“Finché morte non vi separi”
di Lilly81
Che
l’universo sia infinito è una leggenda.
Credendolo
infinito, paradossalmente, l’uomo pone un limite alla propria conoscenza.
Non
è altro che un esercizio irrisolto di metafisica quello di immaginare cosa ci
sia al di là di un’ipotetica linea di demarcazione: pure un baratro potrebbe includere
a sua volta un altro universo.
Il
nulla, poi, è un concetto ancora più inafferrabile e spaventoso dell’infinito.
C’è
da perdere la testa al solo ragionarci intorno, ma chi è abituato a viaggiare
nel cosmo sa che non esistono baratri, né altri mondi, ma una comune barriera
oltre la quale le capsule spaziali si fermano.
Lì
finisce l’universo.
Quell’universo.
E
come esistono dei confini, esiste pure un centro di quell’universo.
Non
c’è mappa spaziale che non riconduca a quel punto mediano con precisione
millimetrica ed è lì che confluiscono, ogni giorno, migliaia di razze in cerca
di affari.
Il
pianeta Oiko è il cuore pulsante del cosmo, il centro dell’economia, una babele
di lingue.
Non
importa che non abbia stelle, che la calotta di ghiaccio impedisca pure ad un
filo di erba di crescere: c’è più ricchezza lì che su qualunque superficie
fertile perché nessuno nell’universo ha il fiuto per gli affari quanto gli
abitanti di Oiko.
Si
immagini un popolo che, senza materie prime, senza moneta, riesca ad
arricchirsi grazie al baratto. Possiede niente altro che ghiaccio, dall’origine
dei tempi, e quello incomincia a scambiare con le lande più assolate e deserte.
Da
allora giunge su quel suolo ogni genere di materia prima.
Non
solo: si barattano tessuti, cibi, le cose più introvabili, le invenzioni più
assurde.
E’
un continuo scambio di mani, articolato, preciso, non veloce come si
crederebbe.
Occorre
che il viandante presti attenzione, perché ogni oggetto che si dà ed ogni
oggetto che si riceve deve avere il medesimo prezzo, né più, né meno.
E’
una giungla di rigore e burocrazia, ma sopravvive grazie a questo.
Possono
trascorrere anche quindici ore di estenuanti trafile perché l’affare vada in
porto, ma gli abitanti non conoscono né il giorno né la notte, e chi atterrà lì
in cerca di qualcosa, anche la più introvabile, ci va perché ne ha bisogno.
Il
problema, semmai, è di chi atterra senza possedere nulla e crede di fare il
furbo.
In
tal caso, sarebbe stato meglio per costui non averci mai messo piede.
Ogni
cosa ha un prezzo: anche solo respirarne l’aria e calpestarne il terreno.
***
Nessuna
coda, nessuna armatura, non quella tradizionale degli scagnozzi di Freezer: un
saiyan, ancor prima che sollevi un dito e incenerisca un sistema solare, si
riconosce dalla faccia, dalla fierezza del portamento, dalla superbia del
sopracciglio.
Quello
che aveva davanti era, senza ombra di dubbio, un saiyan e neppure un esemplare
qualunque.
Erano
decenni che non ne vedeva uno sul suo territorio.
L’ultima
volta, un manipolo di scimmioni aveva barattato cinquecento orci di vino in
cambio di un satellite.
Non
si produceva vino in quelle remote terre senza sole e neppure sul pianeta
Vegeta, ma i saiyan erano abili mercanti, a loro volta, oltre che spietati
guerrieri.
Gli
era sempre piaciuto fare affari con i saiyan. Il vino che riceveva da loro era
sempre quello più pregiato e il suo palato adorava le cose raffinate.
“Cosa
porti, saiyan?”.
“Cosa
ti fa pensare che io sia un saiyan?”.
Il
sovrano si lisciò i baffi e quella movenza produsse uno strano bagliore.
Gli
abitanti di Oiko avevano una consistenza simile a quella degli spettri ed
emanavano pallidi luccichii ad ogni movenza.
Eppure,
nessuno usava il tatto più di loro. Attraversavano mura con la stessa facilità
con cui mercanteggiavano oro o profumi.
“Dalla
punta dei tuoi stivaletti”.
“Non
hanno nulla di strano”, continuò a tenere lo sguardo alto, seppure seccato.
“E’
arrogante. Persino la punta delle tue scarpe è arrogante e l’arroganza di un
saiyan puzza a miglia di distanza”.
Vegeta
sogghignò.
“Suppongo
che l’essere ricevuto dal sovrano in persona sia un vantaggio della mia stirpe”.
“No,
non ti sbagli”. Solo le razze più pericolose erano introdotte al suo cospetto, ricevendo
un trattamento riservato. “Hai evitato molte trafile per giungere fin qui. Non
te ne sei accorto?”.
“Sono
sei ore che attendo di essere ricevuto”, sottolineò caustico.
L’enorme
lampadario di cristallo oscillò, proprio sopra la sua testa, e un tintinnio
rimbombò tra le volte a crociera.
