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Autore: Andy Black    10/11/2013    5 recensioni
One shot legata ai personaggi di Back to the Origins.
Uno scorcio di vita che si vorrebbe dimenticare, ma... la vita è fatta anche di macchie nere
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Manga, Videogioco
- Questa storia fa parte della serie 'Pokémon Courage'
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- Universo X -
 
Un tuono rombò in quella casa buia e silenziosa.
Solo due respiri s’avvicendavano, educatamente, senza sovrapporsi.
“Ti supplico” fece Irya, stringendo le mani di sua sorella Marta. Quella portò i capelli castani dietro il collo, fissandola ardentemente con le sue iridi cremisi.
“Sei... sei sicura? Hai idea di quello che mi hai chiesto? Dopo potresti pentirtene... Insomma, è tua figlia”.
Irya non riuscì più a trattenere le lacrime, sentendo la disperazione squassarle l’animo dall’interno.
Sentì sua sorella continuare a parlare, mentre le stringeva le mani. Marta era sempre stata la più matura, quella che prendeva le decisioni dopo un’attenta valutazione.
“Lui ti ha davvero detto quelle parole?”
“Sì. Sono riuscita ad uscire, questo pomeriggio, senza farmi vedere dai suoi uomini. Ed ora devo fare presto, altrimenti potrebbero scoprirci e venire qui”.
“Credo che non sia la soluzione migliore. Forse dovremmo chiamare la polizia e...”.
“Ma sai quanti soldi possiede?! Potrebbe corrompere chiunque... Marta, ti prego... Se te lo sto chiedendo vuol dire davvero che non ho altra scelta”. Irya aveva il trucco sciolto sul volto, con gli occhi azzurri che sembravano piangere lacrime nere sulle guance arrossate. Aveva i capelli corvini, quella sera di Novembre, legati in una coda disordinata, con molti ciuffi lunghi e corti che le ricadevano sul collo. Indossava una felpa bordeaux con cappuccio, e su aveva un disegno di un bulldog col cappellino dei Metz.
Era disperata, e Marta lo vedeva. La sorella maggiore era rimasta immobile per qualche secondo, soppesando ogni possibilità. Guardava il dolce viso di sua sorella stretto in una smorfia di dolore, come non l’aveva mai vista, e quindi comprese appieno la gravità della situazione.
Doveva decidere velocemente il proprio futuro, quello della sorella.
Quello di sua nipote.
Avrebbe dovuto crescerla come una figlia.
“Ed ora la piccola dov’è?”.
“Con le suore, in chiesa, a Primaluce”.
“Lionell non verrà subito qui, secondo te?”.
Io e Lionell ci stiamo trasferendo ad Alola fino ai diciott’anni di Rachel... un posto tranquillo, insomma”.
“Ma Rachel sarà qui con me”.
“Lo so. Ecco perché, grazie alle suore, riuscirò ad adottare una bambina, pressappoco della stessa età di Rachel”.
“Quindi...” sospirò Marta “Lionell penserà di avere davanti a sé sua figlia ma in realtà...”.
“In realtà mia figlia sarà qui con te. E lei non dovrà mai sapere nulla di questa storia, Marta. Io...” e le lacrime cominciarono a scendere per non fermarsi più.
Marta la comprendeva, quasi sentiva attraverso la stretta delle sue piccole mani dalle unghie mangiucchiate il dolore che provava. Un dolore non del corpo, ma del cuore.
Ascoltava i gemiti della sorella e capiva che non avrebbe potuto fare nulla per fare in modo che quella giovane madre non si dividesse da sua figlia.
“Scusami...” faceva Irya, con il labbro inferiore stretto tra i denti. Pulì le lacrime sporche con la manica del maglione e vide anche sua sorella non riuscire più a trattenere il pianto.
“Va bene...” disse Marta, stringendo la sorella minore in un abbraccio che serviva ad entrambe. Si voltò, mentre Ryan, suo figlio, cinque anni di vitalità e sorrisi infantili, dormiva sul divano, in attesa che suo padre tornasse da lavoro.
