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Autore: Imp    08/11/2013    6 recensioni
Ricorda. Qualsiasi cosa, ma non l'ordinario, per quelli come noi.
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Teen!lock - Birmingham, college a due ore da Londra. Sherlock Holmes, adolescente emarginato ma geniale, si deve preparare a dividere la stanza con un ragazzo nuovo che sta per arrivare e a tenere d'occhio l'unico che potrà mai tenergli testa, Jim Moriarty. Sarà più facile indagare sul mondo esterno o sulla parte di se stesso che nessuno, fino ad ora, è mai riuscito a sfiorare?
Genere: Introspettivo, Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: Jim Moriarty, John Watson, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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1. Anything but ordinary



To walk within the lines
would make my life so boring
I wanna know that I’ve been
to the extreme. 

 
Prima di uscire Jim Moriarty si guardò a lungo allo specchio. Aveva passato quasi tutta la notte con ago e filo in mano, strizzando gli occhi alla fievole luce della lampada sul comodino, cercando di rendere più dignitosa la divisa scolastica che pendeva in modo strano sul suo corpo troppo magro. Si era mosso in silenzio per non svegliare i propri compagni di stanza, rapido e accorto come un falco, le mani che correvano sulla stoffa con gesti esperti. Aveva sempre avuto un debole per la sartoria, e, nonostante sarebbe morto piuttosto che ammetterlo, conservava gelosamente sotto il materasso un vecchio catalogo di completi da uomo firmati Westwood.
Ora però, sorrise allo specchio, gli sforzi erano ricompensati: il cotone poco pregiato della camicia bianca seguì il profilo dei suoi gomiti quando fletté le braccia, senza ammucchiarsi disordinatamente nei posti sbagliati mettendo in evidenza il suo torace gracile e le sue clavicole sporgenti. Quando provò a fare un passo non poté soffocare la lieve risata che gli nasceva in gola. I pantaloni gli avvolsero le gambe come un abbraccio a lungo desiderato, naturali ed eleganti tanto da sembrare appena usciti da un negozio di alta moda. Pienamente soddisfatto, Jim allungò una mano alla cieca verso la sedia vicino a lui e strinse le dita sulla stoffa sottile della cravatta. Non ebbe bisogno neanche di girare la testa: sapeva che sarebbe stata lì. Ogni singolo oggetto di sua proprietà, infatti, era sistemato nella parte di stanza che gli spettava in perfetto ordine, seguendo un preciso schema che esisteva solo nella sua mente. Non gli importava che gli altri non capissero o che lo prendessero in giro; sapeva che prima o poi avrebbe trovato un modo per vendicarsi. L’unica cosa importante era che non toccassero nulla e che non una singola penna fosse fuori posto. Non ricordava esattamente quando la posizione delle cose avesse cominciato ad essere così importante per lui, ma poteva datare vagamente il periodo: doveva avere più o meno sette anni, poco dopo la morte dei suoi genitori. O era iniziato prima? Non ci aveva mai riflettuto. Gli bastava sapere che, qualsiasi filo della rete avesse tirato, avrebbe sempre potuto prevederne l’effetto. Quindi, muovere il braccio ruotandolo di un numero preciso di gradi verso l’esterno gli avrebbe permesso di prendere la cravatta; voltandosi e facendo tre passi e mezzo verso la porta si sarebbe trovato con il braccio sospeso sopra la cartella di cuoio che conteneva il corredo scolastico; prima di andare a dormire avrebbe appoggiato il cellulare sul comodino esattamente a metà strada fra gli occhiali da lettura e la lampada consunta che rimaneva accesa troppe volte fino a tardi.
C’era solo una persona cui era permesso rompere le linee e riversarsi disordinatamente fuori dai margini: lui stesso. Il controllo maniacale che esercitava su ciò che gli stava intorno era un modo per compensare il ritmo frenetico e assolutamente non metodico della sua mente, e più essa lavorava a pieno ritmo più il mondo andava tenuto a freno. Proprio perché Jim credeva nella propria intelligenza più che in qualsiasi entità superiore era anche consapevole dei propri – pochi – limiti: le immagini partorite dal cervello erano per la maggior parte del tempo la sua realtà quotidiana, più vere di qualsiasi cosa potesse percepire con i sensi, l’unica cosa alla quale potesse affidarsi ciecamente. Non dubitava mai dei sussurri che si rincorrevano nella sua scatola cranica, del saltapicchiare di concetto in concetto, di idea in idea, senza mai chiudere del tutto nessun capitolo. Lì, nell’unico luogo che considerava autentico, non c’erano rigide catalogazioni, tabelle, progetti preesistenti. Tutto fluiva continuamente, familiare e quasi rassicurante, senza lasciarlo mai solo. La sua mente non l’avrebbe mai abbandonato né tradito.
Molte persone si lamentavano di come avessero bisogno di spegnere il rumore della propria mente per concentrarsi sul mondo esterno, su quello che facevano. Per lui era sempre stato il contrario: l’unico suono che valesse la pena ascoltare era dentro di lui, persistente e martellante, e quello che accadeva al di fuori era ridotto ad un trascurabile brusio di sottofondo.  
“Jim! Diavolo, sei ancora lì?”
La voce di uno dei suoi compagni di stanza, però, riuscì a penetrare la sua barriera di pensieri insinuandosi su per le scale foderate di moquette verde bottiglia. Jim lasciò andare un sospiro cui non avrebbe saputo attribuire un aggettivo e, con un’ultima occhiata allo specchio, uscì dalla camera. Chiuse la porta e lasciò scivolare la chiave in tasca, sfiorando lentamente i punti che le sue mani affusolate avevano ricucito.
Nonostante fosse solo novembre, l’aria fredda del mattino di Birmingham si rivelò tagliente sulla sua pelle chiara. Da sempre si rifiutava di prendere con sé una giacca o di indossare una sciarpa quando andava a lezione, in quanto l’unica cosa che separava il college vero e proprio dall’ala in cui si trovava la sua camera era l’attraversamento di una strada. Represse il brivido di freddo che minacciava di corrergli lungo la spina dorsale con una scrollata di spalle, e si affrettò verso la porta della scuola. Dal momento che la via che separava il corpo principale dell’edificio dai dormitori maschili non era privata, era necessario immettere un codice di cinque cifre per accedere in entrambi i luoghi. Tutti i suoi compagni si lamentavano sempre di non riuscire a ricordarlo, e odiavano che dovesse cambiare ogni mese per questioni di sicurezza. Jim lanciò un’occhiata all’orologio: la scadenza mensile risaliva al giorno precedente, e dunque la combinazione era cambiata. Un sorriso sghembo gli sollevò l’angolo destro della bocca. Niente di meglio che un piccolo puzzle per iniziare la giornata.
 