“Solo
sei ore? Cosa vuoi che sia? C’è gente che aspetta da due giorni, ma per loro
vale sempre la pena. Nessuno se ne va da qui senza essere ricompensato nella
giusta misura”.
“La
giusta misura…”, scandì il saiyan. “E’ un concetto che non conosco”.
Il
sovrano emise un balenio di colore azzurro mentre sorrideva compiaciuto.
“E’
su questo pianeta che si stabiliscono i pesi e le misure. Siamo noi che diamo
il prezzo alle cose. Tu devi solo fidarti”.
Un
altro spettro attraversò il tappeto di porpora, si affiancò al trono e porse al
sovrano un comune foglio di carta al quale era stato apposto un timbro di visto.
Questi
lo passò in rassegna qualche istante, prima di dire:
“Dunque…
c’è scritto che vuoi vendere un’invenzione, ma io non vedo niente tra le tue
mani”.
“Infatti
non ce l’ho tra le mani, è nella mia tasca”.
Re
Nomia, incuriosito, lo incoraggiò, e mentre faceva cenno di avvinarsi, un
bagliore, questa volta di colore verde, lampeggiò all’altezza del gomito e, come
il riflesso di un’aurora boreale, si estese a più riprese lungo il petto.
“Allora,
mostramela. Che aspetti?”.
Vegeta
afferrò l’oggetto dalla tasca e glielo esibì tenendolo tra il pollice e
l’indice.
“Tutto
lì? Mi sembra una fiala da medicinale”.
“La
dimensione e l’aspetto sono quelli, ma al suo interno può contenere qualsiasi
cosa tu voglia”.
Era
certo che quell’invenzione fosse soltanto una prerogativa dei terrestri e provò
una soddisfazione quasi maligna nell’appurare il risultato prodotto: se fosse atterrato
con un’astronave tra un popolo indigeno avrebbe suscitato, forse, meno
scalpore.
Che
sciocchi individui!
Erano
il centro dell’universo solo per una questione geografica.
Fu
un tripudio di scintillii di svariati colori e sembrava che tante fiammelle si
fossero messe a danzare in mezzo all’ampio salone nel momento in cui mostrò la
tecnica di incapsulamento.
Re
Nomia non riusciva a credere che fosse tutto una questione di poli di
attrazione e che bastasse applicare un dispositivo ad un oggetto perché venisse
fagocitato dalla fiala.
“Non
è nessuna magia, è tecnologia”.
Fu
costretto ad arrendersi all’evidenza dei fatti quando vide che un’intera
navicella poteva essere racchiusa semplicemente in tasca.
Una
sola di quelle capsule avrebbe permesso di recuperare spazio nei depositi e
raccogliere ancora più merce da destinare al baratto.
“Quale
pianeta vuoi in cambio?”, fece allegramente alla fine, scintillando di bianco.
“Non
voglio nessun pianeta”.
La
perplessità gli stinse ogni colore e adesso quasi si faticava a distinguerlo
sul trono mentre domandava:
“E
allora cosa vuoi? Per cosa sei venuto?”.
“Voglio
una donna”.
“Una
donna?”, scoppiò a ridere e dal doppio mento partì un’altra scarica di colori.
“E da quando i saiyan sono interessati ad una donna? Posso darti almeno cinquanta
donne in cambio di quell’invenzione e tra le più belle”.
Sulla
fronte stempiata la vena era già dura quanto un cordone:
“No.
Me ne basta una”.
***
Bulma
Brief non era una scienziata che si arrendeva facilmente.
Era
almeno da dieci giorni che tentava di riprodurre in laboratorio il cosiddetto ossiobonio, un minerale di natura aliena
prelevato dal suolo di Namecc, tra una ricerca e l’altra delle sfere del drago,
con Freezer ed il suo seguito alle calcagna.
Era
l’elemento mancante per completare l’ultima delle sue invenzioni. Ottenuto
questo, avrebbe contribuito al progresso dell’umanità intera grazie alla
costruzione di un manto stradale indistruttibile.
Niente
più buche in cui forare le ruote o slogarsi una caviglia!
L’idea
le era venuta proprio dopo la rovinosa caduta rimediata all’uscita dei grandi
magazzini. Passasse pure sul dolore e sulla escoriazione, ma era stato assai
mortificante rialzarsi e mostrare sulla calza una smagliatura più grossa di una
vena varicosa.
Non
importava nemmeno che sua madre, con le palpebre socchiuse e trasognate,
annaffiando il vaso di ciclamini rossi sulla mensola in cucina, le avesse fatto
notare che si poteva cadere anche senza finire in una buca.
Alla
lista infinita dei suoi brevetti non poteva mancare l’asfalto indistruttibile.
“Forse
Vegeta potrebbe suggerirci su quale altro pianeta trovarlo”, disse suo padre.
Non
era molto convincente nelle sue vesti di uomo di scienza, quando si metteva a
parlare con il gatto nero acciambellato sulla testa.