Gli occhi di Irya si riempirono di triste sollievo.
“Grazie. Andrò a prenderla subito, se per te va bene”.
Marta annuì. “Verrò con te”.
“No, stanne fuori. Se dovesse vederti sarebbe la fine”.
 
E quindi uscì fuori, Irya, nella tempesta.
Entrò nella BMW blu di John e mise in moto immediatamente. Non sapeva guidare quella macchina così grande.
Inoltre aveva il cambio manuale, e lei era abituata con quello automatico.
In quel momento però doveva correre, far presto, quindi ripassò tutte le nozioni che suo marito le aveva dato sulla guida con quelle dannatissime auto europee e fece retromarcia, per poi accelerare velocemente, facendo stridere le gomme.
Non sentiva il pieno controllo dell’auto, infatti sbandò un paio di volte prima di prendere pieno controllo della vettura. La radio s’accese da sola, facendo partire Confortably Numb dei Pink Floyd.
Magari, pensò. Senza responsabilità, senza preoccupazioni. Soltanto una vita tranquilla, nascondendo a tutti il proprio segreto, come aveva sempre fatto fino a quel momento.
Accelerò ancora, imboccando l’autostrada panoramica, che girava attorno alla lunga costa dell’isola d’Adamanta. Uscì da Timea velocemente, accelerando e sentendo il motore urlare sotto il cofano. Avanzò la marcia, trasmettendo la quarta, e poi la quinta.
Corsia di sorpasso fissa, la pioggia cadeva e faceva muro, ostruendo qualsiasi cosa ma Irya continuava a correre, incosciente e noncurante di ciò che sarebbe potuto succederle.
Raggiunse i duecento chilometri orari, quasi cinquemila giri del motore ed inserì la sesta, e intanto il ritornello della canzone la faceva cadere in uno stato irrequieto di consapevole disperazione.
“Avrei dovuto evitarlo, prima di partorire avrei dovuto fare qualcosa!” urlò a se stessa. “Avrei dovuto ucciderlo, o dirlo prima a Marta. Magari John l’avrebbe fatto ragionare! Invece sono rimasta in silenzio, ed ora Lionell vuole uccidere la mia bambina!” piangeva. “Sono una stronza! Una merda!”.
Immaginava le mani di Lionell sul corpo di sua figlia, poi sulla sua pelle e quasi aveva voglia di strapparsi la carne da dosso.
Quell’uomo la repelleva.
L’uscita per Primaluce fu raggiunta molto velocemente. Scalò, il motore si disperava sotto le sue mani inesperte, quindi frenò e tornò nella corsia di destra, facendo spaventare una coppia anziana in una vecchia Matiz rossa; il vecchietto che guidava rimase attaccato al clacson per quattro secondi buoni, prima di vedere quell’arrogante auto tedesca sparire oltre la rampa d’uscita.
I pensieri di Irya continuavano a vorticare mentre si immetteva nella piccola cittadina, adeguando la velocità dell’auto. Il cuore le batteva impazzito nel petto e voltò a sinistra, entrando nella piazza.
Non ci mise molto ad arrivare in chiesa, quel pomeriggio.
La zona era deserta, erano le diciotto e in quella giornata di quel freddo inverno la pioggia radente batteva sul cortile del piccolo sagrato. Scese dalla macchina dopo aver parcheggiato di traverso e lasciò le chiavi vicino, quindi si mosse verso l’ingresso dell’edificio con la vecchia croce di ferro battuto sulla porta. Calpestò un giornale vecchio ed affondò poi i piedi in una profonda pozzanghera, inzaccherandosi totalmente i pantaloni della tuta fino alla caviglia sottile. Entrò e camminò velocemente, sentendo i suoi passi bagnati risuonare lungo la navata centrale. Oltre ad una vecchia donna che sgranava un rosario sulla prima panca a destra non c’era nessuno. Con ancora il cappuccio alzato salì sull’altare e poi passò oltre, aprendo la piccola porta che dava alla sagrestia.
