Dopo un po’, quello che ormai era certo fosse un coniglio in panciotto, uscì dal piccolo labirinto, dirigendosi verso il vecchio albero che stava sulla collinetta poco lontano dalla villa. La figura pelosa ed indaffarata del coniglio si fermò lì, voltandosi verso un affannato John. Il giovane si sorprese nel vedere che il bianco roditore aveva un muso quasi umano, rotondo e con un paio di occhiali quadrati sul naso rosa e in continuo movimento.
- È tardi, John! È tardi! – squittì, prima di gettarsi a capofitto in una larga fossa nascosta fra le radici contorte della pianta.
- Aspetta! – urlò John, accovacciandosi accanto al buco nel terreno, le mani a coppa attorno alla bocca per amplificare la propria voce. – Tardi per cosa? Come sai il mio nome?
Non ricevette risposta e, anzi, le sue parole gli ritornarono alle orecchie come un eco.
Non dovrà essere così profonda, questa tana. pensò, confuso, e vi infilò una mano, poi il braccio, poi la spalla… Era come se qualcosa lo stesse tirando, una forza invisibile dritta dal centro della terra. E, prima che se ne rendesse conto, John stava cadendo dentro la buca.
 
Che poi questa buca, buca non era; non era nemmeno una tana, in effetti, a meno che non vi abitasse il più gigante dei conigli o delle talpe: era una grotta, un tunnel infinto verso il basso, tutto illuminato da una luce giallastra e soffusa.
E non era solo: c’erano oggetti.
Un teschio ghignante, un microscopio, una strana faccia gialla e sorridente, un servizio da tè, un lenzuolo bianco, una pistola… Tutte queste cose galleggiavano nell’aria come se questa fosse un liquido trasparente, mentre John cadeva, cadeva, cadeva…
Non sapeva dove aggrapparsi, poverino, perché le pareti del tunnel sembravano sempre più lontane e gli oggetti si scostavano al suo passaggio. Anche se la discesa era piuttosto lenta, considerando che non aveva nulla per rallentarla, John era sicuro che si sarebbe schiantato o che – ancora peggio! – avrebbe continuato a cadere all’infinito.
Come sarebbe a dire “tutto qui?”?! Ovvio che non è “tutto qui”. Naturalmente la discesa finì e, con suo gran disappunto – e sollievo -, non lo portò al centro della terra, ma sul pavimento duro e freddo di una sala rotonda. Alle pareti vi erano decine di porte, tutti di diversa forma e misura.
John, non sapendo che altro fare, tentò di aprire ogni singola porta; ma, sia girando maniglie e pomelli, sia provando a forzare le serrature o addirittura a buttarle giù a calci, quelle non ne volevano sapere di aprirsi.
Finché non arrivò all’ultima porta, la più piccola e rifinita, dipinta di blu. Il ragazzo si accovacciò e sbirciò dal minuscolo buco della serratura. Quello che vide gli mozzò il fiato: un cielo terso, piante coloratissime e montagne infinite. Era il Paese in cui viaggiava nei suoi sogni.
Tutto ciò che aveva sempre – letteralmente – sognato era a solo a un piccolo passo da lui. Ma come arrivarci?
Si alzò in piedi e si voltò verso il centro della stanza, sospirando, le mani sui fianchi fasciati dal gilet azzurro e la fronte aggrottata.
E vide un tavolo di vetro che prima proprio non aveva notato – o non c’era semplicemente stato?. Sopra di questo, una minuscola chiave di ottone, blu come la porticina. John si sentì invadere dalla felicità, ma poi si rese conto che un problema persisteva: era comunque troppo grande per passare per quella porta.
Posò di nuovo lo sguardo sul tavolo e vi notò sopra due boccette di vetro, non più grandi del palmo della sua mano, con sopra attaccate delle etichette. Una diceva “Sceglimi”, l’altra “Scegli me”; dentro, due pillole perfettamente identiche.
Oh, ma certo, John. Adesso anche le etichette ti confondono. si disse il ragazzo con un sorriso sardonico. Afferrò la seconda boccetta, rigirandosela fra le mani.