Tuttavia,
Bulma decise di seguire il suo consiglio e di chiedere informazioni all’alieno con
cui avesse più confidenza.
“Che
vuoi che ne sappia?”, le disse il principe dei saiyan, interrogando il
frigorifero e trovando più interessante il pezzo di formaggio che spuntava
dietro il cartone del latte scremato.
“Ma
se tu ne avessi avuto bisogno, dove avresti pensato di trovarlo?”.
“Non
credo che questo ossobio… o come
diavolo si chiama sarebbe stato un problema esistenziale”.
Ci
mise pochi secondi ad inghiottire il pezzo di formaggio, il tempo necessario
perché Bulma incrociasse seccata le braccia.
“Non
ti ho chiesto di spiegarmi la composizione chimica o di fabbricarlo. Ti ho
soltanto chiesto su quale pianeta trovarlo”.
“Sul
pianeta Oiko, in genere, si trova tutto quello che esiste nell’universo”.
“Dista
molto?”, fece interessata.
“Cinque
giorni e sei lì, ma non te lo consiglio”, chiuse la porta del frigorifero con
uno scatto del sopracciglio.
Bulma
non si lasciò intimorire nell’apprendere in forma assai succinta - intanto che
l’altro ripuliva con il cucchiaino l’intero vasetto di marmellata di ciliegie
preso dalla dispensa - quanto snervante fosse la trafila del baratto o che la
temperatura esterna al Palazzo degli Scambi si mantenesse costante intorno a
-200 gradi celsius.
“Vorrà
dire che userò la tuta spaziale che non ho indossato su Namecc. Che importa che
non sia alla moda? Non devo andare ad una serata di gala…”, rimuginò giocando
con il filo di perle che pendeva al collo.
A
quell’osservazione assurda, il cucchiaino cessò di scavare nel vasetto, per poi
riprendere con sdegnosa noncuranza. Questo era già vuoto quando Vegeta si sentì
chiedere:
“Perché
non vieni pure tu? Non abbiamo mai fatto un viaggio insieme. Potrebbe essere
l’occasione giusta per cambiare un po’ aria”.
Aveva
già programmato tutto in quella manciata di minuti.
Trunks
sarebbe stato affidato ai nonni: all’età di quasi quattro anni non si sarebbe
neppure accorto della sua assenza se lo avessero condotto tutti i giorni al
luna park e gli avessero comprato scorte di caramelle.
“Il
pianeta Oiko non è la meta giusta per una gita, ma se ci tieni tanto…”, la
liquidò con un significativo gesto del braccio in direzione dell’uscita, “…sei
libera di andarci da sola. Per cambiare aria mi basta non averti tra i piedi”.
***
L’enorme
lampadario di cristallo oscillò ancora, producendo questa volta un tintinnio
più sonoro, simile all’arpeggio di uno strumento a corde.
Re
Nomia teneva particolarmente a quel lampadario, non fosse altro che erano
secoli che pendeva indisturbato da quel soffitto.
Neppure
un giovanissimo Freezer aveva osato minacciarne la collocazione quando si era
presentato in persona, anni addietro, a vendere migliaia di schiavi in cambio
di una flotta di astronavi.
A
quanto pareva, quel saiyan non voleva una femmina qualunque, bensì era alla
ricerca di una donna proveniente da un pianeta chiamato Terra.
“In
quale sistema solare si trova? Non ne ho mai sentito parlare…”.
Vegeta
non ebbe il tempo di rispondergli perché un essere dai bagliori violacei si avvicinò
al sovrano e lo informò a voce alta che, da quando era stato eretto il Palazzo
degli Scambi, non erano stati intrattenuti affari con nessun terrestre e meno
che mai con una femmina.
“E’
atterrata qui almeno dieci giorni fa”, lo contraddisse Vegeta. “Cercava un
minerale chiamato ossiobonio e in
cambio avrebbe ceduto due veicoli di manifattura terrestre”.
Seguì
un brusio, e tanti altri bagliori opalescenti presero a rincorrersi tra loro.
Quando qualcuno annunciò che una terrestre era per davvero atterrata, ma non
per acquistare ossiobonio, come si
era detto, ma per essere ceduta, insieme ad altre due schiave, da una
rappresentanza del pianeta Tragan in cambio di duecento libbre di senape, non
solo il lampadario ma pure le mura furono scosse da una vibrazione sussultoria.
Eppure
il saiyan se ne stava al centro dell’ampio salone, immobile e con le braccia
incrociate e non un muscolo del suo viso pareva essersi scomposto.
Gli
abitanti di Tragan erano noti pirati e a Vegeta bastò sentirli chiamare in
causa per immaginare, sequenza dopo sequenza, come si fossero svolti i fatti: la
navicella di Bulma doveva essere stata attaccata ancora prima di entrare
nell’orbita di Oiko.
Dopo
averla rapinata di tutto ciò che aveva, dovevano aver deciso di affiancarla
alle altre due schiave per alzare il prezzo dello scambio.