Appena entrata vide un grosso dipinto che raffigurava la Battaglia del Plenilunio; s’intravedevano un Haxorus ed un Noctowl, sulla tela, oltre ad un numero spropositato di spade brandite da uomini con le armature candide e lance strette da soldati con gli elmi neri.
Non si curò dello sguardo della donna anziana e passò oltre, arrivando in un lungo corridoio buio.
La pioggia batteva sulle finestre in alto ed un tuono deflagrò come una bomba, poco lontano da lei.
Proseguì, soltanto il suo passo inzuppato risuonava nel lungo corridoio, fino all’ultima porta.
Non bussò neppure e l'aprì.
“Rachel dov’è?” domandò, senza salutare.
L’anziana suora che la teneva in braccio le fece cenno di far silenzio. “Sta dormendo”.
“Ha pianto tutto il tempo” rispose un’altra, considerevolmente più giovane, con gli occhiali doppi sul naso.
Il parroco era in piedi, silenzioso e con le mani raccolte dietro la schiena; guardava la pioggia attraverso la finestra.
“Come farai, Irya?” domandò lui.
“Marta ha detto di sì”.
Si girò, l’uomo aveva poco meno di settant’anni, i capelli totalmente candidi e gli occhi di un uomo stanco che non aveva visto nulla della vita ma che vi aveva raccolto tutto.
Irya s’avvicinò alla suora anziana e raccolse sua figlia, stringendola. Rachel non si svegliò.
“Sì, piccola, continua a dormire” faceva, baciandole la testa. Scottava un po’.
La cullò dolcemente, sentendo quell’odore dolce di borotalco che si univa a quello naturale dei capelli radi e neri della creatura.
Non avrebbe mai voluto separarsi da lei.
“Padre, io... la ringrazio per quello che ha fatto. Le sarò riconoscente per sempre”.
“Io credo che sarà importante tenere Lionell il più lontano possibile da Adamanta”.
“Quando la piccola compirà diciott’anni Lionell tornerà automaticamente qui, per sacrificarla sul Monte Trave”.
Le tre persone di chiesa abbassarono lo sguardo e sospirarono.
“Ti stiamo consegnando una bambina orfana per farla morire, quindi?” chiese la più giovane delle suore.
“Farò di tutto per proteggerla. La crescerò come fosse mia figlia”.
“Devi contattare le autorità” disse il parroco. “Anche se lo reputi inutile non possiamo condannare un’altra giovane anima alla morte”.
“Rachel è più importante, Padre. Rachel è importante per tutti noi”.
“Che Arceus mi fulmini” disse poi il vecchio col collare candido, aprendo la porta di una stanzetta adiacente. Accese la luce e quattro culle si presentarono davanti a lei.
Quattro culle piene.
“Sono contento che tua sorella si faccia carico della bambina”.
“Risulterà quindi che Marta abbia adottato una di loro”.
“Lei” fece la suora anziana, che li aveva seguiti. La lasciarono passare ed andò a prendere la bambina nella prima culla a sinistra, sollevandola.
Dormiva ancora, la bambina, nonostante il trambusto.
Anche lei aveva capelli neri e radi. E gli occhi, aveva assicurato il parroco, erano azzurri come il cielo.
Come quelli di Rachel.
“Benissimo” fece quella, carezzando la manina morbida di quella che avrebbe dovuto crescere come fosse sangue del suo sangue. Si assomigliano molto... spero che Lionell la beva.
“È suo padre... dovrebbe riconoscere sua figlia all’istante...” s’inserì il parroco.
“Lionell non vede la bambina da due settimane. Torna a casa a notte fonda e quando mi sveglio è già andato in ufficio”.
“Quell’uomo è pericoloso” continuò l’anziano uomo di chiesa.
Irya si limitò ad annuire. “Ora devo andare”.
