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Autore: Soqquadro04    06/11/2013    2 recensioni
[Fluuuff | AU!Futurverse (dieci anni e otto mesi dopo) | Ghost!MamaSalvatore]
Una mattina estiva, una vecchia soffitta stracolma di ricordi decennali.
Un oggetto molto più antico, nascosto da tempo e ritrovato per caso.
E qualcuno legato a quello, richiamato per un saluto ed un ultimo sorriso.
La bambina si ferma immediatamente, ansiosa. L'altra si è fatta più frammentata, si scompone e perde i suoi contorni a una velocità allarmante. Pare lo schermo della televisione quando ci sono interferenze nella linea, anche se Lizzie sa che non è un paragone molto profondo e che quella donna è , in un certo senso, non a chilometri e chilometri di distanza.
Preoccupata, allunga una manina paffuta verso di lei, in un gesto che vorrebbe confortarla pur sapendo che non può sentire il suo tocco.

{Seguito di "Three" e di "I'm here"}
Genere: Fluff, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Damon Salvatore, Elena Gilbert, Nuovo personaggio | Coppie: Damon/Elena
Note: AU, What if? | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Sentimentalism, cats and children'
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N/A - Note dell'Autrice - Premessa

Buonsalve, lettrici.
Se siete qui, significa che dovrete beccarvi i link di Three e I'm here, i due prequel di questa storia (anche se non è necessario averli letti per capirci qualcosa ù.ù).
Poooi: qualche nota importante.
Nella storia viene accennato ai balli della 1x19 e 3x14, molto velatamente, e ad una mia OS moooooolto vecchia, Lettera a lei, che immaginava un mondo dove Damon doveva sparire da Mystic Falls e, come da titolo, scriveva una lettera alla signorina Gilbert. Se ne riprendono le prime due righe, comunque, niente di che ;)
Sappiate che l'ho fatto per far capire che in quella soffitta c'è tutto, ma veramente tutto. Basta saper cercare.
Poooi: le apparizioni evanescenti sparse in giro non sono fantasmi (l'unica è Elizabeth), ma ricordi che si "manifestano", diciamo.
Ah, e anche: so che i fantasmi di TVD non riescono a farsi vedere da persone che non siano morte/morte e risorte o chissà che altro, ma ho voluto fare un'eccezione e mescolare le credenze popolari secondo cui i morti, volendo, riescono a spostare gli oggetti e a comparire brevemente nel nostro mondo, e quelle che proclamano l'alta sensibilità dei bambini alle presenze soprannaturali (per questo la piccola Lizzie vede la nonna ù.ù Per quanto riuarda il finale, siccome è una bimba molto intelligente, ha fatto qualche connessione e ha capito da dove arriva il nome <3).
Chiarito questo, ho finito e vi lascio alla lettura (spero, come al solito, di non essere troppo OOC e che la storia vi piaccia <3)

A presto,
la vostra Soqquadro


P.S. Per il nome del piccolino in arrivo... non sono riuscita a trattenermi. L'idea era troppo allettante XD
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Ricordi
 

Il cuore di una madre è un abisso in fondo al quale si trova sempre un perdono.
Honoré de Balzac

Il passato non è passato, nel cuore delle madri: è presente. 
Alberto Jacometti

Leggiadra come una farfalla, esile e forte come un giunco, mantieni i tuoi sogni intatti, piccola libellula dalle ali d'oro, danza solo per lui, danza per l'amore che mai ti mancherà, danza per il tuo papà.
 Infinito Amore


Ci sono luoghi, nelle case di tutto il mondo, dove i ricordi vengono ammassati, rinchiusi, catalogati.
Luoghi in cui si cerca di farli svanire, luoghi in cui si tenta di arginare i dolori della memoria.