Gli
sembrava proprio di vederla mentre, tra migliaia di persone provenienti da
mondi diversi, in fila per concludere i propri affari ai banchi dei baratti, si
dibatteva e urlava che lei valeva molto più di duecento libbre di senape.
Considerato,
altresì, che la temperatura, all’interno del Palazzo degli Scambi, fosse
compatibile con il suo organismo, essendo circa di dieci gradi centigradi, era
possibile che avessero venduto pure la sua divisa spaziale lasciandola
letteralmente in mutande.
Le
peripezie di Bulma non lo impensierirono affatto, al contrario, provò un
perverso godimento nell’immaginare che, nel terribile istante in cui si era
vista stringere le caviglie con una catena, avesse meditato “perché non ho dato ascolto a Vegeta?”.
“Allora,
che cosa stai aspettando? Prenditi questa capsula e dammi ciò che ti ho chiesto”,
ordinò Vegeta.
Re
Nomia si grattò perplesso una tempia, dando l’impressione che le sue lunghe
unghie penetrassero fin dentro il cervello.
Sembrava
quasi di scorgerne la materia cerebrale tra un luccichio e l’altro della fronte
appuntita.
“Hai
diritto di ricevere la tua ricompensa, saiyan, sempre ammesso che la schiava in
questione non sia stata frattanto venduta, il che è assai probabile essendo
trascorsi almeno dieci giorni dal suo arrivo”.
Questa
volta né il lampadario, né le possenti mura subirono vibrazioni.
Un’impercettibile
contrazione si trasmise dalla mandibola fino alla gola e si esaurì nella pianta
dei piedi, come se quell’energia silenziosa non avesse trovato altra valvola di
sfogo e fosse implosa all’interno del suo organismo.
Vegeta
racchiudeva in sé i misteri dell’universo intero, la genesi di un buco nero, lo
spegnimento di una stella, il collasso di un pianeta; e il suo universo era per
davvero infinito, senza linee di demarcazione, senza un epicentro.
C’era
da perdere la testa al solo ragionarci intorno.
“Non
ho altro tempo da perdere, trovala!”.
Ci
fu un viavai di altre scintille, di brusii sommessi, di ordini impartiti.
Fu
necessario interpellare i responsabili dei banchi di baratto, consultare i
registri d’ingresso e quelli di uscita degli ultimi dieci giorni.
Le
insidie di un apparato amministrativo sanno essere più pericolose di quelle a
ridosso di un sistema solare. Il rischio di imbattersi in un buco nero o in un
errore di calcolo è assai alto, ma pure l’eccesso di zelo, la precisione, il
rigore, i timbri giusti, le autorizzazioni, i nulla osta possono scavare,
talvolta, distanze incolmabili di anni
luce.
Trascorsero,
a rigore di precisione, altri quarantasette minuti perché due subordinati
facessero il loro ingresso da un accesso laterale e conducessero una donna con
addosso una lunga tunica grigia, di un tessuto ruvido e doppio simile al feltro.
Vegeta,
che si era intrattenuto in piedi nella consueta posizione delle braccia
incrociate, la vide avanzare barcollante.
Debole,
sciupata, i suoi seni sotto il feltro non mettevano più soggezione ma avevano
perso almeno due taglie di spessore, eppure i suoi occhi avevano la stessa
intensità di azzurro che lui conosceva quando la sentì esclamare:
“Si
può sapere perché diavolo sei arrivato soltanto ora?”.
“E’
questa la donna che cercavi?”, chiese conferma il sovrano.
Ma
Bulma non diede all’altro neanche il tempo di rispondere:
“Certo
che sono io! Quante volte devo ancora ripetere di essere una terrestre, che il
mio nome è Bulma Brief, che sono una cittadina libera, che dei farabutti mi
hanno rubato tutto ciò che avevo, che mi appello alle leggi intergalattiche,
semmai esistono!”, e poi si voltò in direzione del saiyan, “…ti rendi conto
come sono stata trattata?”, si batté il petto. “Venduta come una schiava per
duecento libbre di senape! Io odio la salsa di senape! Io valgo più di questo
pianeta e di tutti i vostri cervelli messi assieme!”.
Re
Nomia la ascoltò con condiscendenza, mentre una goccia di sudore traluceva
dalla tempia:
“Sei
sempre sicuro di volere questa schiava? In cambio di quella capsula posso darti
molto di meglio”, domandò a Vegeta.
Questi
aveva socchiuso le palpebre, scaricando ancora sulla pianta dei piedi quel
flusso di energia che partiva dalla mandibola e passava per la gola.
“Per
cosa mi hai barattato, Vegeta?”, inquisì torva.
Vide
che tra le mani egli aveva una comune capsula con il timbro della Capsule Corp.
“La
mia intelligenza non ha prezzo! Io valgo più di una mia stessa invenzione! Io
non sono un oggetto di cui disponete nella misura che volete! Ma che razza di
posto è questo?”.
“La
vuoi piantare sì o no?”, la ridusse al silenzio con un’occhiata omicida.