* * *

 
So knock me off my feet
Come on now,
give it to me
Anything to make me feel alive. 

 
“A che ora hai detto che hai l’intervallo di pranzo?”
“Non l’ho detto.”
“Beh, comunque potrei aspettarti. Sì, insomma, se ti va. Io finisco lezione alle…”
“Ti risparmio l’umiliazione e l’imbarazzo di chiedermi se voglio pranzare con te premettendo che la risposta sarebbe negativa.”
Sherlock Holmes svoltò a sinistra lungo il corridoio, chiedendosi distrattamente come facesse Molly Hooper a stare al passo con lui. Li separavano più di venti centimetri di altezza e diversi anni luce sul piano intellettuale, eppure, in un modo o nell’altro, ogniqualvolta si spostava da una classe all’altra, la ragazza trottava sempre al suo fianco. Se all’inizio la cosa l’aveva irritato fino all’inverosimile, ora non ci faceva quasi più caso: quella figura mingherlina era diventata una presenza fissa nella sua vita, ma  lui la considerava comunque al pari di una giacca in un giorno caldo: può rivelarsi utile in caso il tempo cambi improvvisamente, ma di solito risulta ingombrante e poco funzionale.
Sherlock continuò a camminare senza prestare attenzione al fatto che il viso di Molly era avvampato e che la ragazza stava incespicando sconvolta. Per la prima volta dopo tanto tempo, infatti, quasi tutti i suoi pensieri erano concentrati sullo stesso argomento: mancava solo più un giorno, ormai, all’arrivo del suo nuovo compagno di stanza. Il preside l’aveva convocato più di una settimana prima per avvertirlo, nonostante Sherlock avesse già intuito cosa stava per succedere.
Era seduto in una delle ultime file durante la lezione di chimica, intento a cancellare dal libro le parti superflue e a correggere a penna gli errori stampati davanti ai suoi occhi – perché la gente non è in grado di pensare? –, quando qualcuno aveva bussato alla porta dell’aula. Un ragazzo dell’ultimo anno aveva aperto la porta quel tanto che bastava per riferire il messaggio: “Holmes è pregato di recarsi in presidenza non appena il docente dell’ora gliene accorderà il permesso.” Il professore si era limitato ad un vago cenno del capo che Sherlock aveva interpretato come un consenso. Era stato accompagnato alla porta dalle risate soffocate e dai ghigni degli altri studenti, che al suo passaggio si davano gomitate e sussurravano a mezza voce frasi perfettamente udibili.
“Chissà, forse si è messo nei guai davvero…”
“Dici che questa volta ce ne liberiamo?”
“Freak.”
“… la lezione ora è sopportabile.”
Aveva chiuso la porta con un colpo secco e si era incamminato verso l’ufficio del preside, senza fretta. Avrebbe potuto anticipare tutto ciò che il vecchio docente seduto alla scrivania di mogano stava per dirgli.
“Signor Holmes, prego, si accomodi.”
Le labbra di Sherlock si erano contratte in un sorriso sardonico che non era arrivato a sfiorargli gli occhi. Non sapeva se essere divertito o distrutto dal fatto che il preside, il signor Harper, e come lui molti insegnanti, continuasse a trattarlo come un grave caso psichiatrico. Per quanto ne sapeva lui – e vi erano poche cose all’interno della scuola di cui Sherlock non fosse a conoscenza – nessuno studente aveva mai ricevuto quel tipo di trattamento prima di dover accogliere un nuovo compagno di stanza.
Il signor Harper si era sforzato di sembrare a proprio agio, forse per cercare di infondere sicurezza negli occhi distaccati e freddi del ragazzo allampanato che gli sedeva di fronte. “Allora,” un colpo di tosse a coprire il silenzio imbarazzato, “come procedono le sedute… ehm… con il nostro psicologo?”
