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Autore: With H    12/11/2013    2 recensioni
«E se adesso fossi lì?»
«Non sei qui...»
«No?»
Una brutta giornata, di quelle in cui il freddo entra nelle ossa passando per forza dal cuore. Un corso interessante tenuto da un professore noioso e poi un messaggio, che cambia completamente la giornata.
Genere: Fluff, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago, Universitario
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Si svegliò con un conato di vomito qualche minuto prima che il suo cellulare iniziasse a cantare “Knockin’ On Heaven’s Door” con la voce di Avril Lavigne.
Meno male che il buongiorno si vede dal mattino, pensò disgustata e decise di restare a letto finché la sua sveglia non avrebbe suonato; si sporse leggermente dal suo letto a castello per sbirciare oltre le tende della sua finestra, aveva l’abitudine di non chiudere le persiane per avere un po’ di luce durante la notte, ma in quel momento sembrava che fossero ancora le quattro del mattino, non riusciva a vedere nient’altro che il buio pesto e la condensa sul vetro, indice che fuori doveva fare molto freddo.
Controllò il meteo dal suo iPhone, le minime oscillavano tra i due e i quattro gradi e le massime non superavano i sette. Insomma, era freddo sul serio, ma almeno avrebbe iniziato a nevicare solo tra un paio di giorni.
Sistemò il suo letto e poi scese lentamente le scalette, solo la settimana precedente era scivolata e non voleva che la sua caviglia si gonfiasse di nuovo, poi aprì piano la sua porta a soffietto facendo più rumore di quanto ne avrebbe fatto aprendola velocemente. Odiava quella porta! Ma per fortuna nella casa echeggiava ancora un piacevole silenzio interrotto solo dal respiro profondo proveniente dalla camera accanto alla sua, dove una delle sue coinquiline si sarebbe svegliata solo molto ore dopo, l’altra aveva la stanza leggermente più lontana dalla sua ed era l’unica ad avere una porta normale, per cui probabilmente stava ancora dormendo come un sasso accanto al suo ragazzo che spesso passava lì la notte, per cui si sarebbe svegliata solo quando la sveglia le avrebbe ricordato che doveva andare a lavoro. Questo significava che aveva ancora mezz’ora prima di dover condividere il bagno.
Abbandonò il calore del suo pigiama in cotone caldo e si infilò sotto la doccia, rabbrividendo.
Le sue coinquiline dicevano che lei fosse pazza a svegliarsi così presto solo per fare lo shampo, ma sapeva che quel pomeriggio, dopo una giornata all’università, non avrebbe avuto nessuna intenzione di fare altro che non fosse leggere, aveva dato già un esame e i prossimi sarebbero stati a gennaio, per cui poteva concedersi un po’ di relax. E poi non le piaceva andare ai corsi con i capelli sporchi anche se in effetti non doveva piacere a nessuno; non che non ci fosse qualcuno interessato a lei, ma al momento non riusciva a ricambiare, la sua mente era troppo impegnata a pensare a qualcuno che aveva deciso di uscire dalla sua vita allo stesso modo in cui ci era entrato, improvvisamente.
Sbuffò seccata e tirò sollevò con un po’ troppa forza il rubinetto della doccia con il risultato di far cadere il flacone di bagnoschiuma e di ustionarsi con l’acqua calda. Uscì dal box doccia venti minuti dopo, con una chiazza rossa sul braccio dove si era bruciata ed ancora arrabbiata con se stessa per averlo pensato, ma sapeva che quella sarebbe stata solo la prima di altre innumerevoli volte in cui i suoi pensieri sarebbero tornati ostinatamente a lui. Lo pensava molto più di quanto fosse lecito.
Mentre si asciugava i capelli che formavano dei morbidi ricci e il vapore acqueo appannava lo specchio, la sua coinquilina bussò alla porta chiedendole di entrare a fare pipì. Il bagno era ad angolo, per cui il water era coperto dalla parete e nessuna delle due aveva problemi a condividere lo spazio.
