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Autore: musike    02/11/2013    3 recensioni
I pensieri di Cecelia, durante la mietitura per la terza edizione della memoria.
Dal testo:
" (...) Sappiamo bene che siamo tutte sulla stessa barca; sappiamo bene tutte che chiunque verrà estratto quest’oggi dovrà affrontare di nuovo gli orrori di quei giochi che ci hanno portato via la vita, dovrà rivivere gli incubi che pensava di essersi lasciato alle spalle, ma che in verità se li porta dietro come delle pesanti catene, dei macigni da cui mai potrà liberarsi. Siamo anime marchiate a vita, sporche per l’eternità. La nostra colpa? Esserci ribellati."
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Cecelia
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Nota: I personaggi non mi appartengono, ma appartengono all'autrice della trilogia di Hunger Games.

CECELIA: THE WINNER, THE MOTHER, THE TRIBUTE


Sono qui, insieme alle altre vincitrici del distretto 8, aspettando di vedere cosa la sorte ha in serbo per noi. Non ci guardiamo negli occhi, sarebbe del tutto inutile; non riusciremmo ad osservarci senza provare rimorso per il fatto che se esci nessuno prenderà il tuo posto. Che la fortuna sia sempre a vostro favore. Ogni volta che sento questa frase mi viene da ridere e piangere allo stesso tempo, perchè mi ricorda che se anche sono viva non lo sono per davvero ... non lo sarò mai.

La fortuna non è mai a nostro favore. Non lo è mai stata e il fatto che siamo qui oggi ne è la prova. È come se fossimo in un cerchio, un cerchio che mai avrà fine. Da tributi a vincitori. Da uomini a bestie. Da puri a dannati. E ora da vincitori a tributi, di nuovo. Ecco ciò che siamo, ecco ciò che saremo per l’eternità, che ci accompagnerà per tutta la nostra esistenza; mai ci liberemo da questo nostro peso, nessuna di noi è in grado di farlo, nessuna di noi lo può fare.

Sappiamo bene che siamo tutte sulla stessa barca; sappiamo bene tutte che chiunque verrà estratto quest’oggi dovrà affrontare di nuovo gli orrori di quei giochi che ci hanno portato via la vita, dovrà rivivere gli incubi che pensava di essersi lasciato alle spalle, ma che in verità se li porta dietro come delle pesanti catene, dei macigni da cui mai potrà liberarsi. Siamo anime marchiate a vita, sporche per l’eternità. La nostra colpa? Esserci ribellati. Chiedere la libertà e l’uguaglianza. Paghiamo ogni anno per l’affronto fatto dai nostri avi alla capitale e quest’anno pagheremo ancora perché la miccia di ribellione si sta riaccendendo; ma questa sarà l’ultima volta che chineremo la testa davanti a Capitol City. Sarà l’ultima volta che vedremo i nostri cari andare a morire per qualcosa che non hanno fatto.

L’unica cosa che riesco a fare, quando vedo la capitolina che ci accompagnerà al macello per la seconda volta, avvicinarsi all’urna delle ragazze, è stringere i pugni. Le nocche diventono bianche, le unghie affondono nei palmi provocandomi dolore, ma non me ne curo: il mio pensiero è rivolto alle mie stupende creature, quei tre bambini che la vita mi ha saputo regalare, coloro che insieme a mio marito sono riuscita a ridare un senso alla mia vita. Un ‘esistenza fatta di tenebre, volti sfuocati, urla, sangue, incubi e colpi di cannone. Quei colpi mi perseguitano da una vita. Boom. Boom. Boom. Li sento anche ora ed ad ogni oclpo ecco che la faccia di un conconrrente che ho ucciso o che è stato ucciso riaffiora nella mia mente, come se fosse successo solo ieri. I ricordi sono così nitidi in me, che ogni volta fanno male ... tanto male.

La mano della capitolina indugia molto su quelle otto misere schede presenti dentro l’urna. Sento che tutti gli abitanti stanno trattenendo il respiro e mi accorgo solo ora che sto facendo lo stesso anche io. Una strana morsa mi prende la bocca dello stomaco, una consapevolezza si presenta chiara nella mia mente. I miei occhi si fanno liquidi, sento che potrei sciogliermi in questo stesso istante. Caldo e fuoco combattono in una lotta senza fine dentro di me, lasciandomi in uno stato di sconforto totale che solo molti anni prima avevo provato e di cui non avevo memoria, se non fino ad un attimo fa. So cosa succederà a breve eppure non ci voglio credere. Non ci posso credere. Automaticamente il mio pensiero si fa lontano così come il mio cuore. Lontano da tutto e da tutti. Lontano da tutto questo.

Perdonatemi, piccoli miei, se vi ho messo alla luce in un mondo dove solo la paura e il buio esistono. Perdonatemi se ho solo pensato a me stessa e non al vostro futuro. Perdonatemi se non potrò essere più la vostra Regina, se non potrò più abbracciarvi mentre dormite ... perdonatemi se non vi ho saputo donare un’infanzia. Perdonatemi se per vivere ho dovuto uccidere.