Non c’è niente di sbagliato in me. “Signor Harper, con tutto il dovuto rispetto, mi permetto di risparmiare ad entrambi questa conversazione che palesemente vorremmo evitare.”
Le guance del preside erano andate a fuoco all’istante. Una mano era subito corsa alla cravatta, allentandone il nodo per consentirgli di respirare nonostante l’affanno. “C-come ha detto, scusi?”
Sherlock aveva fatto scrocchiare le nocche e si era concesso un istante per ascoltare come il rumore di ossa risuonasse nell’opprimente stanza poco illuminata. “È chiaro che sta per dirmi che avrò un nuovo compagno di stanza.” Pausa ad effetto per ammirare lo sconvolgimento che si era dipinto sul viso dell’uomo. “Ed è altrettanto chiaro che è preoccupato dal fatto che possa fare la stessa fine dei sette che l’hanno preceduto.”
Il preside aveva tratto di tasca un ampio fazzoletto di lino col quale si era asciugato la fronte. Era come se avesse corso una maratona anziché aver avuto un semplice colloquio con un ragazzo che doveva avere circa quarantacinque anni meno di lui. “Beh, signor Holmes, vedo che come al solito è difficile tenerle nascosto qualcosa…” Aveva abbozzato un sorriso, sperando forse che Sherlock si sarebbe mostrato gentile di rimando.
Non lo aveva fatto. “Diciamo che quando si rivolge a me può cancellare la parola nascosto dal suo sicuramente ricco e dettagliato vocabolario.” Il sorriso si era appiattito in una smorfia sarcastica. “Sicuramente, considerati i miei ormai ufficiali disturbi psicologici,” si era costretto ad ingoiare l’amarezza cresciuta all’altezza della bocca dello stomaco, “non posso prometterle niente. Né è mia intenzione. Non mi interessa che le persone non riescano ad adeguarsi a passare del tempo con me. Non mi interessa che ci sia o no una forma di vita più o meno intelligente che giace nella mia stanza occupando spazio prezioso. Non mi interessa ciò che lei ha intenzione di dirmi. Né ora né fra un paio di mesi, quando questo ragazzo che sta per arrivare sarà un ricordo lontano e lei starà cercando di preparare il terreno per una nuova vittima sacrificale costretta a dividere il suo spazio vitale con me.”
Sherlock aveva finito di parlare e inspirato con forza. Quando cercava di esporre l’infinita lista di pensieri che si affollavano nella sua mente si ritrovava spesso senza ossigeno nei polmoni: lo sforzo di concentrazione che ciò gli costava era talmente grande da far passare in secondo piano il bisogno di respirare.
Il silenzio teso era stato rotto dall’ansimare del signor Harper. “Ti chiedo solo una cosa, Sherlock.” Questa volta il suo tono era stato più adulto, come se finalmente avesse capito che si stava rivolgendo ad un suo pari.
Sherlock aveva drizzato la testa, colpito dal fatto che avesse usato il suo nome e la seconda persona singolare. “Non le mentirò dicendo che farò il possibile per rispettare la sua richiesta.”
Il preside aveva allontanato le sue parole con un vago movimento della mano. “Cerca almeno di provarci. Hai diciassette anni, per Dio. Dovrebbe importarti di quello che la gente pensa di te. Cerca di costruire almeno una relazione… normale nella tua vita.” I suoi occhi erano sembrati pericolosamente lucidi, ma la voce era suonata ferma come non mai. “Ne hai proprio bisogno.”
 