Perché fa male, ricordare, la maggior parte delle volte. Non è sempre così, ma succede così spesso che le persone hanno quasi smesso di selezionare i ricordi, preferendo amalgamarli tutti in un unico blocco, inscindibile, e nasconderlo nelle cantine, negli armadi sgangherati, in una botola sotterranea, se si esagera.

E nelle soffitte, soprattutto nelle soffitte.

Forse per invogliarli a volare via attraverso una vecchia finestrella mezza rotta, chissà.

***

La mattina in cui inizia la nostra storia è la promessa di un magnifico giorno estivo.

Nonostante siano solamente le otto, il sole è già caldo – troppo caldo – e il cielo è azzurro in modo quasi irreale; ogni tanto, a mitigare l'afa umida che già si avverte nell'aria, un alito di vento sospira attraverso le finestre aperte.

A Lizzie, comunque, non importa molto di tutto questo: in soffitta è fresco, e la semioscurità è piacevole e rassicurante, molto adatta a una missione d'esplorazione.

È un luogo di polverosa magia, quello. Di bauli antichi e pesanti, di ricordi che prendono vita per pochi attimi, di manichini addobbati con decennali abiti da ballo – ne nota solo due, in bella vista: uno blu, di satin lucido anche se ormai leggermente rovinato, e un altro con un'ampia gonna rivestita di tulle, ancora debolmente luccicante quando colpita dalle rare lame di luce che riescono a infiltrarsi all'interno da una minuscola finestrella sistemata in un angolo.

Non sono quelli, che le interessano, nonostante siano qualcosa di abbastanza stuzzicante da meritare un appunto mentale. Forse più tardi, se avrà ancora tempo.
Sta rovistando nei cassetti spalancati di uno dei mobili imponenti, curiosa.

L'aveva visto lì, al centro della stanza, e si era affrettata a eliminare il lenzuolo che lo copriva – ora giace a terra, arricciato e ammucchiato in un groviglio bianco – per poterne svelare i segreti.

Per ora non ha trovato nulla, se non un portagioie che adesso giace, aperto come una conchiglia, su un tavolino lì a fianco. In mezzo al groviglio di collane – ce ne sono alcune davvero belle, ma la sua preferita rimane quella che porta la mamma, sempre. La sfiora, di tanto in tanto, quando si perde ad osservare papà con quello sguardo distante e pensieroso che le fa velare gli occhi – , spiccano due anelli d'argento e pietre azzurre, opachi ed elaborati.

Se li guardasse ora, vedrebbe le figure impalpabili di sua madre e suo padre che li ripongono con cura, chiudendo il coperchio e voltandosi verso le scale. Svaniscono.

Nello scomparto che sta esaminando in questo momento non c'è molto: solo qualche foglio di carta, ingiallito dal tempo. Molti sono coperti di fitti numeri e parole lunghe chilometri, ma con la coda dell'occhio ne nota uno un po' stropicciato, meno preciso, con macchie d'inchiostro che sbavano l'elegante, stretta calligrafia di suo padre.

Sospende per un secondo la ricerca di qualcosa di più consistente, afferrandolo e studiandolo attentamente. Cerca di decifrare le parole – è grande, lei! Sa già leggere, ed è anche brava! –, ma è difficile comprendere quel corsivo frettoloso... triste.

Qualcosa si capisce, però.
 

Elena,
mi sento ridicolo, seduto qui a scriverti una lettera. Perdona questo piccolo gesto da eroe tragico. [...]

 

Mentre legge, nell'angolo più buio della soffitta, un ricordo tremolante ed evanescente gioca a nascondino: appoggiato a uno scrittoio con una gamba rotta, un uomo dai capelli scuri è chino su una lettera da scrivere.

Quando la bambina alza lo sguardo, è già sparito. Forse non c'è nemmeno mai stato.

Elizabeth strizza gli occhi, tentando di continuare, ma è difficile. Abbandona il proposito, stranita. Cos'è un eroe tragico, poi? Non sembra bello.
Scuote la testa, rimettendo tutto a posto, attenta, e allungando nuovamente una mano per frugare il fondo del cassetto.