Stava studiando per diventare medico, dannazione, e non era esattamente salutare mandare dritte nello stomaco cose sconosciute. A quanto ne sapeva, poteva benissimo essere un qualche tipo di veleno. Ma poi si disse che, tutto sommato, quello era tutto uno strano sogno: probabilmente si era assopito sulla carrozza mentre andava dai Morstan e molto presto sua madre lo avrebbe svegliato con un rimprovero. Quindi, si disse, perché no? Prese un bel respiro e diede solo un morso alla pillola insapore, così, per sicurezza.
Subito, tutto attorno a lui prese a diventare più grande, il soffitto più lontano, il tavolo irraggiungibile. Poi si rese conto che magari era lui ad essere rimpicciolito e che poteva finalmente passare per la porticina. Corse felice fino a questa, accorgendosi poi che la chiave blu era rimasta sul tavolo.
Oh, mi prendi in giro! pensò John dopo una sonora imprecazione. Si sedette con la schiena contro il legno dipinto e serrò gli occhi, tentando di svegliarsi da quello strano sogno, ma quando li riaprì si trovò davanti la prima boccetta, rimpicciolita alla sua misura.
Ingoiò l’altra pillola, stavolta tutta e senza tante cerimonie. E John stavolta crebbe crebbe crebbe… Ma non si limitò a diventare nuovamente della propria misura, no! Crebbe fino ad urtare il soffitto con la testa e fu costretto a curvarsi per non sfondarlo. Si batté una mano sulla fronte, sospirando affranto.
- E adesso? – si chiese. Aveva sussurrato, ma essendo così grande la sua voce rimbombò e rimbombò, come se avesse urlato a squarciagola.
- Prendi la chiave e mangia il resto della pillola Rimpicciolisci, John! – era una voce nuova, femminile e dolce, ma non sapeva da dove venisse. Quello che aveva detto, però, sembrava oltremodo sensato e quindi lo fece.
Subito John si ritrovò delle dimensioni giuste per passare attraverso la porticina, davanti a questa e con la chiave in mano.
- Forza, vieni! Non c’è tempo! – era di nuovo la voce affaticata del coniglio bianco e veniva dal di là del legno blu.
- Mike, non fargli fretta! Sarà tutto spaventato – di nuovo la voce dolce.
Incuriosito, John girò la chiave nella toppa e spinse la porta, facendo leva sulla maniglia dorata.
 
Il mondo colorato e bizzarro dei suoi sogni gli si materializzò finalmente davanti e lui esitò un po’ prima di posare un piede sull’erba alta e respirare l’aria dal profumo strano e saturo, buono ma con un non so che di chimico.
- John, finalmente! – un ghiro magrolino e dal pelo castano corto, col naso all’insù e grandi occhi marroni, gli zampettò incontro, abbracciandolo. Gli arrivava alla cintola ed era caldo. Il ragazzo si ritrovò a ricambiare la stretta come poté, quasi già la conoscesse.
Accorse anche il coniglio bianco in panciotto.
- Molly, lascialo respirare! Dobbiamo dirgli tutta la storia! Presto, portiamolo dagli altri.
Il ghiro si scostò, imbarazzato, e fece cenno a John di seguirla lungo il sentiero mal segnato fra l’erba profumata.
Il giovane, non sapendo che altro fare, seguì i due buffi animali parlanti, guardandosi però intorno.
Farfalle che erano fette di pane, alti fiori con monocoli che lo guardavano sospettosi, uccelli strani dalle penne così colorate da far male agli occhi, una tartaruga fin troppo grande che tartaruga non sembrava proprio e… era un grifone, quello?
Tutto era nuovo eppure familiare e John si ritrovò a ridere nuovamente.
Quante volte lo aveva già fatto, quel giorno? Forse più che in tutta la sua vita, e non erano ancora le sei!
- DonoPanca! AndePinco! – chiamò a gran voce Mike il coniglio, non appena misero piede in una radura circondata dai fiori guardinghi.
Due figure allampanate accorsero. Camminavano con lo stesso passo, avevano nomi simili e la stessa espressione asprigna in volto, quasi fossero gemelli. Ma una era di carnagione scura, con capelli ricci ma flosci, l’altro era pallido, quasi malaticcio e aveva capelli corti ed unti.
- Beh? – domandarono all’unisono, con la stessa tonalità incolore e velenosa.
- Abbiamo ritrovato John! – annunciò Molly, facendo ondeggiare la coda tutta contenta.
- Ah.
Mike scosse il muso paffuto e candido, sospirando. - Aspettate là mentre gli raccontiamo tutta la storia, poi dovrete accompagnarlo da Mrs. Hudson.