La suora più giovane accompagnò la donna e le due bambine verso l’auto, liquidandole con un Arceus vi benedica tutte e tre, prima di sparire oltre l’uscio del sagrato.
Rimise in moto la BMW, Irya, ma guidò lentamente, raggiungendo mezz’ora dopo Timea. La pioggia non accennava a diminuire.
Parcheggiò nel vialetto di casa di sua sorella, evitando per pochi centimetri i bidoni d’alluminio per la raccolta differenziata.
Non appena spense i fari Marta aprì la porta, correndo verso di lei. Irya scese ed aprì le portiere posteriori; Marta si stava apprestando a prendere una delle due bambine, quando sua sorella la fermò.
“Non quella. L’altra, Marta”.
La sorella rimase per qualche secondo immobile, sotto la pioggia, quindi annuì e circumnavigò l’auto, aprendo la portiera e prendendo la bambina che era sistemata lì.
Quella pianse immediatamente.
Corsero subito in casa, Irya era zuppa ma rimase con il cappuccio sulla testa.
“Levati questo straccio bagnato e metti qualcosa d’asciutto” le fece Marta.
“Devo andare. Allora, quella che hai in braccio è Rachel”.
“Oh”.
Marta guardò la piccola creatura, paonazza per il pianto, con appena un dentino in bocca. I capelli neri erano arruffati. La donna la prese, cercando di calmarla, cullandola.
“Sì, non fare così, dai...”.
Ryan si svegliò, alzando la testa. “Mamma...” fece. S’alzò e raggiunse le donne in cucina. “Zia... cosa ci fai qui?”.
Irya rimase in silenzio e guardò Marta.
“Ryan, vai immediatamente nella tua stanza” disse, cullando la piccola Rachel. L’altra bambina, invece, continuava a dormire nel porta enfant consunto che la chiesa le aveva regalato.
Il ragazzino biondo non si fece altre domande e salì al piano di sopra, chiudendo la porta.
“Ok. Marta, mi devi promettere che la tratterai come se fosse tua figlia. Come se fossi io, come quando la mamma morì e tu mi crescesti. Me lo devi promettere” Irya strinse il braccio della sorella mentre sentiva Rachel calmarsi.
“Sì, naturalmente”.
“Io domani partirò. Da allora me la caverò da sola. Cercherò di salvare questa bambina che ho preso”.
“La nuova... la nuova Rachel...” sussultò Marta.
“Già...”.
“Ti prego... non fare stronzate”.
“Lionell non permetterebbe mai che la bambina subisse qualcosa prima dei diciott’anni. Sarà allora che dovremo agire. Magari fino a quel momento cambierà idea”.
“Magari morirà” ringhiò Marta.
“Sì. Magari sì”.
“Ok... io devo andare adesso. Ti prego Marta non...”.
“Non le farò mancare nulla”.
Irya prese Rachel dalle braccia di sua sorella e la guardò: così piccola e fragile, così bisognosa d’attenzioni.
 
Piccola mia, cresci. Diventa donna e dai alla luce un’altra piccola donna, che ti somiglierà come tu assomigli a me. Rachel mia, non hai scelto tu di nascere, non hai chiesto tu di avere questo potere così devastante nel tuo piccolo corpicino.
Non hai chiesto nulla di tutto ciò ma sarai importantissima per questo mondo.
E tuo padre è uno stronzo, ti auguro di non incontrarlo mai. Per quel che ti riguarda ascolta tua zia, chiamala mamma, non mi offenderò.
Tanto, nel profondo del nostro cuore, io e te saremo sempre legate a filo continuo.
Come una madre ed una figlia.
 
Posò Rachel e poi strinse sua sorella in un caldo abbraccio.
“Mi dispiace molto, Marta. Mi dispiace, che Arceus mi perdoni” fece.
“Mi sento tanto impotente. Vorrei fare qualcosa...”.
Irya storse le labbra. “Stai già facendo tanto”.
“Dovrei fare di più. Dovrei levarti da questa situazione. Dovremmo ammazzarlo”.