Quando le dita inciampano in un fagottino ripiegato in un angolo, corruga la fronte. È di stoffa, avvolto attorno a qualcosa e contenuto in una strana nicchia. Lo tira fuori, sollevando qualche sbuffo di polvere che le solletica il naso, facendola starnutire.

È un sacchettino piccolo, compatto, di velluto blu scuro, sfaldato e sporco di troppi anni passati in uno scomparto segreto. Pare molto, molto vecchio, e deve contenere qualcosa di assolutamente eccitante, se hanno dovuto nasconderlo.

Curiosa, Lizzie tira il laccetto di corda che lo chiude. Quello le si sbriciola quasi del tutto fra i polpastrelli, arreso alla prova del tempo.

Scuote le spalle, indifferente, mentre sbircia all'interno del sacchetto.

Un luccichio ammiccante le fa brillare gli occhi di aspettativa, mentre rovescia sul palmo un fermaglio d'argento brunito, che si impiglia per un attimo prima di cadere sulla sua mano. È delicato, di fattura fine ed evidentemente preziosa. Al centro, una perla, non molto grande, racchiusa in una rete di fili leggeri.

La piccola trattiene il fiato, stupita, lasciando scivolare a terra l'involucro e osservando con iridi assolutamente incantate la spilla.

È esattamente come immagina che fossero quelle delle principesse che, rinchiuse nei loro castelli, non potevano fare altro che agghindarsi al meglio per conquistare il cuore dei pretendenti.

Sospira, trasognata, rigirandosi il fermacapelli fra le mani e guardandosi intorno, alla ricerca di uno specchio. Appoggiato contro una parete, ne individua uno grande, a figura intera. Qualche secondo dopo è già lì davanti, intenta a sistemare il fermaglio fra i capelli con dita maldestre.

È un po' storto, mentre lancia un'occhiata al vetro e si vede riflessa, una bambina con una lunga chioma scura.

Abbassa di nuovo gli occhi, attirata per un attimo da un improvviso guizzo di luce – chissà su cosa si è riflessa – e, quando li alza di nuovo, quasi grida per lo spavento.

C'è una donna, dietro di lei.
Non pare vera: è come fatta di minuscoli, traballanti frammenti, che si scombinano e si rimescolano fra loro. Sembra senza contorni, senza confini.

Quando la bimba si volta, allarmata, l'altra si limita a sorriderle. Un sorriso triste, e bellissimo.
Il sorriso di una madre, o di una nonna. Ma è troppo giovane per essere nonna, no?

Il cuore di Lizzie batte talmente forte che lo sente nelle orecchie, le pulsa nelle tempie. Non capisce da dove sia arrivata, quando l'abbia raggiunta, come abbia fatto a entrare.
Titubante, accenna una domanda con voce acuta, diffidente. Non comprende, proprio non ci riesce.

«Chi sei... signora?» è qualcosa a metà fra lo spaventato e l'incuriosito, mentre inclina la testa di lato, guardandola, e aggrotta la fronte, tenendosi ancora lontana, per quanto le riesce.

La donna continua ad osservarla, lo sguardo azzurro – come quello di suo padre. Come il suo – che è tenero, e dolce, e semplicemente rassegnato mentre fa segno di no, schiudendo le labbra senza poter emettere suono.

Lizzie ha l'impressione che stia mormorando qualcosa, ma è un sussurro che si perde e si mescola ad altri milioni di bisbigli, da qualche parte troppo lontana per essere vera.
Corruga la fronte, abbassando la voce in un'altra domanda.

«Non puoi parlare?» lei nega ancora, confermando i suoi sospetti.

Liz nota solo ora che è vestita in modo strano: una lunga camicia da notte, le maniche di pizzo che le avvolgono i polsi sottili e la stoffa che le sfiora le caviglie in una carezza leggera.