- Okay – di nuovo insieme, di nuovo annoiati. Rimasero sul bordo della radura, accanto ai fiori snob.
- Allora – iniziò Mike, sedendosi su un piccolo masso per far riposare le zampe. Molly si sedette accanto a lui, senza smettere di sorridere a John, il quale li imitò, accomodandosi sull’erba e cercando di ignorare le occhiate inquisitorie dei fiori, le quali gli ricordavano tanto quelle della madre. – Tu sei già stato qui, John. Per questo noi ti conosciamo e, magari, tutto ti sembra familiare, già visto.
- Io sono stato qui nei miei sogni, in un sogno come questo – chiarì John.
- Oh, questo non è un sogno – sorrise il coniglio. – E presto te ne renderai conto. Dicevo, tu sei già stato qui: l’ultima volta che sei venuto le cose andavano diversamente e tu ci hai aiutato a sconfiggere il Re Rosso e il suo Fante…
- Abbasso i maledetti! – urlò Molly, battagliera.
Mike fece una pausa e la guardò torvo. Il ghiro arrossì e si zittì.
- Dicevo: …ci aiutasti a sconfiggere il Re Rosso, Moriarty, e il suo Fante, Moran, quando presero il potere su tutto Sottomondo, tre anni fa, e poi a mettere sul trono di Sottomondo il Cavaliere Henry il Gentile. Eri solo un bambino, John. Avevi sei o sette anni, non di più, e posso capire che tu non lo ricordi.
- Tre anni fa avevo sette anni?! – chiese John, scettico. Non gli piaceva essere preso in giro, tantomeno da un coniglio vestito da paggio!
- No, certo che no! Qui il tempo passa diversamente che nel Mondo Sù. Per noi sono passati tre anni, per te molti di più. A volte invece accade il contrario, non so dirti con precisione.
- Quindi… io aiutai voi a sconfiggere un Re?!
- Sì. Tu e Sherlock, ovviamente.
A sentire quel nome, il cuore del povero John ebbe un sussulto di nostalgia. Cos’è un sussulto di nostalgia? Beh, è come quando ricordate un vecchio orsacchiotto di quando eravate piccolissimi, un amico di peluche che poi avete lasciato a prendere polvere su uno scaffale finché qualcuno non lo ha gettato via, senza dirvi nulla. Lo scordate, la vostra testolina lo dimentica. Ma, quando ci ripensate o lo sentite nominare così, senza preavviso, il vostro cuore si stringe e perde un battito, perché sapete che quel vecchio orsacchiotto nulla potrà mai rimpiazzarlo.
Se questo Sherlock era il peluche di John? In un certo senso… sì. Era suo amico, suo compagno di giochi ed avventure, insostituibile. John lo aveva scordato sì, ma quel posto vuoto, lì sullo scaffale, era rimasto tale e in quel momento cominciò a pesare come un macigno sul suo petto.
- Sherlock… - sussurrò il nome, sentendo come suonasse naturale alle sue orecchie e semplice da pronunciare alla sua lingua.
- Sì! – continuò Molly il ghiro, entusiasta. - Ci aiutaste a sconfiggere il Re e poi anche il Fante, sfuggito e in cerca di vendetta - abbasso i maledetti! Ma adesso Sherlock sta… male.
- Male? – John ripeté la parola, sinceramente preoccupato.
- Già. Prima lo chiamavano il Detective Matto: correva di qua e di là per Sottomondo, risolvendo crimini e gialli, senza aver paura di nulla! Ma questo quando c’eri tu. Quando te ne sei andato… Sherlock non parla con nessuno da allora.
- Non che prima fosse simpatico… – proseguì Mike, chiarendo. – Ma adesso se ne sta ritirato nella sua casupola nel Distretto 221, sparando con la sua pistola a salve a praticamente chiunque si avvicini. Non aiuta più nessuno e noi speravamo che… insomma, se tu mai fossi tornato…
John li interruppe. – Ma io nemmeno lo conosco!
- Ma sì, invece! Il Detective Matto e il suo Assistente. Siete inseparabili. Siete leggendari nelle vicende di Sottomondo – insistette Molly con uno squittio. – Lascia solo che DonoPanca e AndePinco ti portino da Mrs. Hudson. Lei ti dirà cosa fare.
