Per iniziare
Sssssalve.
Nuovo progetto, nuovo fandom, nuovo tutto.
Che dire?
Innanzitutto che dietro allo
schermo siamo in
due. A-ah! Non ve lo aspettavate, eh?
Invece sì. Chemical
Lady e Lechatvert,
due balde studentesse che, non avendo niente da fare
all'università
(esami? Quando mai!) scrivono assieme nel dopocena notturno.
Questo corposo esperimento è il frutto di un lungo
pomeriggio al sapore
di muffin e ciambelle rosa passato al tavolo del nostro coffee bar
preferito.
Ci è piaciuto abbastanza
com'è venuto fuori e
speriamo che l'evolversi della trama possa dare maggiore spazio a ogni
nostra idea.
Per ora, lasciamo tutto nelle vostre mani! ♥
Un abbraccio,
Chemical Lady &
Lechatvert
In arte: VandasGirls
Il destino di Qayin
Un singolo
istante può cambiare il corso di una vita intera.
Aveva appena finito di appuntare quella frase sul bordo di una pagina
stropicciata, quando la carrozza su cui sonnecchiava arrestò
improvvisamente la sua corsa.
Stropicciando gli occhi, Marcello Donà si alzò
dal sedile su cui
riposava e lasciò il suo posto, affacciandosi alla strada
sterrata che
lo circondava.
L’odore salmastre del mare gli riempì le narici e,
per un secondo, quasi
credette di trovarsi ancora a casa.
Da Venezia a Roma la strada era lunga, lo sapeva, eppure non gli
sembrava che, una volta lasciata la laguna, si dovesse incontrare
nuovamente la costa.
Invece il mare era lì da qualche parte, con il suo odore
pungente e la
sua umidità.
Marcello sospirò, abbandonando definitivamente la carrozza
per andare a
chiedere spiegazioni agli unici due mercenari che suo padre era stato
disposto ad assumere per il viaggio.
Non con sua enorme sorpresa, quando raggiunse il sedile del cocchiere,
lo scoprì completamente deserto. La sua magra scorta,
così come il
ridicolo stipendio che aveva concordato, erano spariti per sempre.
Inveendo, Marcello si ripromise di contrattare meno con i mercenari, in
futuro, e soprattutto di spezzare il pagamento in una prima, minima
parte, e un’ultima a lavoro compiuto.
Guardò i cavalli ancora imbrigliati alla carrozza.
Se non altro, nella fuga la sua scorta aveva avuto il buon cuore di
lasciargli un mezzo per raggiungere un qualunque centro civilizzato
senza
che dovesse per forza distruggersi gli stivali a forza di camminare.
Sbuffò, cominciando a trafficare con i nodi delle briglie.
Non era decisamente un bravo cavallerizzo – in effetti vi era
un motivo
ben preciso se per compiere una strada come quella che separava Venezia
da Roma aveva rifiutato di cavalcare egli stesso – ma poteva
riuscire,
in qualche modo, ad arrivare in città sano e salvo.
Dopodiché, contava
su qualcuno in grado di riconoscere il buon nome dei Donà,
modesta
famiglia di mercanti di spezie ed erbe officinali in tutto
l’Adriatico.
Schioccò la lingua un paio di volte, facendo lavorare le
mani sugli
ultimi nodi, poi alzò le spalle con un sorriso soddisfatto e
girò sui
tacchi per prendere la sua borsa all’interno della carrozza e
partire
alla volta della salvezza.
Non arrivò a toccare i suoi averi neanche con la punta delle
dita, visto
che si trovò faccia a faccia con la lama sguainata di una
spada.
Un uomo, circondato da almeno dieci soldati, gliela puntava alla gola,
soffocando appena una risatina divertita.
«Il figlio più giovane di quel maiale di
Donà, immagino», esordì,
sputando a terra.
Marcello spostò il piede, controllando che la saliva dello
sconosciuto
non gli fosse finita sullo stivale.
«Immaginate bene», rispose, scrollando le spalle.
«Con chi ho il piacere
di conversare?»
«Federico Cimaglia, Conte di Ladispoli. Avrete di certo
sentito il mio
nome tra le mura della vostra insulsa famiglia.»