* * *

 
Quando Sherlock uscì dalla classe e si diresse verso la mensa trovò Molly ad aspettarlo davanti al tavolo su cui era appoggiata in precario equilibrio una pila di vassoi arancioni. Senza degnarla di uno sguardo ne prese uno e osservò con vivo interesse lo strato di polvere che ne ricopriva la superficie.
“Polvere… la polvere è eloquente.” disse, a nessuno in particolare. Sfiorò con l’indice la scadente plastica colorata e il suo cervello assorbì rapidamente le informazioni che la riguardavano. Chissà, in seguito avrebbero potuto rivelarsi utili. Lo soppesò fra le mani, chiedendosi come mai la scuola avesse reputato più conveniente comprarli direttamente dalla fabbrica piuttosto che all’ingrosso all’angolo. Nessuno dei vassoi presenti sul tavolo, infatti, riportava un bollo d’acquisto che…
“Oh, scusa, non ti avevo visto!”
Improvvisamente qualcosa urtò con forza contro il lato destro del suo corpo, facendogli cadere il vassoio dalle mani. Molly, al suo fianco, sussultò sorpresa. Sherlock sollevò gli occhi, irritato, giusto in tempo per vedere il ragazzo che l’aveva spinto scoppiare a ridere di gusto.
“O forse ti ho visto ma non mi importava.” Un sorriso stupido andava allargandosi sul suo volto inespressivo. “Cos’è, strambo, hai perso le parole? Strano, di solito ne usi fin troppe.”
Sherlock si chinò a raccogliere il vassoio, la rabbia che lasciava il suo viso rendendolo una maschera inespressiva. “Di certo non ne ho da sprecare per te, anche perché non ne capiresti circa il novantotto virgola tre per cento.” Sorrise un sorriso solo denti. “E sia chiaro che è una stima ottimistica.”
 L’altro ragazzo aggrottò la fronte, senza capire se era appena stato insultato oppure no. I suoi occhi corsero al suo gruppo di amici che lo andava distanziando nella coda per la mensa. Sembrava sempre più confuso e quindi sempre più in collera; tornò a fissare Sherlock e sputò fra i denti: “Puoi dire quello che vuoi, strambo, tanto sai che è l’unico modo che hai per proteggerti.” Scoccò un’occhiata a Molly. “E tu, sfigata, farai meglio a lasciarlo perdere se non vuoi finire sola come lui.” Apparentemente molto soddisfatto di sé, il ragazzo li lasciò senza degnarli di un’ulteriore occhiata.
Sherlock lo seguì con lo sguardo, poi posò il vassoio dove l’aveva preso senza proferire parola.
“Non mangi?” Il tono di Molly pareva più sollevato che preoccupato, come se stesse presentando un dato di fatto piuttosto che una domanda.
Sherlock non rispose, decidendosi a guardarla come non aveva mai fatto in mesi di reciproca sopportazione. Una parte periferica e poco importante del suo cervello si era  domandata cosa avesse spinto una ragazzina tutto sommato nella norma a passare più di metà del proprio tempo alle calcagna di un emarginato come lui; e Sherlock era sicuro che sarebbe arrivato alla soluzione di questo mistero, se solo non fosse stato così terribilmente banale e privo di ogni attrattiva. I sentimenti delle persone gli interessavano solo quando avevano un qualche tipo di influenza sui casi di cui gli piaceva pensare di occuparsi, che erano in realtà poco più che notizie apprese dai quotidiani locali. Ma quando si trattava di emozioni fini a se stesse, come nel caso di Molly Hooper, allora no, agli occhi di Sherlock non significavano nulla. Il suo cervello le recepiva, così come faceva con qualsiasi stimolo proveniente dall’esterno, e le relegava in una piega nascosta che non aveva ancora capito bene come utilizzare.
Quindi ecco che, davanti ad una ragazzina con occhi da bambola e le mani nascoste nelle maniche del maglione troppo grande, Sherlock Holmes si ritrovava impotente.
Molly sbatté rapidamente le palpebre, sentendosi a disagio sotto il suo sguardo. “B-bene, allora io vado a prendere… qualcosa da mangiare. Sì, ecco. Io… vado.” Voltò le spalle a Sherlock e si allontanò velocemente, con passo malfermo, stringendo al petto lo stesso vassoio che lui aveva posato sul tavolo qualche attimo prima.