Irya abbassò lo sguardo. “Non posso...”.
Marta sbuffò, stringendola ancora più forte. Cominciò a piangere, la più grande, sentendosi inutile. “Io vorrei davvero tanto poterti vedere tranquilla, mentre cresci tua figlia ma..”.
Irya sentiva la voce di sua sorella distrutta dal pianto e la cosa la faceva stare male. Aveva creduto ad un uomo che si era rivelato il male, aveva sbagliato a fidarsi, ed ora sua figlia sarebbe cresciuta senza madre.
Marta si disperava; la sua unica famiglia le piangeva fra le braccia.
Non resistette più, Irya, tornando nuovamente a piangere; non era così forte, non avrebbe potuto fare tutto quello che si era preposta senza complicazioni.
Aveva paura.
“Scusami, Marta” piangeva, stringendola forte. “Scusami Rachel. Scusatemi tutti!”.
“Non fare stupidaggini”.
“Sì” rispose Irya, che intanto veniva accudita anche in quel momento. “Crescila bene. Con Ryan... lui è un bravo bambino, andranno d’accordo”.
“Sì” annuì Marta, sentendo sua sorella sciogliersi dall’abbraccio. Quella mise le mani nelle tasche e cacciò una Pokéball.
“Questo è uno Zorua, Marta. Questo Pokémon è di Rachel... daglielo. È nato pochi giorni dopo di lei. Volevo fosse il suo primo Pokémon”.
La voce di Irya era stanca, i suoi occhi rossi e colmi di lacrime. Rachel aveva ripreso a piangere ma nessuna delle due si mosse.
“Credo che... credo che sia il momento di andare...”.
La porta però si spalancò, proprio in quel momento. John Livingstone, il marito di Marta, era appena tornato da lavoro, con il suo trench nero ben stretto addosso.
“Hey, ragazze. Perché siete al buio?”.
Marta sospirò e baciò sulla guancia la sorella, quindi fece lo stesso con Rachel e s’avvicinò all’uomo.
“John...”.
Quello vide la moglie prendere la bambina in braccio.
“Perché piangete? Ragazze, che è successo?” chiese calmo quello.
“Niente” sorrise Irya, con quel che rimaneva del trucco a colarle sul viso.
“Marta...”.
Irya diede un bacio sulla guancia al cognato e prese il porta enfant, aprì la porta e sparì nella tempesta.
 
“Marta...” disse l’uomo, accendendo la luce e vedendo sua moglie prendere in braccio la bambina.
“Dobbiamo parlare...” sorrise la donna, che cercava di calmare la bambina cullandola.
“Credo sia ovvio” rispose l’uomo, levandosi il soprabito ed appendendolo. Riavviò i capelli con la mano destra ed andò a lavarsi le mani, quindi tornò in salone. Marta era ancora lì ma la bambina sembrava essersi calmata.
“Questa è Rachel?” chiese John, asciugando le lacrime di sua moglie con un fazzoletto.
“Sì”.
“E perché è qui?”.
Marta sospirò. “Perché le stiamo salvando la vita, John”. Gli spiegò tutta la situazione e John sospirò quando si rese conto di non avere alcuna scelta.
“Io credo che adesso uscirò ed andrò a comprare tutto quello che le serve. Poi spiegheremo a Ryan tutto quanto. E domani andremo a riconoscerla...”.
Marta annuì, riconoscendo quanto straordinario fosse suo marito. Lo baciò, cullando ancora Rachel, che ormai s’era acquietata. John rimise il trench ed uscì, lasciando nuovamente sua moglie da sola.
La pioggia sembrava essersi calmata.
La bambina era sana e stava bene, e questo era l’importante. E sì, l’avrebbe davvero cresciuta come fosse sua figlia.
Come fosse Irya, che tanto le assomigliava. L’avrebbe protetta a costo della sua stessa vita.
La posò nel cestello e portò le mani ai fianchi.
Nuova vita in quella casa.
 
   
 
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