A
lei non restò altro che scivolare con disperazione teatrale a terra, trascinando
con sé il peso di quei dieci giorni trascorsi tra le gelide pareti di una cella:
“Ti
supplico, portami via da qui… etciù!”, starnutì espellendo un moccio dal naso.
Ad
intervalli più o meno regolari, già da diversi giorni, la febbre assaliva le
fibre dei muscoli con qualcosa di simile a scariche elettriche.
Era
stato proprio questo stato debilitato di salute a preservarla dal finire su
chissà quale altro pianeta, poiché uno schiavo, ai sensi dell’articolo 34,
comma 5, dello Statuto di Scambio, al fine di evitare il ribasso, non sarebbe potuto
essere oggetto di baratto fino a quando non fosse stato nel pieno delle sue
facoltà fisiche.
“Avanti,
facciamola finita e concludiamo l’affare!”, fece spiccio Vegeta.
“L’affare
non è proporzionato”, sentenziò il sovrano. “Il tuo oggetto ti scambio vale più
del prezzo di una schiava. Dimmi di cosa altro hai bisogno e solo allora
l’affare sarà concluso nella giusta misura”.
Bulma
non aveva neanche più la forza per sentirsi offesa e si asciugò il naso con un
lembo ruvido della tunica, l’ultimo rimasto asciutto. Un unico rossore, ormai,
fungeva da ponte tra le labbra e le narici, sicchè non era facile distinguere
dove finissero le une ed incominciassero le altre.
“Non
ho bisogno di niente”.
“Non
è possibile. Il baratto deve essere equo perché non si dica, al di fuori di
questo pianeta, che gli abitanti di Oiko non conoscono la giusta misura. Mai nessuno è andato via da qui senza ricevere
l’esatto compenso di ciò che ha dato”.
La
pazienza di Vegeta, già messa a dura prova, incominciava a scendere sotto una
soglia assai pericolosa. La pianta dei suoi piedi era ormai annerita e la
prossima scarica di energia avrebbe trovato un’altra via di uscita.
“Forse,
non è chiaro un concetto. Io sono venuto a prendermi quello che già mi
apparteneva”.
“In
che senso ti apparteneva?”, chiese Re Nomia, educato e gentile.
“Che
era una mia proprietà”.
Bulma
smise di asciugarsi il naso gocciolante e sentì che il suo cuore prendeva a
battere più forte, ma non era per la febbre.
Alle
sue orecchie, soltanto alle sue, un possessivo
reso da Vegeta in modo tanto spontaneo, seppure egoista, era l’equivalente di
una dichiarazione d’amore.
“Dai
registri non risulta che fosse tua schiava. In che senso era una tua proprietà?
Che valore aveva? Quale importanza?”.
Quando
Vegeta incrociò lo sguardo di Bulma e vide che le sue ciglia fremevano come
quelle di una fanciulla innamorata, sperimentò quel malessere fisico che più di
tutti detestava: l’imbarazzo.
Non
aveva mai provato imbarazzo prima di conoscere quella terrestre. Non sapeva
neppure cosa fosse.
Preferiva
essere massacrato dal nemico piuttosto che provare quello strano turbamento,
così alieno alla sua natura.
Un
saiyan non è stato creato per provare imbarazzo, nella stessa misura in cui non
è stato creato perché si dedichi all’arte o alla musica.
Invece,
aveva scoperto quella sensazione, per la prima volta, quando con audacia Bulma lo
aveva invitato a casa sua insieme ai namecciani, dopo l’esplosione del pianeta
Namecc; e continuava a subirla ogni volta che lei faceva fremere quelle ciglia.
Anzi,
più passavano gli anni e lui più ne diventava facile vittima.
Era
incredibile come bastasse un palpito dello sguardo per scuotere un universo.
Quell’universo senza epicentro e senza
confini.
E
se persino l’eternità non è altro che un battito di ciglia, quanta potenza può nascondersi
sotto ognuno di quei battiti?
Bastavano
due movimenti per ridurlo ad uno straccio!
“Adesso
basta!”, urlò, e sul soffitto, in prossimità del lampadario, incominciò ad
allargarsi la temuta crepa.
“Dunque…”,
cercò di venirgli incontro il sovrano. “Tu hai detto di non volere altro che
questa donna, e poiché è la prima posta quella che conta, secondo l’articolo 4 del
nostro Statuto, io posso fare soltanto una cosa per alzarne il prezzo”.
Bulma
tornò a starnutire, ma non aveva più lembi asciutti con cui strofinare le
narici.
“Io
non te la do come schiava”.
“Dammela
come ti pare e piace”.
“Te
la do come moglie. Una moglie ha un prezzo superiore a quello di una schiava.
Affiancherò pure una dote e lo scambio sarà pari”.
Se
Bulma ebbe l’impressione che tutti quei barlumi colorati fossero soltanto
un’allucinazione dovuta alla febbre, Vegeta, invece, li vide danzare intorno come
le fiamme dell’inferno.