Sherlock rimase per qualche secondo in piedi in mezzo alla sala, senza sapere se rimettersi in coda, sedersi ad un tavolo – da solo – o semplicemente andare in biblioteca e fare due chiacchiere con la vecchia signora dietro il bancone, mrs. Hudson. Alla fine le sue gambe lo portarono verso uno dei lunghi tavoli che occupavano la sala mensa, illuminati dalla fredda luce di novembre che invadeva lo spazio attraversando le ampie finestre. Si appollaiò su uno sgabello, la mente ancora concentrata sul misterioso punto interrogativo che, di lì a poche ore, avrebbe finalmente avuto un nome e un volto; volto che si supponeva avrebbe dovuto sopportare per almeno un paio di settimane.
“Allora, ti hanno almeno detto come si chiama?”
Sherlock non avrebbe avuto bisogno di voltarsi per capire a chi apparteneva la voce, ma lo fece comunque. Un ragazzo esile prese posto sullo sgabello accanto al suo senza guardarlo in faccia. I suoi enormi occhi scuri fissavano il cielo al di fuori dei vetri, guardavano oltre. Ma era un luogo che anche Sherlock riusciva a raggiungere.
Jim Moriarty si rigirò fra le mani una mela e ne staccò un grosso morso. Socchiuse gli occhi, parendo quasi rapito dal rumore del suo masticare, e cominciò a tamburellare con le dita sul ginocchio. “Andiamo, Holmes junior, non farti pregare. Sappiamo entrambi che da domani avrai un nuovo compagno di stanza.”
Per la prima volta nella giornata, il volto di Sherlock si aprì in un vero sorriso. Non aveva mai menzionato l’avvenimento al compagno. Eppure quello sapeva. “No, non vogliono che ne sappia niente.”
“Ma scommetto che l’hai già scoperto, eh?” Jim regalò a Sherlock il ghigno di chi sa di aver ragione. “Non c’è niente che si possa tenere nascosto ai fratelli Holmes.” Scosse la testa come un burattino rotto, e cantilenò più volte sottovoce: “Niente, niente, niente…”
“E tu lo sai meglio di me, Moriarty.” Sherlock sollevò lo sguardo e vide con la coda dell’occhio Molly che si avvicinava al loro tavolo in compagnia di un ragazzo piuttosto alto con la divisa spiegazzata. Non si curò di loro e tornò a rivolgere la propria attenzione a quello che gli sedeva accanto. “Mio fratello mi ha detto che non gli lasci un minuto libero. Come lo dovrei chiamare?” Fece schioccare le labbra e lasciò andare la parola come un coltello: “Amore?”
Jim diede un altro morso alla mela e soffocò una risatina sarcastica. “Oh, caro Sherlock, cosa vuoi saperne tu?” Poi, di scatto, si voltò a fissarlo negli occhi, un’espressione mortalmente seria sul viso. Uno strano brivido scese lungo la spina dorsale di Sherlock. Jim indicò con un vago gesto della mano Molly e il ragazzo che ormai li avevano quasi raggiunti. “Bene, sta arrivando la tua corte dei miracoli. Sarà meglio che vada.”
Sherlock socchiuse gli occhi e lo guardò appoggiare la mela sul tavolo. Gli bastò un istante per cogliere i particolari; sorrise di nuovo. “Quante ore ci hai messo per cucirla così attentamente?” Indicò la divisa del ragazzo, ora di fattura decisamente migliore rispetto a quelle di tutti gli altri studenti.
Jim inclinò la testa di lato. Pareva quasi lusingato dal fatto che Sherlock l’avesse notato. “Quanto era necessario.” Poi, di nuovo una strana fissità nello sguardo, si chinò su di lui e gli sussurrò all’orecchio: “Ricorda. Qualsiasi cosa, ma non l’ordinario, per quelli come noi.”
 
I’d rather be anything
but ordinary, please.
Anything but 
ordinary. 




Angolo autrice
Ok, se avete avuto la pazienza di leggere fino a qui vi ringrazio. Immagino avrete già capito chi sarà il nuovo compagno di stanza di Sherlock: dal prossimo capitolo il nostro amato consulting detective sarà totalmente preso alla sprovvista dalla piega che prenderanno gli eventi, e tutto si evolverà con lui. 
Ho cercato di descrivere la psicologia di Moriarty come l'ho sempre immaginata, anche se nella serie non è ovviamente approfondita come quella di Sherlock o John.
Se vi è piaciuta lasciatemi una recensione e... aggiornerò il prima possibile :)
xoxo,

Sof

 
  
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