Corruga la fronte, confusa, quando la donna alza le mani, accennando con un movimento leggero delle dita alla sua testa.

Lancia un'occhiata allo specchio da sopra la spalla, tentando di capire, e vede che il fermaglio è scivolato, instabile, ed è ormai decisamente storto.
Sospira, contrariata, voltandosi e armeggiando con la chiusura, sfilandolo e cercando di risistemarlo.
La donna le si avvicina un altro po', cauta, i polpastrelli che le sfiorano il capo senza fargliene avvertire.

Ora come ora, posizionata com'è, dietro di lei, è come osservare se stessa da adulta, tanto sono simili.
La vede strizzare gli occhi, concentrata, e poi sorriderle quando, con un piccolo movimento, il gioiello si raddrizza. Lizzie sgrana gli occhi, incredula e incantata.

«Una magia!» entusiasta, saltella sul posto, battendo le mani deliziata mentre la signora in pigiama si circonda il corpo con le braccia, scuotendo la testa. Sembra che stia cercando di scacciare un pensiero o che sia troppo addolorata per poter fare altro che quello.

La piccola si ferma immediatamente, ansiosa. L'altra si è fatta più frammentata, si scompone e perde i suoi contorni a una velocità allarmante. Pare lo schermo della televisione quando ci sono interferenze nella linea, anche se Lizzie sa che non è un paragone molto profondo e che quella donna è , in un certo senso, non a chilometri e chilometri di distanza.

Preoccupata, allunga una manina paffuta verso di lei, in un gesto che vorrebbe confortarla pur sapendo che non può sentire il suo tocco.
La donna la vede, e sorride di quel suo sorriso triste, accettando una carezza inesistente e avvicinandosi di un altro passo. Si china su Lizzie, baciandole la fronte.

È come una goccia d'acqua fredda, o un brivido insensato. Ma la bambina non fiata, composta.
Quando la donna si allontana, leggera, il viso le si illumina. Ha avuto un'idea meravigliosa.

«Signora, aspetta qui! Vado a chiamare il mio papà!» vuole fargli conoscere quella signora così gentile. Anche alla mamma, e al piccolo Ian. E anche a Mr. Puff, se lo trova mentre scende.

Senza aspettare risposta, Liz si precipita verso le scale, rischiando di ruzzolare mentre salta i gradini quasi a due a due, tanta è la fretta.

Il corridoio sembra molto corto, e quando irrompe in salotto, con un po' di fiatone, è certa di aver battuto suo padre e il tanto famigerato record di velocità che sbandiera ai quattro venti ogni volta che giocano in giardino. Dice che da giovane era un fulmine, più veloce del pensiero. Ma lei non ci crede: non esiste nulla più veloce del pensiero.

Ma lei è stata sicuramente molto veloce, e ne ha la conferma mentre quasi non riesce a fermarsi, rischiando di inciampare nel tappeto e finire direttamente in braccio ai suoi genitori.

Ma non sarebbe il caso, visto che dormono.
Accoccolati sul divano, la mamma con le gambe rannicchiate sui cuscini e con le braccia di lui strette attorno, e papà con i piedi sul tavolino – oh, la mamma non ne sarebbe per nulla contenta, se fosse sveglia – e una mano adagiata sul pancione prominente.

Forse dorme anche Ian, chissà.
Lizzie trattiene il respiro, per poi espirare con un leggerissimo sbuffo.

Non vuole farli alzare, ma è importante!

Li guarda per qualche altro secondo, indecisa.
Poi decide di evitare di far stancare la mamma.

Si avvicina al padre, allungandosi verso il suo volto e scoccandogli un bacio sulla guancia, mentre gli afferra le spalle e lo scossa appena.
Lui mugugna qualcosa, restio ad aprire gli occhi, ma lei è più insistente.

Alla fine, Damon Salvatore si arrende a sua figlia, voltandosi verso la piccolina con uno sguardo che dovrebbe essere minaccioso e invece è solo assonnato.