Era
già stato all’inferno e lì le fiamme bruciavano di meno.
La
sua fronte grondava sudore mentre fuori dal Palazzo la temperatura era sotto i
duecento.
“Come
sarebbe a dire… moglie? Trova una via di mezzo!”.
Ma
il Re Nomia sorrise, scintillando di nuovo di azzurro.
“No,
non esistono vie di mezzo nel nostro Statuto. Una donna o è schiava o è moglie”.
Se
Vegeta non distrusse il pianeta fu soltanto perché nessuno avrebbe raccolto i
resti del suo corpo e perso tempo a ricomporli come quello di Freezer.
Pensare
di lasciare Bulma alla sua sorte equivaleva, poi, ad arrendersi a quel suo
battito di ciglia: i nemici, pure i più temuti, vanno affrontati sino alla
fine.
“D’accordo”,
assentì laconico. “Purché tra dieci minuti io sia fuori da quest’orbita”.
“Allora…”,
allargò le braccia rilucendo ancora come un’aurora boreale. “Fatevi avanti”.
“Ma
che cos’è questa storia?”.
Bulma
sapeva soltanto che una di quelle fiamme
colorate l’aveva sollevata, affiancata a Vegeta e condotta insieme a lui ad un
passo dal sovrano.
“Non
ci vorrà mica sposare sul serio? Io non sono pronta!”.
Dov’erano
il vestito bianco, i confetti, le colombe, i fiori, il riso?
Dov’erano
gli anelli d’oro?
A
Re Nomia era stato consegnato un cofanetto e dal velluto rosso ne estrasse un
pezzo di ghiaccio affilato quanto un coltello.
A
quella distanza così stretta, le sfumature del suo corpo si erano accentuate e
le dita parevano lunghissime e deformi.
Aveva
le sembianze di un sacerdote empio quando afferrò i loro polsi:
“Vegeta,
fallo smettere!”, tentò di divincolare il braccio, senza riuscirci.
“Sta
zitta. Faremo i conti sulla Terra”.
Quelle
dita penzolanti e lunghe erano talmente gelide, a dispetto del colore rosso di
cui rilucevano, che Bulma sentì la temperatura corporea abbassarsi di colpo.
Ma
fu un istante.
Un
intenso calore si concentrò all’altezza del polso quando il ghiaccio affilato
lo incise di netto.
Pure
Vegeta, il cui corpo recava il ricordo di ferite più profonde, sgranò gli occhi
nel momento in cui vide il proprio polso stringersi a quello di Bulma ed il
loro sangue divenire un’unica cosa.
“Vi
dichiaro marito e moglie, finché morte non vi separi”.
Bulma
perse i sensi e cadde ai piedi del trono.
“Ecco,
bravo. Hai trovato il modo per farla stare zitta”, commentò Vegeta.
Poi,
consegnata la capsula nelle mani di Nomia, così come pattuito, sollevò la donna
rudemente e si avviò all’uscita.
***
Il
ghiaccio calpestato produce un rumore tutto suo, soprattutto quando intorno
ogni altro rumore tace.
Un
mondo di ghiaccio e neve sembra essere fatto apposta per starsene in un’ampolla
infrangibile di vetro, pronto a capovolgersi se qualcuno lo scuote appena.
Bulma
subiva quella nenia con gli occhi socchiusi, senza che le fosse ancora chiaro
cosa o chi generasse quel calpestio.
Sapeva
solo che qualcuno la stava sospingendo in avanti, non sapeva come, però lo
trovava comodo e rassicurante:
“C’era
tanta confusione quando sono atterrata”, mormorò debolmente. “Dov’è finita
tutta quella gente? Non sento nulla. Sono morta?”.
“E
pensi di morire per colpa di un taglietto?”.
“No,
non era un taglietto, ho visto tanto… tanto sangue. Non si trattava di un sogno”.
Nel
delirio di quei giorni, generato dalla febbre, aveva fatto molti incubi ma
niente che avesse avuto a che vedere con il sangue, almeno non il suo.
Aveva,
difatti, vaneggiato sulla distruzione di quel pianeta e sulla morte dei suoi
sequestratori, ma lei si era vista incolume a vagare nello spazio con le catene
ai piedi.
Sembrava
che anche ora stesse delirando.
Dopo
essersi congedato dal sovrano senza altri convenevoli, a Vegeta era stato
indicato un sentiero alternativo da seguire, assai distante da quello dei
banchi del baratto.
Qui
c’era niente altro che ghiaccio, sottoforma di aguzzi profili, incastonato nel
colore plumbeo della notte.
Il
sospiro di lei gli andò a vellicare la piega tesa del collo:
“Vegeta…”,
mormorò ancora.
“Cosa
hai da ridere, ora?”, le chiese duro.
A
lei restò l’ombra svanente di quel sorriso. Era debole, ma riuscì a dire:
“Sto
pensando che mi stai conducendo alla navicella tra le tue braccia. E’
tradizione che lo sposo entri in casa portando così la moglie. Lo sapevi?”.