I due roditori lo guardarono speranzosi, con i loro occhi tondi e lucidi da roditori, e John, sentendoli amici, capitolò e si arrese.
- D’accordo. Ma non vi prometto nulla, sia chiaro.
- Evviva! L’importante è che tu vada da lui! – saltellarono, felici. – Voi due portatelo da Mrs., presto!
I due quasi-gemelli alzarono lo sguardo cattivo dall’erba ed annuirono. – Seguici.
John li squadrò sospettoso, ma Molly gli sorrise incoraggiante e lui si decise a seguirli.
 
Il percorso che seguirono era ben illuminato e John si guardò attorno con occhi nuovi, tentando e a volte riuscendo a ricordare i suoi viaggi precedenti in quella Terra delle Meraviglie.
Finalmente arrivarono di fronte a un fungo dalle dimensioni di un cottage di campagna.
- Eccoti – dissero DonoPanca e AndePinco. – Noi ce ne andiamo. Fai del tuo meglio col Mostro.
Quando John si rese conto che per “Mostro” quei due intendevano Sherlock, questi erano già lontani e non poté prenderli a pugni, come avrebbe invece desiderato.
Prese un respiro e bussò a quella che sembrava la porta d’accesso al fungo.
- Avanti, John caro! – rispose una voce zuccherosa e materna.
Il ragazzo aprì la volta, smettendo di stupirsi come tutti sembrassero conoscerlo perfettamente, in quel posto. Appena entrato, si rese conto di non vedere a un palmo dal proprio naso a causa di una nuvola bianca che faceva da padrona in tutto l’ambiente. Annusò l’aria e, tossendo, la identificò come farina.
- Entra pure, caro! Sono in cucina! – disse ancora la voce.
Oh, ma certo, ora sì che ho capito. pensò John esasperato e si fece largo a tentoni fra i miliardi di oggetti che pullulavano la casa-fungo. Per fortuna riuscì a raggiungere la stanza e strabuzzò gli occhi alla vista di ciò che gli stava davanti.
Le pareti della cucina erano tappezzate da mensole con sopra biscotti, dolcetti, paste da tè, ciambelle… sembravano non finire mai. Ma la cosa più stupefacente era il bruco dalle dimensioni enormi che stava al centro della scena, grande due volte lui e con tutte le zampe indaffarate a rimestare ciotole o impastare impasti o misurare dosi e ingredienti… Gli faceva girare la testa.
L’animale si voltò verso di lui e, fortunatamente, John non si ritrovò di fronte un’abnorme faccia d’insetto. Al contrario, aveva un viso rugoso e dolce, vaporosi capelli e le labbra sottili tinte di rosso e stirate in un sorriso.
- John caro! – lo salutò entusiasta, immergendo due zampe in un impasto, sollevando l’ennesima nuvola di farina.
Il ragazzo sorrise fra un colpo di tosse e l’altro. – Salve, Mrs. Hudson…?
- Proprio io, caro, proprio io. Capisco di essere invecchiata dalla tua ultima visita: i miei uriti non sono più quelli di una volta… Ma tu sei qui per Sherlock, non è vero? Povero tesoro... Ogni tanto vado a fargli visita e portargli le scorte di tè. Io e Greg siamo gli unici che fa avvicinare, ormai. Se solo vede la coda di Mycroft, invece, bam!, gli spara con quella sua pistola. Gli manchi tanto.
John si sentì impotente. – Mi avevano detto che lei avrebbe saputo dirmi cosa fare.
Mrs. Hudson interruppe il suo rimestare, confusa. – Io? Tesoro, se solo avessi saputo cosa fare avrei posto rimedio io stessa alla situazione. Nemmeno il buon Re Henry saprebbe cosa fare!
- Ma… Molly e Mike…
- Ah, quei due roditori! Ti hanno detto loro di venire da me?
- Sì, mi hanno fatto accompagnare fin qui DonoPanca e AndePinco. Ed è stato il Coniglio ad attirarmi a Sottomondo.
Il bruco sospirò come una madre di fronte alle marachelle dei figli. – Non cambieranno mai. Sono davvero preoccupati per il loro amico.