Sta perdendo colpi, decisamente. Ma non se ne preoccupa più di tanto, mentre la sua bambina, con voce agitata ma bassa, per non disturbare Elena che riposa, ignara, lì accanto, gli spiega che una presenza evanescente le ha fatto visita mentre frugava fra le vecchie cose che si erano portati dietro da Mystic Falls.

Considerando i precedenti suoi e della donna che ama, non può che sospirare, rassegnato, e annotarsi di domandare ad Elena se era consapevole del fatto che le inusuali capacità di suo fratello fossero ereditarie.
E lui che pensava di aver finito con le incursione soprannaturali.

Mentre si alza, delicato, scostando con attenzione Elena, appoggiandola allo schienale e lasciandole un bacio sulla fronte, mormora qualcosa a Lizzie che, impaziente, non riesce a stare ferma.

«Calma, Liz. Dai un minuto a questo povero vecchietto, su.» sorride. Quando annuisce, facendo cenno alla bimba che può iniziare a guidarlo, però, il sorriso si spegne sulle sue labbra.

Non sa come ha fatto a non notarlo prima, ma sui capelli scuri di lei brilla, ammiccante, un fermacapelli d'argento e perle.
Non avanza più. Si è fermato, incredulo e quasi boccheggiante.

Non può essere.

Semplicemente non può essere, non dopo tutto quel tempo.
Centosettantacinque anni sono parecchi. Sono troppi.
Non ha senso che succeda adesso, che la veda ora.

Non è pronto, non sarà mai pronto a rivederla.

E come potrebbe, dopo aver passato un secolo e mezzo ad uccidere, a giocare al cattivo, a portare rancore?
Un secolo e mezzo di odio non si cancella così, con uno schiocco di dita o anche con dodici anni di redenzione.
Come può presentarsi davanti a lei così?

Come può lei amarlo ancora?

Chiude gli occhi, cercando di convincersi che è solo un caso, che è sicuramente un altro fantasma, ma le parole che gli arrivano alle orecchie, da qualche parte un po' più avanti, non lasciano spazio a molti dubbi.

«Dai, papà! Devi conoscere la signora della soffitta! Ti assomiglia, sai?» la bimba gli agita una mano davanti al naso, saltellando per riuscire a raggiungerlo. È incuriosita, speranzosa.
Damon Salvatore si riscuote, riappropriandosi di una maschera che non utilizzava da tempo.

Sorride e la prende in braccio, facendola ridere, e le chiede di fargli strada anche mentre è seriamente tentato di abbandonare tutto e scappare.
Ma non è mai fuggito, e non inizierà certo ora, mentre sale le scale che conducono alla soffitta.

Un gradino. Un altro.
Molto lentamente, tanto da suscitare uno sbuffo da parte di Liz.
Lui non riuscirà nemmeno a vederla, ne è certo.
L'ultimo gradino, e la soffitta è davanti a lui, con tutta la sua polverosa memoria.

Un paio dei vecchi abiti di Elena, lo scrittoio, il cassettone della sua stanza, a Mystic Falls, con un cassetto mezzo aperto che sembra una bocca spalancata.
Uno specchio, in un angolo, il lenzuolo che lo copriva che si aggrappa disperato allo spigolo in alto a sinistra.

Non c'è nessuno.

Lizzie si dimena fra le sue braccia, scalciando per scendere.
Lui la accontenta, mettendola giù e vedendola correre proprio verso il suddetto specchio.

Si ferma un paio di metri prima di raggiungerlo, gesticolando animatamente mentre sembra cercare di convincere qualcuno – perché, perché si sente come se potesse notarla comparire da un momento all'altro quando sa di non poterla vedere?
Quando nota la bimba corrugare le sopracciglia, scontenta, si chiede cosa lei le abbia fatto capire.