Dopodiché andò in cucina a prepararsi la colazione, caffellatte con cereali al cioccolato che mangiò con poca voglia chiedendosi perché prima avesse avuto un conato di vomito, poi lavò la tazza ed andò a vestirsi. Indossò un maglione rosso scuro a trama intrecciata, un paio di skinny jeans grigio chiaro con una fantasia Navajo infilati negli stivaletti di cuoio, poi si avvolse al collo una sciarpa in tinta e si passò un filo di trucco, ormai non aveva più voglia di prepararsi per bene quando usciva, così mise solo un po’ di correttore per coprire le occhiaie, il blush perché altrimenti le sue amiche dicevano che sembrava un fantasma e il mascara; poi infilò tutto quello di cui aveva bisogno nella borsa, biascicò dei saluti a bassa voce alla sua coinquilina sveglia e al suo fidanzato e poi uscì di casa.
Il palazzo dove abitava era un ex convento prima, infatti era molto imponente ed aveva scaloni esagerati, inoltre non c’era l’ascensore, per cui doveva i dieci chili in meno da quando si era trasferita al suo quarto piano fatto più volte durante la giornata. Al primo piano si diramavano la scala A e B e c’era sempre molta corrente, quel giorno più che mai avvertì già il freddo dell’esterno e per un attimo vagheggiò l’idea di tornare nel suo letto, ma quel giorno aveva un unico corso, Teoria e Tecnica del Montaggio Cinematografico, stranamente di giovedì perché dovevano recuperare una lezione, così scese l’ultima rampa e poi si avviò verso l’imponente portone.
Casa sua distava appena dieci minuti a piedi dal Dipartimento di Musica e Spettacolo del DAMS, in Via Barberia 4 e c’erano più strade per raggiungerlo. Quel giorno decise di non passare per la Questura perché già normalmente lì tirava molto vento e in un giorno così freddo voleva evitare di gelare sul serio, optò invece per la strada che passava per Piazza Maggiore, anche se allungava leggermente. Non passava di lì per andare ai corsi da un po’ e, dato che era stranamente in anticipo, si concesse di perdere qualche minuto in più al semaforo di Via Ugo Bassi per poi ammirare l’enorme albero di Natale davanti alla biblioteca Sala Borsa. 
Ormai mancava poco a Natale e appena la settimana successiva sarebbe finalmente tornata a casa, con sette giorni di anticipo rispetto alla fine dei corsi. Le mancava casa, era passato più di un mese dall’ultima fugace volta in cui era stata a Napoli ed aveva rivisto i suoi genitori, per cui non vedeva l’ora che iniziassero le sue vacanze. La mancanza era uno degli aspetti negativi della vita da fuori sede.
Arrivò in dipartimento con le mani così fredde da farle male, guardò come al solito sullo schermo su cui erano segnate tutte le attività della giornata e le varie aule, per poi salire le scale che portavano al piano di sopra. Studiava al DAMS da tre anni, ma non aveva ancora capito quanto grande fosse il Palazzo Marescotti che aveva numerose scale secondarie e corridoi seminascosti dove non era mai andata. 
Erano le nove meno cinque ed il dipartimento aveva aperto da pochi minuti, lo si notava dalla desolazione quasi totale dei corridoi; si mise seduta su una delle sedie disposte fuori all’aula e sperò che stavolta il professore non rendesse la lezione noiosa come suo solito, il corso di per sé era interessante, per questo l’aveva scelto per i crediti extra dall’ateneo, ma lui non faceva molto per rendere le lezioni meno monotone. Tra l’altro nessuno dei suoi amici frequentava quel corso, dato che tutti avevano scelto un altro esame di musica che era l’indirizzo in cui si sarebbero laureati, per cui, al contrario suo, non volevano avere niente a che fare con le altre discipline. 
Controllò il cellulare prima che il professore aprisse l’aula, era ormai un’abitudine. Fino al secondo semestre dell’anno precedente, quindi appena pochi mesi prima, riceveva sempre un messaggio di buongiorno che migliorava decisamente la sua giornata. 
Ecco, lo stava pensando di nuovo.
L’aveva conosciuto un anno e mezzo prima, in un momento in cui pensava che l’amore non sarebbe più entrato nella sua vita e lui, con la sua presenza, con i suoi modi di fare e con le molteplici attenzioni che le rivolgeva, le aveva fatto capire che si sbagliava. Si sbagliava eccome. 