- La prego, Mrs. Hudson. Mi dica cosa fare! Io non mi ricordo nemmeno di lui! Sto ricordando di tutto e tutti, man mano, ma di lui… Resta un’incognita. So solo che in mezzo a tutte le assurdità di questo posto, lui sembra essere per la mia mente ed il mio cuore un porto sicuro, di fermezza e realtà. Come un’asse di legno in mezzo al mare in tempesta per un naufrago o un pozzo d’acqua nel deserto… Sento un’infinta tristezza e dolcezza se penso a quel nome, ma non ricordo nemmeno come sia fatto il suo proprietario.
L’altra lo ascoltò in silenzio, con una lacrimuccia di commozione all’angolo di un occhio. – E allora vai, John caro! Vai dal tuo Sherlock, perché il resto verrà da sé!
- Come? – tutto, attorno a lui, cominciò a sbiadire: la cucina, la forma oblunga e massiccia di Mrs. Hudson, la casa fungo… finché non svanì in una nuvola di farina. - E se mi sparasse? Se non volesse parlarmi? Mrs. Hudson! La prego!
Ma il nostro amico stava urlando al vento, ormai. Sospirando si guardò attorno e si accorse che si era fatto buio. Inoltre, non ricordava che gli alberi di quella foresta fossero così contorti e raccapriccianti e del sentiero che aveva percorso per arrivare fin lì non c’era traccia.
Perfetto.
John deglutì a vuoto ed iniziò ad incamminarsi verso sinistra, lanciando occhiate sospettose agli alberi scuri e agli occhi che sembravano nascondersi dietro tronchi e rami spogli.
 
Passò un po’ prima che si rendesse conto di essere seguito.
Cominciò a correre a perdifiato, spaventato da qualunque creatura pericolosa si potesse nascondere in quella foresta buia e misteriosa. Voltando in continuazione la testa per capire cosa fosse l’essere invisibile alle sue calcagna, John non si accorse di una radice dispettosa ed inciampò, cadendo sulla terra dura. Contando indispettito l’ennesimo livido della giornata, volse il viso al cielo, vedendo la rassicurante e familiare forma della luna, che quella sera sembrava essere solo uno spicchio.
Uno spicchio di luna che si muoveva, a dirla tutta. E che si faceva sempre più vicino, più vicino e più vicino e il cuore di John prese a battere furioso e terrorizzato, finché quello spicchio non si trasformò in un… No, no! Non abbiate paura, bambini! Si trasformò in un sorriso. Un sorriso sornione di un gatto. Il sorriso sornione di un gatto sovrappeso, grande e dal pelo rosso.
- Dottor Watson – disse il gatto.
John alzò un sopracciglio, con ancora il fiatone, imbarazzato per essersi fatto spaventare da un dannato gatto fuori misura. – Non sono ancora un dottore. E come sa che studio medicina?
Il sorriso del felino si allargò ancora di più. – So che sta andando da mio fratello.
Il ragazzo si sentì perso per un attimo. – Sherlock è suo fratello? Anche lui è un…?
- Oh, no, non si preoccupi. Mio fratello ha fattezze umane, proprio come lei. Anche io lo ero, un tempo, ma ci sono cose che si devono sacrificare per… il bene superiore – gli porse la zampa, ritirando le unghie sottili ed affilate. – Mycroft Holmes, consigliere del Re.
John non strinse la zampa con la propria mano e si tenne sulle sue. – Mi piacerebbe chiacchierare, ma, come lei stesso ha capito, sto andando da Sherlock.
- Conosce la strada, dottore?
Il ragazzo sospirò, sconfitto. – No. Potrebbe indicarmela?
- Deve andare a destra, a sinistra, destra, destra, sinistra, destra e sinistra. O semplicemente camminare dritto.
- Non ha senso.
- No, infatti – ribatté il gatto, socchiudendo gli enormi occhi grigi. – Non ha il minimo senso. Faccia del suo meglio con mio fratello, dottore. Mi detesta ancora di più da quando lei se n’è andato e io sono un gatto permaloso. Vada semplicemente da lui e spero che alle mie orecchie giunga un lieto annuncio entro la fine della giornata. Buona fortuna.
E sparì, come solo i gatti sanno sparire.
 
John seguì alla ben’e meglio le indicazioni di Mycroft, ritrovandosi, in effetti, in una grande radura, dove troneggiava una casa storta e una lunghissima tavolata davanti a questa, con sopra tazze, tazzine, teiere e zuccheriere. Seduto solitario a uno degli sgabelli ai lati della tavola, c’era un leprotto, dal pelo arruffato e grigio, con un orecchio piegato e l’altro dritto. Indossava giacca e camicia e aveva una strana coda, più simile a quella di una volpe che a quella di una lepre.