“Non
dire idiozie. Potrei sempre gettarti a terra e trascinarti per i capelli”.
Era
talmente leggera che, per essere sicuro di avere davvero qualcosa tra le mani,
esercitò un’ulteriore pressione delle dita.
“No…
non lo faresti”.
“E
come fai ad esserne sicura?”.
“Perché
se tu in questo momento mi lasciassi cadere, io morirei”.
Solo
quando riuscì ad aprire piano gli occhi, riconobbe il prezioso oro del
supersaiyan e comprese, allora, da dove venisse quel meraviglioso tepore che le
invadeva le membra.
A
meno di duecento gradi il vento spirava mortale, ma non un alito attraversò la
stoffa di quella tunica di feltro.
Loro
stessi sembravano chiusi in un’ampolla di vetro infrangibile.
“Sta
zitta, Bulma”, pure il suo fiato era caldo e corroborante. “Non ti conviene
suggerirmi in che modo farti morire”.
“Grazie
per essere venuto”, sussurrò, chiudendo di nuovo gli occhi.
“Io
non sono venuto per te, ficcatelo in testa!”.
“E
per chi allora?”.
“Avevo,
forse, alternative, oltre a quella di debellare tutta la tua stirpe?”.
Non
gli era stata concessa tregua da quando il dott. Brief aveva perso le
coordinate della navicella di Bulma.
Sua
madre era stata così distratta e preoccupata - a modo suo, sia chiaro - da
dimenticare Trunks al luna park in più di un’occasione. L’ultima volta, l’aveva
vista rincasare con i palloncini colorati e lo zucchero filato, ma senza il bambino.
Il
vecchio, poi, aveva pensato di mettersi egli stesso in viaggio con quel gatto
acciambellato sulla testa.
Il
principe dei saiyan non era partito in cerca di Bulma: si era dato
letteralmente alla fuga.
Quando
il sentiero di ghiaccio si allargò, Vegeta arrestò il passo, fece esplodere una
capsula ed una navicella si materializzò davanti a loro.
Una
volta che furono dentro, avanzò ancora di qualche passo, e su una poltrona in
velluto rosso, accanto al posto di guida, Bulma si ritrovò gettata senza alcuna
galanteria.
“Ahi!
Ma che modi sono?”.
Il
rombo dei motori servirono a farla ritornare bruscamente in sé e, usciti
dall’orbita, le restarono solo i tremiti della febbre e gli starnuti del
catarro.
Fortunatamente,
nel kit di pronto soccorso trovò l’antipiretico e dopo venti minuti il
terribile cerchio alla testa incominciò a perdere spessore.
Riuscì
pure a mangiare un pasto caldo e decente e a fare un bagno, ma non ebbe il
coraggio di togliersi quel fazzoletto nero che le era stato messo intorno al
polso.
“Mio
padre è sempre il solito. Si è preoccupato di inserire l’impianto stereofonico
e non ha pensato di mettere una crema idratante tra le boccette del bagno”,
disse quando ne venne fuori.
L’ambiente
era talmente caldo e confortevole da potersene andare in giro in mutande e
canottiera. La tunica di feltro, invece, era stata gettata in una pattumiera e
lanciata eloquentemente nello spazio insieme allo scarico del water.
Non
era certa che si sarebbe più ripresa dal freddo patito all’interno di quella
cella e preferì alzare di altri due gradi la temperatura dell’abitacolo.
Vegeta,
intanto, se ne stava disteso sul letto con un braccio incrociato dietro la nuca
ed il petto scoperto.
Nel
sedersi accanto, Bulma sentì che, sotto le lenzuola, il materasso era ancora
avvolto dal cellophane.
Non
c’era alcun fazzoletto intorno al polso del saiyan e la ferita, già
rimarginata, era soltanto uno dei tanti tagli cesellati sulla pelle.
O
forse era l’altro braccio ad essere stato inciso?
Eppure,
neanche quello incrociato dietro la testa recava tracce di medicazione.
“Mi
brucia, mi brucia terribilmente”, disse la donna con gravità, riuscendo appena
a sfiorare la stoffa del fazzoletto.
Pure
a lui insolitamente bruciava e per questo lo aveva nascosto dietro la testa,
soltanto che non l’avrebbe mai confessato.
“Volevo dirti che questo matrimonio non ha
alcun valore per me”, lo informò Bulma, afferrando un cuscino e portandoselo in
grembo.
“Allora
la pensiamo allo stesso modo”, mormorò lui, guardando il soffitto metallico.
“Non
intendevo in quel senso”, sospirò l’altra, senza risentirsene. “Intendevo dire
che io mi reputavo già tua moglie”.
“E
sulla base di cosa?” sogghignò tagliente.
“Abbiamo
o non abbiamo un figlio insieme? Mi bastava questo, mi bastava sapere che eri
rimasto con noi, malgrado tutto”.
Ora,
dal momento che lui continuava a trovare interessante il soffitto di metallo, a
lei non restò altro che sistemare il cuscino e distendersi accanto.