Non avevano avuto modo di frequentarsi molto, anche perché quando si erano conosciuti lui era ancora fidanzato e lei si era trasferita da poco. Si erano visti un paio di volte di sfuggita, in occasioni in cui non erano riusciti a parlare, per poi passare insieme un pomeriggio a luglio. Ogni volta che ci pensava, il suo cuore decideva di fare le capriole nel petto. Si erano baciati, più volte e lei non sapeva bene cosa provasse al riguardo, ma era certa che non aveva mai provato niente del genere, non così intensamente almeno.
Poi lui era sparito facendo sì che la sua assenza fosse molto più presente della sua presenza e lasciandola con un vuoto dentro che a volte le faceva mancare il respiro. 
Per un po’ aveva provato a chiedergli che cosa fosse successo, lui le rispondeva semplicemente che era un periodo strano, che si stava comportando così con tutti... Alla fine si era scocciata di inseguirlo quando lui non faceva niente per cercarla, anche se le aveva detto che non era cambiato niente e che lei gli mancava, ma erano solo parole, anzi, messaggi scritti su What’s App e ormai non avevano più valore, forse niente di tutto quello che si erano detti durante quel periodo lo aveva davvero.
Per cui aveva smesso di parlarne e di cercarlo e spesso cercava di ignorare i commenti o i tweet che di tanto in tanto le mandava come risposta a qualche sua frase; diceva a chiunque sapesse di lui che ormai era storia vecchia, che l’aveva dimenticato, così nessuno sapeva che quando lo pensava, provava un’orribile sensazione di vuoto allo stomaco. Immaginava che la Rowling intendesse una sensazione simile quando descriveva i Dissennatori nella sua incredibile saga. Come se non potesse essere mai più felice.
Anche quel giorno il professore sembrava deciso a sottoporli a due noiose ore di lezione, per cui già da dieci minuti lei aveva preso a fare disegni sul suo quaderno d’appunti, di recente era migliorata molto, soprattutto nel copiare le immagini dei cartoni della Disney che prendeva da Internet. Stava disegnando per l’ennesima volta Trilli, di gran lunga il suo soggetto preferito ed era persa nei suoi pensieri che riguardavano soprattutto la tesi. Ormai era un cruccio, le sue amiche avevano già scelto l’argomento e il relatore e lei invece non aveva la minima idea di che cosa fare, di quale professore scegliere e tutto questo le metteva una forte ansia, per questo non riuscì a non sobbalzare quando il suo telefono vibrò sul tavolino della sedia dell’università. Era seduta in una delle ultime file, per questo il professore non se ne accorse, lei invece aveva ricevuto solo qualche occhiata dai suoi colleghi seduti accanto a lei. 
Quando lesse il nome di chi le aveva inviato quel messaggio su What’s App, fu presa da un forte giramento di testa e ci impiegò qualche minuto per riprendersi e riuscire a leggere.
«Ehi, come stai? Anche se me lo merito, stavolta non mi ignorare, ok?»
«Sono a lezione.» rispose acida, cercando soprattutto di sembrare fredda e distaccata.
«Lo so... Volevo chiederti scusa...»
«Per cosa?»
«Per come mi sono comportato nell’ultimo periodo
Avrebbe volentieri iniziato ad urlare se solo non si fosse trovata a lezione.
«Non devi scusarti, va bene così.»
«Mi manchi...»
«Lo dici come se fossi stata io a sparire improvvisamente! Adesso scusami, ma sono a lezione!»
«So che sono stato io a sparire e mi dispiace...»
«Tranquillo, ormai per me è acqua passata.»
«Questo, nel tuo dizionario, è un modo carino per dirmi di andare a fanculo, immagino.»
«Pensavi che restassi ad aspettarti per sempre?»
Non rispose più e per un po’ lei si sentì meglio, aveva cercato di sentirlo migliaia di volte ma lui aveva sempre lasciato cadere la conversazione, per una volta voleva che capisse quello che lei aveva provato, che lo provasse a sua volta. Non aveva intenzione di chiarire con qualcuno che aveva una predisposizione a sparire. 
«E se adesso fossi lì?» 
Il messaggio arrivò più di mezz’ora più tardi e le causò ancora una volta il vuoto allo stomaco, non riuscì ad impedire che un tenue sorriso si allargasse sul suo viso. Spesso ne avevano parlato, avevano progettato di vedersi lì a Bologna dove lei era libera da qualsiasi scusa nei confronti dei suoi genitori che non sapevano di lui; a volte era capitato che si fossero inviati messaggi fino a notte inoltrata, qualche volta avevano anche parlato a telefono e, durante la notte, le loro conversazioni si facevano spesso più audaci, parlavano di cosa avrebbero fatto se si fossero trovati insieme in quel preciso momento ed arrivavano al punto che la distanza sembrava la peggior disgrazia che potesse capitar loro. 
Ma in quel momento era diverso, era cambiato tutto e non facevano più conversazioni del genere da mesi, non aveva senso riproporle adesso.
«Non sei qui...»
«No?» passarono appena pochi secondi e sul display comparve un altro messaggio «Ne sei sicura?»
«Sì, certo... Se tu sei qui io sono a San Francisco!» 
Ma ormai sentiva la carotide pulsare così tanto da farle sembrare di avere il cuore che le batteva in gola.
Poi le arrivò una foto. Per qualche secondo si soffermò sul suo viso così familiare ma allo stesso tempo abbastanza sconosciuto, ai suoi occhi scuri, le sue labbra, la sua barba leggermente incolta... Poi notò tutto il resto. Alle sue spalle c’era una stazione, fin troppo familiare per i suoi gusti e poi la scritta bianca sul tabellone blu... “Bologna Centrale”.
Ebbe un altro conato di vomito, ma stavolta sapeva il motivo.
«Possiamo vederci?»
«Sono a lezione.» ripeté, ma in realtà sarebbe schizzata via dalla sedia e corsa in stazione centrale per rivederlo.
«Posso aspettare...»
L’ora successiva le sembrò formata da una decina di anni almeno, cercò di far passare il tempo ascoltando la lezione, prendendo addirittura degli inutili appunti, per poi mangiarsi le unghie quasi a sangue. Quando il professore concluse la lezione, fu la prima ad uscire dall’aula. Andò di corsa al bagno perché aveva accumulato troppa tensione e poi si guardò allo specchio, era contenta di aver deciso di fare lo shampo quella mattina e per fortuna il make up non era andato via, poi prese un lungo respiro ed andò via dal dipartimento. Le aveva mandato un messaggio dicendole che si trovava in un bar a Piazza Maggiore sotto i portici e di fronte c’era una chiesa enorme. 
La chiesa doveva essere la Cattedrale di San Petronio, per cui capì subito qual era il bar. Si sforzò di non correre per raggiungerlo, ci avrebbe messo meno di cinque minuti anche senza accelerare il passo e poi doveva portare avanti la sua politica del “distacco” e non voleva che lui pensasse che aveva corso per raggiungerlo.
Evidentemente lui la vide dall’interno del bar, perché prima che salisse gli scalini per raggiungerlo, uscì, si fermò all’inizio delle scale con le mani in tasca e la guardò, evidentemente neanche lui era tanto sicuro di che cosa fare in quel momento. Visto che lei non lo raggiunse, ma rimase ferma, decise di fare lui il primo passo avvicinandosi a lei.
«Ehi...»
Si sentì molto stupida. Sentiva gli occhi bruciare ed era certa che il freddo non c’entrasse, tra l’altro il suo cuore aveva ripreso a fare le capriole. Serrò le mascelle arrabbiata.
«Che cavolo ci fai qui?» gli chiese rigurgitandogli addosso la sua rabbia.
Fece spallucce «Bologna è una bella città, c’è tanto da vedere... Dicono.»
«Bene, allora quell’edicola potrebbe avere una guida della città. Ciao.» ribadì facendo per girarsi.
«Ehi, aspetta...» mormorò piano e lei si fermò «Cosa vuoi che ci faccia qui?» finalmente lo guardò «Mi bastava girare Bologna da Google Maps, per quanto mi riguarda... Ma sono stato un coglione e lo sapevo anche prima che tu smettessi di cercarmi, ma ne ho avuto la conferma quando giustamente le tue risposte erano diventate fredde. Mi dispiace.»
Aggrottò la fronte «Hai speso circa cento Euro per venire qui a dirmi che ti dispiace? Era meglio la versione di Bologna che è una bella città in cui c’è tanto da vedere.»
«Ci sei soprattutto tu da vedere...» continuò guardandola con dolcezza.
Si sentì perforare dal suo sguardo, sapeva che in quei mesi era molto cambiata, un po’ l’aveva voluto e, sebbene avesse deciso di restare arrabbiata con lui, per un attimo ebbe paura che la “nuova lei” non gli piacesse più.
Sembrò quasi leggerla nei pensieri quando la guardò negli occhi serio «Sei bellissima.»
Alzò gli occhi al cielo fingendosi seccata e si girò a guardare altrove, in realtà sperava che le sue guance non avessero irrimediabilmente preso fuoco e che non iniziasse a piangere come una bambina. Tutto quello che voleva in quel momento era abbracciarlo, ma si mantenne.
«Resto un paio di giorni.» annunciò poi «Hai qualche consiglio per un hotel?»
«Sì, magari a Castel Maggiore trovi ancora qualche posto. C’è la Fiera in questi giorni a Bologna, per cui tutti gli hotel hanno tutte le camere prenotate da mesi... Non posso credere che tu sia stato così stupido!»
«D’accordo, allora farò un biglietto in giornata, a quanto pare non posso fare più di così...»
«Che cosa volevi fare?» domandò nervosa e adesso sentiva gli occhi bruciarle e diventarle troppo lucidi «Siamo usciti insieme a luglio, poi io sono stata cinque giorni a Roma con le mie amiche e tu sei sparito e lo hai fatto sempre di più durante tutta l’estate e l’autunno! Cosa ti aspettavi, che tornavi qui e io ti saltavo tra le braccia? Non ti è balenato per la testa nemmeno per un secondo che potrei stare con qualcuno ora?»
Spalancò gli occhi allarmato «Non sono venuto qui perché speravo che tu mi saltassi tra le braccia, non speravo che succedesse niente tra noi... Speravo solo di fare pace, ma ora mi rendo conto di essere arrivato tardi, immagino che ora è proprio finita... Ok piccola, faccio un giro, entro il tardo pomeriggio non sarò più nella tua città.»
Stavolta fu lui a voltarle le spalle e a camminare dal lato opposto, rimase ferma a guardarlo e non riuscì ad impedire a delle lacrime di rigarle il viso. Deglutì fermando il pianto ed il freddo le asciugò le lacrime, quasi ustionandola. 
«Bologna è sul serio una bella città.» disse a voce abbastanza alta affinché lui la sentisse, anche se era già a parecchi metri di distanza.
Si girò e di sicuro notò i suoi occhi rossi, tornò velocemente da lei e prima che potesse allontanarsi l’abbraccio, prendendola così alla sprovvista che lei iniziò a piangere di nuovo.
«Scusami...»
«Sei un idiota... Ti odio!» esclamò arrabbiata solo con sé per essersi lasciata trasportare in quel modo da lui sin da quando si erano conosciuti.
Un’ora più tardi lei aveva smesso di piangere, avevano bevuto insieme una cioccolata calda al bar che le aveva riportato il sorriso ed erano andati da lei per posare la sua valigia.
Ringraziò il cielo che il giorno prima avesse pulito casa e messo in ordine la sua stanza che di solito aveva sempre numerosi vestiti sparpagliati sul divano-letto, invece quel giorno persino la scrivania non aveva nient’altro che computer, iPad, televisore ed un paio di libri universitari che stava studiando. Insomma, sembrava una casa impeccabile, l’unica cosa fuori posto era lo stenditoio con i panni appesi che dovevano tenere all’interno perché fuori il tempo era pessimo.
Restarono in casa fin dopo pranzo, lei prese delle lenzuola pulite per il divano-letto dove avrebbe dormito lui, gli presentò una delle sue due coinquiline e preparò anche il pranzo, poi uscirono a visitare Bologna.
«È molto carina casa tua...»
Sorrise «A parte il terzo piano antico a piedi, vero?»
Ridacchiò «Beh, è bello tosto, ma è ottimo per tenersi in forma.» disse facendole l’occhiolino «Allora, com’è Bologna?»
Lo portò in tutti i posti che riteneva dovesse vedere, spiegandogli tutti gli aneddoti che conosceva e anche episodi della sua vita lì.
«Questa strada l’adoro...» disse lasciando alle spalle le Due Torri ed imboccando Strada Maggiore «L’ho fatta di corsa, contentissima e chiamando chiunque conoscessi il giorno del mio primo esame, Storia della Fotografia, il mio primo trenta. Era il ventitré aprile duemiladodici...» lo guardò intensamente «Circa un mese dopo ci siamo conosciuti.»
«Allora qualche cosa la ricordi?»
«Io ricordo tutto...»
Passarono per la Corte dei Servi dove c’era il mercatino di Natale e poi tornarono indietro verso Via Petroni, per poi arrivare in Piazza Verdi ed attraversare Via Zamboni. Gli mostrò tutti i posti dove lei passava maggiormente la sua vita da universitaria, al 38 dove c’erano alcune lezioni del DAMS, al 36 che era la biblioteca delle facoltà di lettere, alla Feltrinelli International dove al piano di sopra c’erano dei tavoli dove spesso lei e i suoi amici avevano studiato insieme. Poi oltrepassarono il Teatro Comunale andando verso Via delle Moline per poi arrivare in Via Indipendenza, la strada dello shopping; gli fece vedere la Montagnola dicendogli che il venerdì e il sabato allestivano un mercato enorme e poi tornarono indietro, attraversarono Piazza Maggiore e lo portò in Via Barberia, dove lei passava gran parte delle sue giornate.
Tornarono a casa per cambiarsi prima di andare a cena fuori. Lei scelse con cura i vestiti dall’armadio mentre lui era seduto sul divano a guardarla.
«Smettila...» sussurrò.
«Di fare cosa?» le chiese perplesso.
«Di guardarmi... ti sento, è snervante.»
«Sei bella.»
«Smettila...» ribadì cercando di trattenere il sorriso.
«Completino intimo nero? Vuoi farmi impazzire stasera...»
Gli scoccò una veloce occhiataccia «Se non vuoi dormire sotto ai portici, smettila!»
Rise guardandola malizioso mentre lei andava in bagno a cambiarsi. Avevano casa libera perché una delle sue coinquiline sarebbe andata a Milano dal fidanzato per il weekend, mentre l’altra ancora doveva tornare dal lavoro. Così, quando finì di lavarsi e vestirsi, aprì la porta ed andò a prendere il trucco, lui la seguì in bagno.
Mentre metteva l’eye-liner, le si avvicinò da dietro poggiando le mani sui suoi fianchi e le diede un veloce bacio sul collo per poi guardarla attraverso lo specchio.
«Ho un’arma e non ho paura di usarla...» disse sollevando il pennello dell’eye-liner, ma in realtà era diventata improvvisamente seria e tesa «Non ti ho ancora perdonato...»
Si allontanò come se avesse preso la scossa e non riuscì a reggere il suo sguardo dallo specchio. 
«Immagino che non lo farai mai, vero?»
Non rispose, non sapeva che cosa provava, non aveva ancora avuto modo di riflettere sulla giornata appena trascorsa. Per quanto fosse stata bella, restava comunque il fatto che lei avesse sofferto troppo per lui, che aveva pianto troppe volte e questo non si poteva cancellare.
Rimase in silenzio a guardarla mentre si truccava, poggiato alla porta, lei gli lanciava delle occhiate fugaci, poi si guardò un’ultima volta e si girò verso di lui.
«Sono...»
«Bella.»
Sorrise «No, pronta... Ma grazie comunque... Andiamo?»
Scesero le scale in silenzio e poi si trovarono avvolti dal freddo serale, le disse che non si sarebbe mai potuto abituare a temperature del genere e in effetti non poteva dargli tutti i torti perché neanche lei si era mai abituata, anche se in effetti preferiva di gran lunga il freddo al caldo di Bologna.
Lo portò all’Osteria dell’Orsa a mangiare tigelle e crescentine con i salumi bolognesi, erano in un tavolo un po’ distante dagli altri, molto intimo. Poi tornarono a casa distrutti.
Lei salì sul suo letto a castello mentre lui si sistemò nel comodo divano letto ad una piazza e mezzo, si affacciò a guardarlo prima di spegnere la luce e lui sorrise.
«Proprio sicura di non voler dormire con me?» le chiese malizioso.
Gli lanciò il cuscino, la guardò con aria di sfida abbracciandolo e chiudendo gli occhi.
«Ridammelo.»
«Non ci penso proprio... È più morbido di quello che hai dato a me e poi ha il tuo profumo... Se proprio lo vuoi, devi venire a prenderlo!»
«Dai... non riesco a dormire...»
«Vieni...»
Sbuffò spegnendo la lampada da notte che era attaccata al suo letto e cercò di usare le braccia come cuscino, ma dopo dieci minuti le si erano addormentate. Sapeva che lui la stava guardando, anche perché c’era una leggera luce che veniva dalla finestra, si girò a guardarlo con odio mentre lui se la rideva, sbuffò ancora e poi scese le scalette poggiando direttamente il piede sul suo letto perché lo spazio in camera era poco, lui si mise seduto di scatto e la tirò verso di sé.
Si ritrovò stesa sul letto accanto a lui e fu subito avvolta da un calore molto più intenso di quello che c’era nel suo letto dove lei aveva sentito freddo perché gli aveva ceduto il piumone. Lo guardò intensamente, lui stese il braccio verso di lei e alla fine lei ci appoggiò sopra la testa stringendosi a lui.
Si svegliò alle sette del giorno dopo a causa della sveglia che suonava tutti i giorni della settimana allo stesso orario. Si sporse dal letto per spegnerla mentre lui aprì piano gli occhi, ma era chiaramente in un dormiveglia.
«Sh...» sussurrò «È presto, dormi ancora...»
Si addormentò qualche secondo dopo e lei restò a guardarlo. Gli spostò piano il ciuffo ribelle dal viso e pensò che non sarebbe mai più stata felice come in quel momento, poi decise di alzarsi, non ce la faceva a riaddormentarsi.
Andò in bagno a lavarsi, ma poi rimise il pigiama, dopodiché si mise a preparare una torta di mele, praticamente una delle sue specialità in cucina. Sentì la porta aprirsi quando aveva levato la torta dal forno e lui le si avvicinò, aveva ancora sonno, ma evidentemente si era accorto della sua assenza.
«Ho avuto paura che fossi scappata.»
«Non riuscivo più a dormire... Ho fatto un dolce.»
L’abbracciò dolcemente, come se fosse la cosa migliore che gli fosse capitata 
«Hai visto, nevica...» mormorò tra le sue braccia, poi lo vide girarsi verso la finestra e guardare i fiocchi di neve sorpreso, come un bambino. Sorrise dolcemente passandogli una mano tra i capelli, era la stessa reazione che aveva avuto lei la prima volta che aveva visto la neve «Restiamo in casa finché non smette, fuori farà freddissimo. Torna a letto, ti porto la colazione....»
Fecero colazione a letto, con la torta e il cappuccino mentre la televisione passava immagini silenziose a cui nessuno dei due faceva molto caso. Si addormentarono di nuovo abbracciati, risvegliandosi per ora di pranzo, ma la colazione era stata così abbondante che nessuno dei due aveva fame.
Lei era stesa sulla schiena mentre lui era poggiato su un fianco a guardarla, giocava delicatamente sui suoi capelli ed ogni tanto le dava dei piccoli baci sulla guancia o sulle spalle.
Si sollevò poggiandosi sugli avambracci guardandolo intensamente, ormai aveva ignorato il suo cuore che batteva sempre troppo forte in sua presenza, ci aveva fatto l’abitudine e, mentre pensava ancora una volta a quanto fosse felice, lui le accarezzò il viso e poi la baciò. Fu un bacio molto più tenero del loro primo bacio, cinque mesi prima, quando si erano lasciati prendere dalla passione.
Si staccò per guardarlo e decise. Tornò ad appoggiarsi lentamente al letto tirandolo verso di sé, lo baciò ancora stringendolo e facendo sì che lui fosse praticamente su di lei.
«No, aspetta...» mormorò preoccupato «Così... ci facciamo male...»
Sapeva che non era un male fisico quello a cui lui alludeva.
«Sono innamorata di te.» disse tutto d’un fiato «So esattamente quello che sto facendo... Io ti voglio.»
Rimase sorpreso da quelle parole, gliel’aveva detto milioni di volte per telefono, ma in quel momento era differente. Sapeva che sarebbe stato il suo primo ragazzo, notò sul suo viso un’espressione di gioia, la baciò di nuovo, con dolcezza ed iniziò a spogliarla.