Il ragazzo gli si avvicinò e tossicchiò per testimoniare la propria presenza.
Il leprotto lo guardò con muso stupito, svuotando l’ennesima tazzina.
- John! – lo abbracciò brevemente. Odorava di birra e il giovane ipotizzò, con un sorriso, che magari quello nelle tazze non era propriamente tè. – Sono contento di vederti! Sherlock è dentro.
- Come sta?
- Male, come sempre. Tu non tornavi da un pezzo. Guardati adesso: un uomo bello che fatto. L’ultima volta che sei venuto eri un ragazzino. E ora sei anche vestito per bene! – lanciò un’occhiata al gilet azzurro e alla camicia bianca di John, ormai sporchi di terra e decisamente non in ordine. – Sembri un uomo d’affari, uno di scienza. Venivi sempre in camicia da notte, qui. A Sherlock non piacerà questo cambiamento, proprio no.
- Non so cosa fare – ammise John nuovamente, sconsolato.
- Vai da lui. Tutto si sistemerà da sé.
- Me lo avete detto tutti! Ma non lo conosco nemmeno. Non mi ricordo di lui – esplose il ragazzo, frustrato. – Io stavo trascorrendo un normale pomeriggio. Ero a casa della mia fidanzata e mi si prospettava un tranquillo tè con mia suocera, mia madre e mia sorella. Adesso non so nemmeno se le rivedrò più! Per colpa vostra che mi avete trascinato qua, in questo stupido sogno in questo stupido posto. E adesso dovrei fare lo psicologo o il giocattolo di questo tizio pazzo e psicopatico che nemmeno conosco?!
No, certo che no. Ovviamente John non intendeva essere così brusco. È che era semplicemente spaventato. Voi bambini se avete paura piangete o stringete la mano a chi vi dà sicurezza. Noi adulti siamo invece complicati, la paura ci fa reagire in modi inaspettati.
A volte piangiamo sì, certo: noi piangiamo più volte di quanto vorremmo ammettere. Ma altre volte ci arrabbiamo, facciamo male agli altri, a noi stessi e non solo fisicamente. John non avrebbe mai fatto male neanche a una mosca, ma con quella sfuriata risultò spiacevole al leprotto e a tutti quelli che aveva incontrato fino a quel momento e perfino a se stesso.
E la cosa buffa è che il nostro amico non aveva paura della pistola di Sherlock o della sua fama di strambo, no. Lui aveva paura di non essere all’altezza delle aspettative dei suoi nuovi amici e degli standard del Detective Matto.
Ma, nel vedere il muso mortificato e offeso di Greg la lepre, John si diede coraggio.
Prese una teiera e si verso il contenuto direttamente nella gola: sì, era tè, ma decisamente corretto con parecchia birra.
Si pulì la bocca con la manica della camicia e si incamminò verso la casa a passo deciso, come un piccolo soldato.
Bussò alla porta scheggiata e forata da… buchi di proiettile?
Non ricevette risposta o alcun invito ad entrare, ma sentì un pizzicare di corde di violino provenire dall’interno. Non seppe perché, ma questo lo rassicurò ed entrò nella casa.
 
Dentro la casa B del Distretto 221 era buio.
Si intravedeva il contorno degli oggetti grazie alle fiamme verdi che provenivano da un camino addossato alla parete in fondo. Tutto aveva un profilo stranamente sinistro, aguzzo e John si ritrovò a temere per la propria incolumità.
- Mycroft diceva la verità, allora – una voce profonda spezzò il silenzio, facendo sobbalzare John. – Sei tornato a Sottomondo.
Poi John lo vide.
Sherlock Holmes sedeva su una poltrona quadrata. Anzi, “sedere” non è il verbo corretto da usare: il Detective era appollaiato e aveva fra le mani un violino che torturava con lunghe mani affusolate. Non lo vedeva in volto, ma distingueva dei riccioli scuri e un cappello strano, da caccia, coi copri orecchie.