Ma quando Liz torna verso di lui, afferrandogli una mano e trascinandolo verso lo specchio, non è più troppo certo di volerlo sapere davvero.

«Papà, la signora dice che non puoi vederla, che devi venire vicino allo specchio.» la piccola è determinata, e pare incredibilmente più forte di lui. O forse è l'istinto paterno che la asseconda, nonostante lo stomaco sia aggrovigliato – ricorda ancora la sensazione di un paletto piantato nel ventre, e quella che sta provando al momento è molto, molto simile – come un nido di serpenti e la testa si rifiuti di credere che sta per succedere.

Liz lo piazza davanti alla superficie riflettente, e non c'è più scampo.

Serra un attimo le palpebre. E poi si arrende, ansiosamente e a malincuore. Vorrebbe lottare, ma non ha più molto senso. E lui non è mai stato un uomo dedito alle azioni inutili – o meglio, sì. Lo è stato, ma ora non ha la forza di esserlo.
Apre gli occhi, gettando un'occhiata cauta da sopra la spalla.

Sua madre è lì, in piedi dietro di lui, con il viso pallido ed etereo, il sorriso tenero che ricorda, le iridi identiche alle sue e a quelle di sua figlia.
Gli occhi azzurri, o chiari in generale, non sono un gene dominante, ma i Blanchard li hanno sempre avuti.

Lei lo guarda, un'espressione che non è di ribrezzo, o di puro, incandescente odio.
È la stessa di sempre, quella che gli riservava quando si rifugiava nel suo abbraccio, nelle notti d'inverno, o quando anche le stava fra i piedi, in cucina, mentre preparava un dolce per fare una sorpresa a Giuseppe.

Damon Salvatore espira, lentamente, senza distogliere lo sguardo.
Elizabeth Salvatore fa un passo avanti, incurante della forma incorporea e, semplicemente, lo stringe a sé.

Non la avverte, non fisicamente: non può.

Ma quando la donna appoggia la fronte al suo collo, inspirando profondamente, è un calore che quasi non ricorda più quello che serpeggia silenzioso nel suo stomaco arrotolato, rilassandolo e distendendolo e facendo salire agli occhi lacrime prontamente respinte. Non può piangere davanti a Liz, che lo osserva, stranita; eppure sembra capire che quello è un momento speciale, intimo, perché si tiene a distanza, girovagando per la soffitta e sorridendo appena.

Papà sembra triste, ma sorride anche lui.

Damon si lascia sfuggire un sussurro, traboccante sollievo. Ma anche dolore, e mancanza, e timore di un giudizio che non arriverà.

«Mamma.» la parola gli brucia la bocca. Fa male dirlo di nuovo dopo tanti anni, per la prima volta.
Lei vorrebbe mormorare qualcosa, ma le sue parole non possono arrivare alle orecchie dei vivi.

Si limita ad annuire.
Ha capito, ha visto. Sa, e non le importa.

Rimangono così per qualche secondo, immobili e sofferenti per motivi diversi, che eppure li accomunano.
Poi Elizabeth si allontana, irrigidendosi.

È rimasta troppo, e ora deve andare.
Il suo bambino – l'uomo che è diventato il suo bambino – stringe i pugni.

Ha capito anche lui che il tempo è scaduto.
Non la guarda andarsene.

E forse è solo un'illusione, un'allucinazione uditiva, ma gli sembra di udire un distinto, addolorato “ti voglio bene, angelo mio” – solo lei lo chiamava così, e solo lei potrebbe continuare a farlo ora, dopo tutto – prima che un soffio d'aria gelata gli accarezzi la schiena.

Infine, svanisce anche quello, e di lei non rimane più nulla.

Solo un vecchio fermaglio incastrato nella chioma inestricabile di sua figlia, e la sensazione di calore che si intensifica quando Lizzie gli fa una domanda con voce acuta, incerta sulla sua reazione.

«Mi racconti di nonna Elizabeth, papà?»

   
 
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