“Credo
di essermi persa qualche passaggio. Quell’essere avaro e saccente ha parlato
anche di una dote. Che cosa ti ha dato?”.
Quando
il sovrano gli aveva concesso l’opportunità di scegliere il corredo, a condizione di rispettare la
proporzione, a Vegeta era venuta in mente la ragione per la quale Bulma avesse
intrapreso quella rotta.
Sarebbe
stato umiliante far ritorno sulla Terra a mani vuote, soltanto con Bulma come
trofeo, e così si era fatto dare una scorta di ossiobonio.
“Davvero?”,
fece l’altra senza entusiasmo.
Con
le catene ai piedi, denutrita ed ammalata, aveva pensato di non volerne più
sentire parlare.
“Non
sono certa che l’asfalto indistruttibile riscuota successo. I costi sono troppo
alti”.
Pure
per Vegeta il prezzo era stato alto e quel taglio all’altezza del polso
continuava a bruciargli
inspiegabilmente:
“Non
ti azzardare più a farti venire in mente simili idee. La prossima volta te la caverai
da sola”.
“Puoi
star certo che non metterò più piede su quel pianeta. Io detesto la salsa di
senape…”, le venne in mente, come in un rinnovato delirio. “Io valgo più di
duecento libbra di senape”.
Ma
Vegeta non aveva intenzione di starla più ad ascoltare e con il telecomando
spense le luci.
Il
rombo dei motori era un sottofondo al quale era abituato fin da bambino e non
sarebbe stato questo ad impedirgli di dormire.
Nella
sua infanzia, semmai l’aveva avuta, non erano esistite ninna nanne ma soltanto
quel rumore di fondo, sempre uguale e monocorde, di pianeta in pianeta.
Bulma
continuò a scrutare le ombre nere realizzate dai led intermittenti del monitor
di guida, poi esordì in una specie di monologo:
“Avevo
sempre immaginato che la mia prima notte di nozze sarebbe stata diversa da
questa…”.
Al
buio, il contorno delle narici riluceva della crema lenitiva trovata tra i
medicinali ed effondeva un odore di ossido di zinco e di aloe.
Vegeta
riaprì gli occhi e il tetto di metallo apparve questa volta come un’enorme
massa scura. Era la prima volta che si ritrovava a viaggiare nello spazio in
compagnia di una donna e comprese la ragione per cui le capsule spaziali dei
saiyan fossero fatte per accogliere una sola persona.
“Ed
invece mi reggo a stento in piedi, ho la pelle secca e i capelli increspati. Non
ho niente di sexy da indossare. Non sono mai stata più impresentabile di come
sono ora. Non era così che doveva essere la mia prima notte di nozze. Non c’è
nulla di romantico in tutto questo”.
“Sei
venuta a letto con me un’infinità di volte. Non vedo cosa ci dovrebbe essere di
diverso proprio questa notte”, fece cinico.
Lei
si mise su di un fianco e avvolse una gamba intorno a quella di lui. Sapeva
bene che la prima notte era passata
da un pezzo, tuttavia, quella fitta lancinante, che dal braccio si estendeva
fino alle unghie spezzate e senza smalto, le dava la sensazione che qualcosa
fosse stato siglato per davvero.
I
polsi di entrambi martellavano all’unisono.
“Io
non pretendevo nulla di speciale…”, mugugnò. “Ho sempre immaginato due coppe di
champagne, un fuoco acceso, le lenzuola di seta, magari una notte stellata…”.
“Una
notte stellata?”, storse il labbro. Con un gesto quasi disgustato azionò il
telecomando ed il tetto di metallo si divise in due parti per lasciare spazio
ad una cupola trasparente.
Il
cosmo intero si spalancò davanti ai loro occhi, concentrato in una nebulosa, a
forma di anello, dalle sfumature dell’amaranto più spettacolari.
Quell’universo apparteneva soltanto a loro e, per
quanto infinito fosse, seppure si fossero persi di vista, non si sarebbero mai
smarriti del tutto.
“Scommetto
che sulla Terra non hai mai visto niente di simile...”.
FINE
Preciso
che questa storia trae spunto da una mia ff, assai acerba e datata, dal titolo
“Dopo il Cell-game: nuova versione”, della quale, per mia fortuna, si è persa
ogni traccia in rete.
Credo
che una copia di questa sia custodita in un floppy disk confinato nell’angolo
più nascosto del cassetto della scrivania, ma ho pensato fosse tempo sprecato
anche solo andarlo a recuperare.
Già
il fatto che ci sia un floppy disk a fare da supporto, vi fa pensare quanto la
suddetta storia possa essere vecchia.
Piuttosto,
il mio obiettivo era quello di recuperare l’idea principale, ovvero il matrimonio
celebrato con un rito non canonico, e
sviluppare una storia completamente nuova.
Detto
ciò, non mi resta che ringraziarvi per essere arrivate/i a leggere fino a
questo punto.