Holiday – dell'ostinazione di una speranza
Londra è ferita, e sanguina.
Asole nere squarciano i tetti, e i vetri, lì dove sono cadute le bombe, si sono fusi come stalattiti sui muri mozzati; l'insegna di un droghiere è sepolta tra i calcinacci, la vetrina sventrata dal fuoco. La guerra è appena finita, ma è quando l'eccitazione e la rabbia si estinguono che le ferite cominciano a fare davvero male: un posto vuoto a tavola, una risata che non riempirà più una casa, un completo appeso nell'armadio ancora impregnato dell'odore di chi l'ha portato. Piccole crepe che rallentano appena il passo, che pungono ogni volta che batte il sangue.
Arthur le vede negli occhi dei passanti, delle donne che sbattono i panni fuori dalle case, mentre passeggia lungo le strade; zoppica ancora un poco, come la sua gente, e le ossa gli tremano di febbre.
Ma mi riprenderò. Come si riprenderanno loro.
Alfred è al suo fianco, un braccio intrecciato al suo, per sostenerlo senza che se ne accorga. Da quando, dopo la vittoria, gli si è afflosciato tra le braccia, non l'ha perso di vista un istante.
E, per una volta, non è una sensazione così spiacevole.
Arthur si gira, il passo acciaccato e testardo, e sorride. Tra le finestre infrante, sulle porte mangiate dalle esplosioni, cento piccole sfere arancio, luci d'ambra che danzano dietro ghigni intagliati.
È autunno. È pace. È la sera di Halloween.
-Hai proprio un grande popolo, Art.- dice Alfred, stringendogli il gomito sopra il cappotto.
-Già- risponde, e non gli importa che veda i suoi occhi lucidi. -Hai proprio ragione.-