Una gomitata sulle costole mi ridesta. Mi giro verso la mia vicina che, in tutta risposta, indica con il dito ossuto e rugoso il palco davanti al palazzo di giustizia. I suoi occhi d’ebano fissano i miei e in essi vi leggo solo la consapevolezza delle mie paure, ormai diventate realtà.

Cecelia muoviti.

La voce mi giunge alle orecchie come un sussurro fastidioso eppure faccio ciò che mi è stato detto. Andare. Le mie gambe si muovono da solo verso il palco, come se una forza le attirasse lì, proprio in quel punto. Non sono io a dare i comandi al mio corpo, non è la mia testa. Perché io? Continuo a chiedermi.
Mentre cammino a testa alta e con lo sguardo apparentemente fiero, ma perso nel vuoto, sento tutti i rumori ovattati, non nitidi e chiari, ma sfuocati. Le ragazze, che fino a pochi attimi prima non osavano esalare alcun respiro, ora invece appaiono più rilassate, felici che la sorte non le abbia estratte per un secondo giro in giostra in quell’incubo infernale. Le sento perfino scambiarsi qualche parola, anche se non riesco a capire cosa si dicono. È come se fossi dentro una bolla. Non sento nulla.

Continuo a muovermi, avanzo lentamente. Un passo dopo l’altro, senza nessunissma fretta. Eppure una presa alle gambe mi fa fermare. Una piccola manina mi tira con insistenza l’orlo della gonna del vestito che indosso. Ed ecco che ridiscende il silenzio tra i presenti rotto solo da una piccola voce, rotta anche essa dal pianto. Una voce che riconoscerei tra mille.

“Mamma!!! Mamma!!! Non andare!!!Mamma!” La disperazione di mio figlio rompe quella bolla che pochi istanti prima si era creato intorno a me, riportandomi bruscamenete a quella triste realtà. Ecco poi che altre voci si aggiungono e tutte mi fanno sanguinare il cuore. Un coro di voci disperate che mi chiamano con insistenza. Voglio piangere, ma so che non devo farlo.

Mi accuccio all’altezza dei miei tre figli, osservo i loro volti solcati dalle lacrime e i loro occhi pieni di terrore. Passo le mie dita affusolate sulle loro guancie, a raccogliere quelle lacrime dolorose che fanno piangere anche il mio cuore. No devo essere forte, per loro.

“La mamma ora deve andare.” Iniziò cauta con voce dolce e cercando di non far trasparire la mia disperazione; non devono sapere. “Voi dovete essere bravi e ascoltare quello che papà vi dice; non dovete farlo arrabbiare.”. Prendo fiato. Non ce la posso fare, ma devo. Non voglio separarmi da loro, non voglio, ma devo, devo, ma non voglio. “Mamma deve partire, deve farlo. Ma mamma non vi abbandonerà mai, perché lei sarà sempre qui con voi. Non ci separeremo mai.” Tocco ad uno ad uno il punto in cui battono quei tre piccoli cuori puri ed innocenti, quei cuori che non sanno cosa sono gli Hunger Games e non sanno cos’è il male. Quei piccoli cuori che ogni giorno mi fanno andare avanti. Quei cuori che sono la mia luce nella mia oscurità. Piano piano ecco che sento la presa delle loro piccole manine, lasciarmi la stoffa del vestito che indosso e vedo mio marito, anche lui con gli occhi gonfi e rossi, che porta via con se i nostri figli. Prima che se ne vada gli tocco la mano e i nostri occhi si incrociano, dicendosi solo due parole ,ma che riassumono tutto ciò che sentiamo l’uno verso l’altro. Ti amo. E non c’è bisogno di sapere altro. A noi basta questo.

Inevitablimente due piccole lacrime solcano le mie guancie, ma prontamente le asciugono con il dorso della mano. Non devono vedermi debole. Non devono toccare chi amo. Non ci devono nemmeno provare.

Mi rialzo e mi dirigo per la seconda volta verso quel palco posto davanti al palazzo di giustizia. Quel palco che ogni anno porta con sé due giovani ragazzi alla morte. Quel palco che ha visto troppe vittime innocenti. Troppe bare con piccoli rimasugli di corpi. Troppo dolore.

Nessuno fiata, ma tutti mi guardano con pietà e io non so che farmene. Avanzo fiero, con lo sguardo dritto davanti a me, pronta ad affrontare la morte. Perché so che questa volta morirò, so che questa volta non ce la posso fare. Una volta sola puoi sopravvivere, la seconda ti annienta. Troppo sangue innocente ha macchiato le miei mani ed è giunto il momento che io ripaghi il mio debito. La morte mi accompagna ormai da una vita eppure non mi sento pronta. Ho paura,ma non scapperò. Perché se devo morire, lo farò per liberare i miei figli da questo mondo, per dargli un futuro migliore. Per ripagare chi prima e poi per colpa mia è morta in questi stupidi giochi della fame. La Ghiandaia, dopo tanto tempo, finalmente è tornata a cantare. Non sarò più legata e sottomessa dalle spire soffocanti della paura e dell’odio con cui convivo da sempre. La mia famiglia, come tutte le altre, non dovrà più subire tutto ciò. Non lo permetterò.

Non chinerò più la testa davanti all’ingiustizia, davanti a Capitol City.

Perché questa è la mia occasione per ribellarmi.
  
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