«In realtà, no, ma vedo che sapete molte cose
veritiere circa mio padre
e la mia famiglia, quindi vi credo sulla parola.»
Mostrò al conte un ampio sorriso, scostandosi quel poco che
lo spazio
ridotto gli permetteva per non avere la lama puntata alla giugulare.
«Qual buon vento, quindi?», chiese, scuotendo
appena i suoi riccioli
castani.
L’altro grugnì, senza scomporsi troppo dinanzi
all’atteggiamento
pacifico del ragazzo. Che Marcello Donà fosse un ottimo
arciere lo
sapevano in molti, a Venezia. Che la sua passione per le frecce si
limitava a centrare un pagliericcio nel cortile di casa, bé,
era un
particolare che di certo la sua famiglia non usava per vantarsi.
«Vostro padre ha con noi un debito più grande
della sua pancia!», gli
disse, spavaldo, scoppiando in una grassa risata. «Voi sarete
il pegno
che lo costringerà a risarcirci.»
Marcello si lasciò scappare un sospiro mortificato.
«Allora temo che marciremo assieme, Conte»,
rispose. «Persino i bottoni
del panciotto di mio padre, occupano un posto migliore di me nella sua
scala di importanza. Dovevate provare con mio fratello Andrea. Lui
sì,
che si è attirato le grazie di tutta la famiglia!»
Ed era vero.
Suo padre aveva provato così tanto a lungo a sbarazzarsi di
lui che
ormai stava andando a farsi prete a Roma, ben lontano
dall’attività di
famiglia. Non era un cattivo mercante, in fondo, ma aveva interessi ben
diversi dal duro lavoro e aveva sempre finito col fruttare ai
Donà la
metà dei suoi fratelli.
Sospirando, guardò il conte, posandogli una mano sulla
spalla.
«Mi dispiace per il vostro buco
nell’acqua», gli disse, chinando il
capo. «Ma sono sicuro che dietro un buon compenso nessuno a
Roma verrà a
sapere di questo spiacevole incontro. Credo di aver sentito che
rapimento e ricatto siano puniti in maniera esemplare,
laggiù.»
Sorrise appena, osservando il suo aggressore attraverso i suoi occhi
color miele.
Gli bastò uno sguardo per capire che non era il caso di
intrattenersi in
ulteriori discussioni.
Arrivò a malapena ad accucciarsi che la lama del conte si
conficcò nella
carrozza.
«Cane!», gli urlò lui, liberando
l’arma dal legno dove fino a un istante
prima c’era la sua faccia. «Tu, tuo padre e la tua
famiglia!»
Rapido, Marcello si buttò a terra su una spalla, rotolando
sotto la
carrozza fino all’altro lato della strada. Si rimise in piedi
e
abbandonò ogni idea di tornare a riprendersi la sua borsa,
lanciandosi
nella corsa più veloce che avesse mai fatto attraverso il
rado bosco che
si apriva sulla pianura.
Non aveva la minima idea di dove stesse andando, né di dove
si trovasse,
ma di certo non aveva voglia di fermarsi ad indagare.
Così si obbligò ad accelerare ulteriormente il
passo, mentre alle sue
spalle udiva l’inveire del conte e le voci dei suoi uomini
farsi più
vicine.
Scavalcò massi, si tagliò il viso con i rami
appuntiti degli alberi più
bassi, inciampò, un paio di volte, su delle radici sporgenti
coperte
dalle foglie autunnali.
Quando realizzò che i suoi inseguitori gli erano
praticamente addosso,
si buttò addosso al tronco di un grosso pino, cercando di
guadagnare in
altezza appendendosi ai rami.
Tra i nomi delle tante cose che non era, spiccava anche quello
dell’ottimo arrampicatore e difatti gli ci volle
più di un tentativo per
trovare il ramo giusto che non si spezzasse sotto il suo peso.
Si arrampicò a memoria, seguendo i movimenti che aveva visto
fare a suo
fratello nel cortile di casa e in qualche modo, tra un ramo in faccia e
una manciata di aghi secchi negli occhi, arrivò fino quasi
in cima.