- Sai cosa avrebbe risposto il mio piccolo John? Il bambino coi capelli biondi sempre in disordine e gli occhi blu pieni di sogni? È la frase che diceva ogni volta. Gliel’avevo detta io, la prima volta che se n’era andato, con la speranza che sarebbe tornato presto. E da allora lui l’aveva ripetuta ad ogni arrivederci. “Cosa si dice a un amico che si lascia, Sherlock?” mi diceva ridendo quel bambino, “Verrai se possibile…”
E fu a quel punto, bambini, che John ricordò e si sentì così stupido a non averlo fatto prima.
Ricordò ogni avventura con il suo amico che non cambiava mai, il suo amico col suo strambo cappello, il suo amico che diceva cose brillanti e strambe, il suo amico che non si curava di ciò che pensavano gli altri. Semplicemente Sherlock.
- “…Se non sarà possibile, verrai comunque” – completò il ragazzo, con qualcosa di traboccante nel petto. – Sono io. Sono John, sono tornato.
La figura delineata dal verde del camino poggiò a terra il violino ed avanzò verso di lui fino a trovarsi a pochi centimetri da John. – Lui non venne più.
- Sono tornato – ripeté l’altro, affranto.
- No. I tuoi occhi sono diversi dai suoi. I suoi risplendevano di gioia e speranza, i tuoi sono abituati alla noia, alla monotonia. Il mio John non c’è più – la sua voce era così calma, misurata, quasi distaccata; ma i suoi occhi tradivano dell’emozione.
- Ma sì che c’è. Sono cresciuto, ma sono io. Sono sempre io, dentro – senza pensare, John gli prese una mano e se la portò sul petto, in prossimità del cuore.
- Studi medicina – notò Sherlock. – E stavi andando a prendere un tè prima di venire qua.
John sorrise. – Tu e le tue deduzioni. Ti chiamano il Detective Matto.
- Ti sei scordato che in realtà…
- Tu sei un Consulente e che non sei matto, ma un sociopatico ad alta funzionalità – completò il ragazzo, prontamente.
- Sì. Forse c’è ancora un po’ di John, qui – sorrise sghembo Sherlock, stringendo quella mano più piccola della sua. – Resta. Con me – ma John gli lanciò un’occhiata strana e lui sbuffò. – Dovevo immaginarlo. Impegni normali ti attendono a Mondo Sù. Non ti è possibile restare.
E John sorrise, stringendolo in un abbraccio goffo, con le loro mani strette fra i loro cuori che battevano contenti. – Non mi è possibile. Ma lo farò comunque.
 
Passarono giorni a Sottomondo – nel nostro solo pochi minuti, strano come funzioni il tempo! – prima che Mrs. Watson si accorgesse della scomparsa del figlio e che Mrs. Morstan facesse cercare il proprio genero per tutto il cortile; i paggi e i maggiordomi, stranamente, non notarono la tana di coniglio fra le radici dell’albero sulla collina.
La dolce e intelligente Mary, decisamente non fatta per il matrimonio, fu preoccupata ma quasi contenta della scomparsa del fidanzato e iniziò a dare una mano al padre - socio, fra l’altro, di Mr. Watson - negli affari, fino a diventarne indispensabile consulente. Harry, la sorella di John, fu sempre una delle sue più care ed intime amiche. Lascio a voi le supposizioni.
Molly il ghiro e Mike il coniglio decisero di metter su famiglia e i loro figlioletti popolano Sottomondo combinando continuamente guai.
DonoPanca e AndePinco si aggirano ancora per la foresta, sinistri, allampanati e sempre più acidi e scontrosi.
Mrs. Hudson è diventata una delle farfalle dalle ali più grandi e i suoi biscotti sono rimasti i migliori di tutto Sottomondo. Per quanto riguarda Mycroft il gatto, è diventato piuttosto amico di Greg la lepre Yarder e stanno molto spesso insieme.
Sherlock ricominciò ad investigare, sia al servizio del Re sia a quello dei più piccoli abitanti, facendosi ripagare in tè e strambi cappelli.
E John? Beh, vedete, John fu speciale. Lui non fu come i suoi colleghi, le sue aspirazioni furono altre e i suoi sogni più alti e fantastici. Per qualche tempo si chiese se non fosse morto, cadendo in quella buca. Ma, ogni volta che correva assieme a Sherlock, che si abbracciavano e baciavano, ogni volta che guardava il cielo terso e annusava il profumo di quel Paese Meraviglioso, non perdeva mai quella voglia e quella sensazione: di essere vivo e di voler restare.
 
Sì, signorina. E stavolta è proprio “tutto qui”.
  
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