Aveva sempre immaginato che avrebbe provato vergogna a farsi vedere nuda da un ragazzo, ma mentre lui passava lentamente le sue labbra lungo il suo corpo alternando baci dolci e leggeri colpi di lingua, non provava nessun imbarazzo, semplicemente non riusciva a controllare la felicità.
Fu molto più imbarazzante quando fu lui a spogliarsi, perché lei non sapeva bene cosa fare, ma lui prese a baciarla e ogni mossa le venne con naturalezza. 
I preliminari l’avevano lasciata stesa sul letto scossa da dei brividi sconosciuti, la guardò in attesa di un suo cenno mentre passava dolcemente le dita nel suo interno coscia aumentandole i brividi. Lo tirò di nuovo verso di sé e allora lui capì che era pronta.
«Rilassati...» sussurrò più spaventato di lei «Se ti faccio male, mi fermo...» lei si era un po’ irrigidita, per cui lui intrecciò la mano nella sua e la baciò «Sei sicura? Posso fermarmi...»
Sorrise sentendosi terribilmente stupida, lei lo desiderava con tutta se stessa e non aveva alcuna intenzione di smetterla. Aveva fame, una fame diversa da quella che aveva conosciuto finora, una fame che non poteva essere saziata dal cibo, ma solo da lui. 
«Ti voglio.» ripeté a bassa voce «Io ti ho sempre voluto...»
Le spostò una ciocca di capelli dal viso «Io ti amo.»
La sorpresa di quella dichiarazione attenuò un po’ il dolore, lo sentì entrare in lei e gli strinse più forte la mano, era una sensazione insolita ma incredibilmente bella, non riuscì a trattenere le lacrime e lui si preoccupò.
«Ti faccio male?»
Sorrise «Un po’, ma non sto piangendo per il dolore... È che sono così felice...»
La baciò felice a sua volta ed iniziò a muoversi piano cercando di renderle la prima volta indimenticabile e ci riuscì.
Restarono tutto il giorno a letto e fecero l’amore ancora un paio di volte. Nessuno dei due aveva voglia di muoversi da lì mentre la neve continuava a cadere e la casa era solo per loro. 
«Ti prego, non sparire di nuovo... Sono stata così male e questi due giorni, non riuscirei più a dimenticarli e a dimenticarti.» gli occhi le tornarono lucidi.
«Ehi... Piccola, non vado da nessuna parte. Sono venuto qui da te e non ho intenzione di sparire di nuovo, ha fatto male a te quanto a me, mi sei mancata come l’aria e adesso non potrei proprio andare da nessuna parte...»
«Sei mio?» sussurrò sorridendo tra le lacrime, lei lo chiamava spesso Mio e lui aveva sempre detto che lo adorava.
Sorrise «Sì, sono tuo.»
Sentì in sottofondo una musica che la disturbava, riconobbe la voce di Avril Lavigne, ma sembrava venire da lontano. Poi lui iniziò a sfocarsi man mano che la musica si faceva più vicina.
«It’s gettin’ dark, too dark to see. I feel I’m knockin’ on heaven’s door.»
Spalancò gli occhi, svegliandosi di soprassalto, le lacrime le bruciavano sul viso e i singhiozzi le impedivano di respirare regolarmente. Guardò l’orario sul suo iPhone, erano le sette e venti del mattino, la sveglia aveva suonato già due volte e non l’aveva sentita. Lui non era lì.
Spense il cellulare senza preoccuparsi di smettere di piangere, chissà per quanto tempo aveva pianto nel sonno, forse tanto dato che la testa sembrava scoppiarle ma era niente in confronto al dolore che provava al petto. Si girò verso il muro ripensando al finale di Madame Bovary, quando Emma, dopo essersi avvelenata con l’arsenico, si metteva a letto girandosi verso il muro; per Flaubert quel gesto era emblematico perché significava che la protagonista rinunciava alla vita ancora prima che il veleno la uccidesse completamente.
Era così che si sentiva, ma forse l’arsenico sarebbe stato meno doloroso, anche una pugnalata dritta al cuore avrebbe fatto meno male. 
Quel giorno non sarebbe andata ai corsi, sarebbe rimasta lì nel letto in quel limbo orribile tra la vita e la morte, tra la vita e l’amore. 
Lui non c’era.

   
 
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