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Autore: dilpa93    21/11/2013    10 recensioni
“Il momento della morte, come il finale di una storia, dà un significato diverso a ciò che lo ha preceduto”
Genere: Angst, Drammatico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Kate Beckett, Martha Rodgers, Nuovo personaggio, Quasi tutti, Richard Castle
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Prima stagione
Capitoli:
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“La nostra vita scaturisce dalla morte degli altri”
Leonardo Da Vinci
 

 


“Beckett”, risponde ridacchiando, ancora divertita dall’ultima battuta dei suoi colleghi.
Non è da lei scherzare o dare soprannomi alle vittime, anche se alcune non possono sempre essere definite tali, o agli assassini. L’ha sempre trovata una cosa priva di tatto, ma in quei giorni ha davvero bisogno di mollare la presa, di alleggerire la pressione, e in fondo non c’è nulla di male. Le spiace solo che Castle non sia lì a divertirsi con loro. È convinta sarebbe stato contento nel vederla più rilassata e disinvolta, le piacerebbe potergli mostrare la Kate nascosta sotto l’austera e seriosa Beckett. Magari un giorno ne avrà l’occasione, pensa.
Il sorriso le si è ormai smorzato in volto mentre afferra veloce le chiavi della macchina dopo aver lasciato cadere la cornetta sul ricevitore.
“Ehi Beckett, che succede?”
“Castle ha avuto un incidente. Vado in ospedale per saperne di più.”
“Tienici informati!”
Annuisce prima che le porte dell’ascensore si chiudano davanti a lei con il capo già chino.
 
 
Gli anelli metallici a cui è appesa la tenda tintinnano scontrandosi tra di loro quando questa viene tirata.
L’infermiera gli sorride lasciandolo poi solo, nel mezzo del pronto soccorso, con indosso quel buffo camice e in balia delle due donne andate a fargli visita.
“Cosa ci fate qui?”
“Cosa ci facciamo qui? Richard Castle non osare nemmeno chiederlo! Cosa ci facciamo qui... Quando l’ospedale ha chiamato a casa per poco non mi prendeva un infarto.”
Alexis ignora le parole della nonna, andandogli incontro per stringerlo in un abbraccio.
“Piano tesoro”, geme sentendo un acuto dolore al petto.
“Oh, scusa. Come ti senti?”
“Un po’ indolenzito, ma sto bene.”
“L'infermiera ci ha detto che sei rimasto incosciente fino al tuo arrivo qui.”
“Non ti devi preoccupare, deve essere stato il colpo.”
“Come è potuto accadere?”
“Non lo so, un attimo prima procedevamo tranquilli. L’istante dopo una ma-”
Preoccupata per quell’improvvisa interruzione, Martha prova ad intercettare in che direzione lo sguardo del figlio sia rivolto. Si tranquillizza capendo cos’è, o meglio, chi è stato a farlo ammutolire.
“L’istante dopo...? Papà, sicuro di stare bene?”
“Cosa ci fa qui Beckett?”
“L’ho chiamata io, credevo dovesse saperlo, in fondo passate un sacco di tempo insieme, mi è sembrato naturale.” Ammicca riferendosi al suo rapporto con la detective come a quello tra due persone coinvolte sentimentalmente.
“Non riesci a stare lontana dalla mia vita privata mamma, non è vero?”
“Quando mai la tua vita è stata privata caro?”
Lo sguardo truce di Rick sembra parlare per lui. Come di consueto la donna non ci bada, proseguendo per la sua strada. “Allora, posso andare a prenderla, o preferisci farla vagare a vuoto per mezzo pronto soccorso?”
Senza aspettare una sua risposta, posa la borsa in pelle di Louis Vuitton di un arancio accesso sulla sedia accanto al letto. Muovendosi elegantemente raggiunge la detective davanti al banco dell’accettazione.
“Darling, sono felice di rivederti. Seguimi”, sussurra posandole un braccio intorno alle spalle, “lo sfigurato è da questa parte.”
Sorride alla battuta, lasciandosi condurre in silenzio dal suo partner.
“Ehi Castle”, e finalmente può sentire il proprio battito rallentare. Non sa perché, non ha idea del motivo che aveva causato quell’improvvisa ansia. Eppure, pensandoci bene, una parola continua a ronzarle in testa.
Paura.
Terrore di perdere quello stravagante scrittore di cui fino a qualche settimana prima si curava a malapena.
Studia il suo viso, il sorriso forzato che vi fa capolino quando i loro sguardi si incontrano.
“Alexis, cara, perché non mi accompagni a prendere un tè.”
Ha capito di essere improvvisamente di troppo in quel piccolo angolo. Tra quei due era successo qualcosa, ha vissuto abbastanza per capire che in quello sguardo c’è più di quello che delle parole potrebbero esprimere. Quasi le spiace interromperlo.
“Certo. Torniamo subito.” Mormora rivolgendosi al padre, stringendo la mano nella sua.
Kate, ora sola, rimasta in piedi, fintamente accostata alla tenda grigia, fa vagare lo sguardo lungo le fughe del pavimento. Risale il muro bianco alle spalle di Rick, tornando poi a guardare il taglio che troneggia rosso sulla sua fronte.
“Come ti senti?” Domanda timidamente.
“Sto bene. Ho la pelle dura, ormai dovresti saperlo.”
Ha sempre usato il sarcasmo e l’ironia per dissimulare dolore, tristezza, solitudine, tutte emozioni negative che, conoscendolo solo di facciata, sembrerebbero non averlo mai sfiorato.
“Davvero?” Con un cenno del capo indica la gamba fasciata, l’ematoma che lentamente si fa sempre più evidente sulla caviglia sinistra.
“Nulla più di una frattura, qualche giorno e tornerò come nuovo.”
Massaggia la tempia non riuscendo a reprimere, nonostante l’impegno, una piccola e quasi impercettibile smorfia. “Questo mal di testa però mi uccide.”
In un gesto involontario gli carezza il braccio all’altezza del poso. “Avanti cowboy, resisti.”
Ancora quello sguardo, quel dialogo silenzioso nato tra loro spontaneamente.
Non si può imparare, non lo si può cercare.
È questione di chimica... O c’è, o non c’è.
Lo sente gemere, sfiorandosi ancora la fronte.
“La suoneria non mi aiuta”, asserisce indicando con il capo la tasca dei jeans della detective illuminata, dall’interno, dal cellulare.
La mano scivola attraverso il tessuto afferrandolo. Non sapeva da quanto stesse squillando. Non aveva sentito neanche una nota della suoneria impostata come di consueto a tutto volume, sprofondata nell’immensità dei suoi occhi blu.
“Ehi ragazzi, siete in viva voce.”
Per i due colleghi all’altro capo del telefono è la conferma che, quello che ormai si sentono di definire loro partner, sta bene.
“Castle, come stai?”
“Ho avuto giorni migliori.”
“Siamo sul luogo dell’incidente.”
“Come mai?” Chiede incuriosito Castle precedendo di poco la detective, rimasta con la bocca semi aperta e quelle stesse parole pronte ad uscire.
“Alla guida dell’auto che ha causato l’incidente c’era un certo... Ian McDermot.” Scandisce attento l’ispanico leggendo dal taccuino che Ryan aveva sfogliato rapidamente davanti ai suoi occhi. “È morto qualche minuto dopo l’arrivo dei paramedici.”
“Perché ci hanno chiamati? Credevo si trattasse di un semplice incidente automobilistico.”
“Lo credevamo anche noi, almeno fino a che non abbiamo visto il corpo. Sul fianco destro presenta tre ferite profonde. