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Autore: Skyfall    18/11/2013    0 recensioni
"Tornerai a trovarmi, vero?" domandai quasi supplicandolo mentre vidi comparire le sue fossette.
Genere: Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Tate Langdon, Un po' tutti, Violet Harmon, Violet Harmon
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Gli alberi passavano veloci davanti a miei occhi mentre l’auto su cui viaggiavo prendeva velocità diretta in una nuova città.
Roses dei Cherry Ghost continuava a risuonare nelle mie cuffie da più di un quarto d’ora e non avevo intenzione di smettere di premere e ripremere il tasto play.
Buttai velocemente un’occhiata ai sedili anteriori e notai che i miei genitori stavano conversando tranquillamente, ma non mi avrebbero ingannato, non questa volta.
A vederli sembrava non fosse accaduto nulla, ma io riuscivo ancora a vedere l’espressione fredda e rigida che passava negli occhi di mia madre ogni volta che si rivolgeva a mio padre.
Non gli aveva ancora perdonato quello che aveva fatto e sarebbe andata avanti così per molto tempo, il trasferimento era uno dei tanti tentativi di rimettere a posto le cose.
Mio padre si era scopato una sua studentessa e mia madre li aveva colti sul fatto, onestamente comprendevo benissimo il comportamento di mia mamma, il suo essere fredda e distaccata, ma la più totale delusione arrivò quando, dopo tante speranze, lei avesse deciso di non lasciare mio padre.
Era incinta di mio fratello e quando scoprì il tradimento aveva appena avuto un aborto spontaneo al settimo mese di gravidanza, mio padre era un pezzo di merda e doveva solamente vergognarsi per ciò che aveva combinato.
Di mestiere fa lo psichiatra, non mi sono mai interessata molto a quello che fa, ma devo dire che secondo la mia opinione il suo lavoro è completamente inutile e futile.
Insomma, Los Angeles è il punto da cui la mia famiglia dovrebbe ricominciare a vivere come si deve, ma adesso come adesso vorrei semplicemente lanciarmi dal primo ponte che incontro e mettere fine a tutto questo maledettissimo casino.
Mi chiamo Violet Harmon, ho diciassette anni e la mia vita fa schifo.
«Violet?» mia madre mi chiamò e io feci finta di non aver sentito e continuai a guardare le case che sfrecciavano a lato della strada.
«Violet!» urlò alla quarta volta e io mi strappai le cuffie dalle orecchie.
«Che c’è?!» risposi in malo modo.
«Vedi di moderare il tono quando ti rivolgi a tua madre!» si intromise mio padre.
«Non credo che tu sia nella posizione adatta per potermi dire una cosa del genere, Ben» enfatizzai l’ultima parola, giusto per ricordargli che da un po’ di tempo a questa parte non lo consideravo più mio padre.
Stava per ribattere ma mia madre lo bloccò con un “lascia perdere”, mentre l’auto accostava al marciapiedi.
«Volevo solo avvisarti che eravamo arrivati» disse con voce flebile Vivian, mia madre.
 
Le portiere iniziarono a sbattere mentre gli scatoloni si accumularono sul vialetto di casa.
Alzai lo sguardo per contemplare il posto dovrei avrei vissuto da quel giorno e ciò che mi ritrovai davanti era un’enorme villa di quelle costruite nei primi del novecento.
Rimasi qualche minuto a guardare le mura e le finestre e poi mi voltai verso i miei genitori.
«Qual è la mia camera?» domandai mentre entravo in casa notando che anche all’interno era arredata in stile inizio novecento.
«Di sopra, prima porta a destra» rispose mia madre con un sospiro rassegnato.
Afferrai la mia valigia e la borsa con le mie cose e mi avviai di sopra.
Aprii la porta e mi ritrovai davanti un letto a una piazza e mezzo il ferro battuto. La camera era grande e non mi dispiaceva.
Scaraventai in un angolo la mia valigia e la mia borsa e mi fiondai sul letto, affondai il viso nel cuscino per qualche minuto e poi mi voltai verso il soffitto.
Rimasi in quella posizione per quelle che parvero ore poi mi alzai e andai verso lo stereo che era nella stanza e misi il cd di Lana del Rey dopo averlo recuperato dalla mia borsa.
Mi avvicinai nell’angolo della stanza in cui c’era uno specchio che occupava la parete e iniziai a guardarmi.
Avevo i capelli biondo scuro e gli occhi grandi color nocciola che in quel momento non esprimevano un bel niente.
Mi tolsi la felpa che indossavo e la buttai a terra rimanendo in reggiseno, slacciai il bottone dei jeans e dopo poco anche quelli raggiunsero la felpa che era a terra.
Avevo addosso sola la biancheria intima e piegai la testa di lato osservando il mio corpo.
Non sapevo esprimermi riguardo a ciò che vedevo, alcuno lo avrebbero definito bello, altri insignificante, per me era semplicemente insistente.
Era come se quel corpo non mi appartenesse più, un inutile involucro che ricopriva un’anima squallida, stupida e del tutto inutile.
Mi inginocchiai e afferrai una sigaretta dal pacchetto che tenevo nei miei pantaloni e me l’accesi.
Mi rimisi in piedi e mi osservai mentre fumavo allo specchio.
Improvvisamente venni interrotta da qualcuno che bussava alla porta. Mi voltai di scatto verso il mozzicone che ancora fumava tra le mie dita e lo spensi sul dorso della mia mano.
Contrassi il viso per un secondo per la pelle bruciata e poi mi infilai al volo i vestiti e aprii la finestra.
Aprii di poco la porta e trovai mia madre che mi guardava con un’espressione mista tra tristezza e dolcezza.
«Tuo padre ha già un paziente questo pomeriggio che è appena arrivato, potresti abbassare il volume della musica? Il suo studio è qui accanto» mi rivolse un debole sorriso.
«D’accordo» la congedai sbattendole la porta in faccia e feci quello che mi aveva detto.
Mi dispiaceva trattare in quella maniera mia madre ma era più forte di me. Il pensiero che non avesse avuto il coraggio di lasciare mio padre dopo quello che le aveva fatto mi faceva venire il voltastomaco.
Aveva paura di rimanere sola, era una debole, non sapeva combattere.
Io non avevo paura di niente.
 
Andai a stendermi sul letto dopo aver richiuso la finestra e senza nemmeno rendermene conto mi addormentai.
Quando riaprii gli occhi sentii che il cd era finito, infatti la stanza era silenziosa, non avrei saputo dire il tempo che era passato.
Mi misi a sedere sul letto stropicciandomi gli occhi e poi notai che la porta della mia stanza era semiaperta.
Buttai l’occhio in qua e in là e notai un ragazzo che mi dava le spalle che stava toccando come se fosse in trans la cassettiera di legno che era alla mia destra.
Non si era accorto che mi ero svegliata e rimasi ad osservarlo prima di parlargli.
Era alto, magro con i capelli ricci e biondi, non sapevo perché ma avevo una voglia incredibile di vedere i suoi occhi era come se ne sentissi il bisogno.
«Chi sei?» domandai con curiosità e lui sussultò voltandosi poi verso di me.
Era nella penombra e non lo vedevo bene in viso.
«Scusami, non volevo svegliarti» disse in imbarazzo.
«Non preoccuparti, non sei stato tu a svegliarmi, potrei chiederti cosa ci fai in camera mia?» mi sposati e mi sedetti in modo da essergli di fronte.
«Questa una volta è stata anche camera mia.. abitavo qui prima di trasferirmi nella casa accanto» indicò la finestra.
«Oh! Sei il mio nuovo vicino quindi..» lasciai la frase in sospeso perché non avevo idea di come continuare.
«In realtà sono anche un paziente di tuo padre, mi chiamo Tate» si avvicinò e mi tese la mano.
Io l’afferrai e notai che era stranamente fredda.
«Piacere, Violet. Sentiamo, che hai fatto per avere bisogno di uno strizzacervelli?» lui si sedette sul bordo del mio letto e notai che aveva gli occhi scuri, misteriosi. Li adoravo.
«Non ne ho idea» rise mostrando due fossette meravigliose.
Io risi con lui e mi stupii del fatto che mi sentivo completamente a mio agio con uno sconosciuto che era appena entrato in camera mia mentre stavo dormendo.
«Non.. non ti spavento?» domandò assumendo un’espressione interrogativa.
«In teoria dovresti.. insomma, sei entrato in camera mia mentre stavo dormendo, per quanto ne so potevi violentarmi o uccidermi, ma.. no.. non mi spaventi, io non ho paura di nulla» conclusi la frase con fermezza guardandolo negli occhi.
«Nemmeno della morte?» mi chiese scrutando il mio viso come se cercasse di leggermi dentro.
Mi dispiaceva per lui, non avrebbe trovato nulla.
«No» risposi convinta senza far tremare la voce e senza indecisione.
«Io invece credo che ci sia qualcosa che ti spaventa..» assottigliò gli occhi ad una fessura.
«Quale sarebbe?» domandai confusa.
Ero capitata nella conversazione più assurda che potesse esistere.
«L’amore. Lo leggo nei tuoi occhi» sorrise mostrando nuovamente le sue fossette.
«Io non credo in questo tipo di cose, non si possono leggere le paure di una persona dagli occhi e poi non è vero, non ho paura dell’amore»
«Dimmi una persona che ami davvero o che hai amato a tal punto da essere disposta a fare di tutto per lei» incrociò le gambe come me e le nostre ginocchia si toccarono.
Aprii la bocca per rispondergli ma poi mi bloccai iniziando a far viaggiare la mente e abbassai lo sguardo.
Lui non interruppe il corso dei miei pensieri e non so il tempo che passò ma quando alzai lo sguardo di nuovo sul suo viso la mia espressione era di stupore.
Non amavo nessuno, non avevo mai amato qualcuno, nemmeno i miei genitori, anzi, per quanto mi riguardava in quel momento desideravo la loro morte.
«Niente?» aveva gli angoli della bocca all’insù in un accenno di sorriso.
«Esatto..» bisbigliai continuando a guardarlo stravolta.
Lo conoscevo da nemmeno cinque minuti, ma quel ragazzo mi aveva fatto riflettere sulla mia vita più di quanto avessero fatto i miei familiari in diciassette anni.
Iniziavo a chiedermi se in realtà non fosse lui lo psichiatra e mio padre il paziente.
«Non hai amato nessuno, non ami nessuno.. nemmeno te stessa» concluse la frase afferrando il mio braccio e alzando la manica della mia felpa scoprendo i tagli che solcavano il mio braccio da destra a sinistra, ripetutamente.
Alzai lo sguardo sul suo viso e vidi che era contratto in un’espressione addolorata e dispiaciuta.
Ci misi qualche secondo a rendermi conto di quello che era appena successo.
Ritrassi velocemente il braccio, feci scendere la manica della felpa e mi allontanai velocemente da lui.
«Chi sei tu? Chi cazzo sei? Come fai a saperlo?» ero stravolta, ora quel ragazzo mi faceva paura. Mi spaventava perché conosceva così tante cose di me, potevo dire che mi conosceva meglio di chiunque altro, persino di me stessa.
Lo vidi alzarsi dal letto e avvicinarsi a me cercando di tranquillizzarmi quando la porta si aprì di scatto probabilmente a causa delle mie urla disumane.
«Tate, vattene da casa mia, immediatamente!» mio padre era sulla soglia della porta della mia camera e stava urlando.
Quel ragazzo era strano, mi aveva spaventato eppure non riuscivo a permettere che venisse trattato in quella maniera.
«Papà rilassati! Stava per andarsene da solo, vero Tate?» lo guardai e lui annuì guardandomi negli occhi.
Mio padre scese di sotto e io mi voltai verso Tate. Quei capelli ricci e biondi, quegli occhi scuri e misteriosi, quelle labbra perfette e quelle fossette che gli davano un tocco di infantilità mi avevano totalmente scombussolato in pochi minuti.
Tate era sulla soglia della porta quando lo chiamai e lui si voltò verso di me.
«Tornerai a trovarmi, vero?» domandai quasi supplicandolo mentre vidi comparire le sue fossette.
  
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