Da quel momento, si impose che la regola sarebbe stata “non
guardare di
sotto”.
Anche se sentiva i suoi inseguitore fare il suo nome, anche se la
curiosità di scoprire a quale altezza si trovava era enorme,
non voleva
cadere nell’errore di scoprirsi terrorizzato
dall’altezza.
Si concentrò quindi sul paesaggio che lo circondava.
Oltre le punte degli alberi, si estendeva la pianura, chiara e coperte
dalle nubi basse del mattino. Dietro di lui, i gabbiani cantavano alla
vista del mare. Per quanto si sforzasse di aguzzare la vista,
però, non
riusciva a individuare neanche una misera casupola.
Si drizzò sulle spalle, cercando di passare da una punta
all’altra
attraverso i rami più robusti.
Nessuno gli aveva insegnato che, in prossimità della cima,
la robustezza
è l’ultima delle caratteristiche attribuibili ai
rami.
Non appena il suo piede toccò il punto d’appoggio,
un gemito sommesso
uscì dalla bocca di Marcello, e l’unica cosa che
venne prima della
caduta fu il sonoro spezzarsi del legno.
In un istante, si ritrovò il vuoto sotto i piedi e
piombò verso terra,
impigliandosi in ogni singola frasca.
Quando la sua schiena arrivò a scontrarsi con il terreno
umido del
sottobosco, aveva foglie secche persino nei pantaloni e il sapore del
sangue nella sua bocca era così forte che per un istante
credette di
essersi trafitto con un ramo.
Soltanto quando il Conte di Ladispoli lo afferrò per la
camicia,
alzandolo da terra per potergli sputacchiare in faccia le sue offese da
osteria, Marcello si rese conto con sollievo di essersi soltanto
tagliato il labbro.
«I cani non volano!», gli gridò il
conte, agitandolo avanti e indietro
nella ferrea stretta della sua mano.
Marcello si concesse la scortesia di non rispondere. Gli faceva un gran
male la testa e tutto aveva preso a girare vorticosamente intorno al
suo
braccio.
Quando il conte si decise a caricarselo in spalla, aveva già
perso
conoscenza.
«Fermate quella
cagna!»
Le ombre delle torri che si innalzavano verso il cielo sopra di lei non
erano altro che un ulteriore riparo agli occhi del fornaio che la stava
cercando, brandendo in mano un vecchio coltellaccio.
Riuscì a sgusciare tra le persone che si accalcavano lungo
la via
principale, evitando di urtarle al meglio delle sue
possibilità,
arrivando in fine al quartiere povero di Bologna, delimitato dai
torrioni principali della Signoria.
Si schiacciò con la schiena contro il basamento della
Garisenda,
stringendo al petto una pagnotta avvolta da uno straccio color sabbia
quasi fosse il suo bambino.
«Quella maledetta ladra! Fermatela e consentitemi di
tagliarle io stesso
le mani!»
Oh, l’avrebbe di certo fatto, se mai l’avesse
catturata.
Sfortuna voleva che Violante degli Antoni fosse ben nota nella
cittadina
per le ottime doti atletiche, oltre che per le mani leggere come piume,
in grado di levare il borsello anche al più temuto capitano
di ventura.
Attese in quel nascondiglio di fortuna per qualche minuto, osservando
sospettosa e con le orecchie ben tese i passanti. Poi, sempre
stringendo
a sé il pane, tirò un sospiro di sollievo e si
avviò verso casa.
Sempre che una vecchia mansarda polverosa potesse davvero chiamarsi
casa.
Grazie a Madonna Pandora e a suo marito Ignazio poteva, quanto meno,
dormire in un luogo asciutto e caldo, grazie al camino che dal piano di
sotto riusciva a scaldare ogni ambiente.
Nonostante questo, però, Violante continuava a sentire
freddo dentro al
petto. La sua vita non era mai stata semplice. Era la figlia bastarda
di
un uomo dalla figura tutt’altro che esemplare, di cui sapeva
poco o
nulla. Aveva sempre vissuto sola con sua madre, passando da un alloggio
di fortuna all’altro e rubando quel poco di pane che riusciva
a
sgraffignare sotto al naso del fornaio, quando i pochi ducati che lei e
sua madre guadagnavano conciando la lana non bastavano per aspettare
una
nuova commissione. Aveva sempre vissuto ai margini della
società,
crescendo da sola con poche passioni.
Quando suo padre era morto, le aveva lasciato un baule chiuso a chiave
e
la promessa che un giorno avrebbe provveduto a lei.
‘Perché
si sa, i morti hanno parecchio
potere sul destino dei vivi … ’
Tutto quel sarcasmo non era poi così immotivato; era
sopravvissuta
diciannove anni grazie ad esso e non mancava giorno che non
ringraziasse
l’Iddio di averla fatta nascere libera, seppur senza
null’altro che la
sua tenacia.
Arrivata sotto alla palazzina pendente e dall’intonacatura
scrostata
nella quale viveva, si accorse di qualcosa di sospetto. Un paio di bei
cavalli, bardati d’azzurro e argento, facevano sfoggio di
loro insieme
ad un gruppetto di almeno sei mercenari recanti i colori della
Serenissima.
Attenta a non mostrarsi a loro, Violante strisciò contro la
parete fino
a un’entrata secondaria, posta sul fianco del palazzo. Quando
entrò,
lasciò un piccolo barile vuoto tra il pesante portone e il
muro, al fine
di lasciarsi una pratica via di fuga.
Non poteva sapere cosa avrebbe trovato lì dentro.
Con sua grande sorpresa, vide che nessun signore veneziano entra andato
a far visita a Madonna Porciani, mentre un chiacchiericcio diffuso
sembrava irradiarsi dalla mansarda misera nella quale doveva trovarsi
sua madre.
Avanzò su per la scalinata di legno con passo leggero,
riuscendo a non
far scricchiolare le assi vecchie che la componevano. Si
affacciò in via
del tutto sperimentale, notando subito sua madre, seduta alla loro
vecchia tavolaccia bucherellata insieme a un uomo e a una donna.
Mentre ella era piccola e dalle forme prosperose, egli era alto e ben
piazzato, con due grandi spalle larghe e uno spadone da duello alla
vita. Viola si premurò di avere ben assicurato il suo
pugnale sotto alla
blusa, prima di avanzare con passo volutamente più pesante,
attirando
così le attenzioni di tutti i presenti su di sé.
«Oh, Violante!»
Sua madre scattò in piedi, avanzando con un gran sorriso
verso di lei.
Pareva rilassata e a suo agio in compagnia di quelli che, per la
giovane, erano due volti sconosciuti.
Anche l’uomo si alzò, ruggendo una sorta di risata
che gli partì
fragorosa dal petto.
«Così questa è la figlia di Enrico?
Signore, sono passati solo tre
inverni dall’ultima volta che t’ho vista! Eri poco
più alta di un
canestro per mele!»
«Madonna Marcelli, avete cresciuto una splendida
fanciulla.»
All’intromissione della donna, Violante decise con garbo di
domandare
spiegazioni.
«Madre, chi sono costoro?», sussurrò, ma
venne comunque captata dallo
sconosciuto.
«Sapevo che non mi avresti riconosciuto: io sono Bartolomeo
d’Alviano e
questa è mia moglie, Pantasilea.» Fece una pausa,
appoggiando una mano
sulla spalla della moglie e guardandola con una certa dose
d’orgoglio,
prima di rivolgersi nuovamente a Violante. «Ero un caro amico
di tuo
padre.»
A quelle parole, tutta l’attenzione di Viola si
concentrò sul
condottiero veneziano.
«Mio padre?», chiese, quasi trepidante,
domandandosi se quello sarebbe
stato il giorno in cui sarebbe finalmente riuscita a scoprire qualcosa
in più su suo padre. Non ricordava molto di lui, era morto
che era solo
una bambina, ma quelle poche memorie che aveva le custodiva gelosamente
in un cassetto della sua memoria. Al collo portava ancora un piccolo
pendente con un ciondolo in pietra d’agata, unico regalo che
le aveva
portato da Roma molti anni prima.
‘Che essa ti
protegga dai mali, sia
fisici che dell’animo’.
Sapeva di essergli stata cara e, in un certo senso, lui lo era stato a
lei anche se non lo conosceva.
Bartolomeo asserì con un singolo cenno del capo.
«Tuo padre, Enrico degli Antoni. Sono qui in sua
vece.» Si godette
l’espressione confusa della giovane «Molti anni fa,
ho promesso a tuo
padre di venire a prenderti con me, quando saresti stata grande
abbastanza da essere pronta. Tua madre, in una lettera, mi ha detto che
sei molto brava a scappare da un tetto all’altro e che sei
maestra
nell’arte di renderti invisibile, se lo desideri.»
«Mia madre mi idolatra troppo», rispose la ragazza,
prima di voltarsi
verso Madonna Marcelli. «Cosa significa che
quest’uomo è qui per
prendermi con sé?»
La donna indugiò, prima di andare verso la vetrina di
sambuco e aprirne
due scomparti. Da essi, prese un baule di medie dimensioni che, un
po’ a
fatica, appoggiò sul tavolo. Su di esso vi era uno strano
simbolo,
inciso a fuoco. Violante l’aveva già visto su uno
degli avambracci di
cuoio che suo padre indossava sempre.
«Ti ho tenuto nascoste molte cose, bambina mia»,
disse addolorata Lucia
Marcelli, portandosi una mano al viso. «Ma ora è
giusto che tu abbia una
vita migliore. Questa è l’eredità di
tuo padre.»
«Io sto bene qui.»
Violante guardò la chiave che sua madre le stava porgendo,
senza far
nulla per afferrarla. Tutto stava avvenendo troppo rapidamente, senza
preavviso alcuno; si sentiva spaventata, stranita. Non voleva saperne
nulla.
«Non andrò con Messer d’Alviano da
nessuna parte.»
«Io credo che dovresti ascoltare tua madre», le
fece presente
quest’ultimo, prendendo la chiave e sorridendo a monna Lucia.
«Fallo per
tuo padre.»
«Mio padre non ha mai fatto nulla per me, perché
io dovrei fare qualcosa
per lui?»
Bartolomeo scoppiò a ridere, girando la chiave nella toppa.
«Sei proprio uguale a lui! Fossi in te darei
un’occhiata a questo baule;
a dopo le domande.»
Viola si avvicinò cauta, lanciando una lunga occhiata
sospettosa al
veneziano, prima di aprire con lentezza il baule. Al suo interno vi
trovò due spade corte, di ottima fattura, con
l’elsa in cuoio e argento
e la lama scintillante. Le passò a sua madre che le
appoggiò con timore
riverenziale sul ripiano della tavola, prima di sporgersi a guardare
con
gli occhi umidi ciò che Violante reggeva tra le mani: una
blusa grande,
maschile, di un bianco tendente all’argento e bordata di
rosso; un ampio
cappuccio faceva bella mostra di sé e lei lo
accarezzò dopo averla
appoggiata al tavolo.
«Questo era di mio padre …»,
sussurrò, piano, tenendo gli occhi sgranati
su quell’armatura strana, unica.
«Con ago e filo potrebbe essere tua»,
tentò monna Lucia, sorridendo
incoraggiante.
«Ancora non capisco …»,
sussurrò la giovane ragazza, con una confusione
in capo così forte da farle venire il mal di testa.
«Siediti e ti sarà spiegato tutto», la
invitò Bartolomeo, prendendo
posto a sua volta.
Violante annuì piano, guardando sua madre che correva verso
un piccolo
angolo della stanza per versarle una tisana. Fu in quel momento che le
cadde l’occhio sul fondo del baule, che credeva vuoto.
Così non era, però.
Abbandonato a se stesso, quasi del tutto nascosto in un angolo, vi era
un bigliettino. Lo aveva scritto suo padre, avrebbe riconosciuto
ovunque
quella scrittura che aveva letto e riletto sulle poche lettera che
Enrico le aveva spedito.
Quelle parole, incise con una piuma su una pergamena ingiallita dagli
anni, le parvero acquisire senso con lentezza esasperante.
Non lo sapeva ancora, ma esse erano vere quando quelle di un testo
sacro.
‘Un singolo
istante può cambiare il
corso di una vita intera’.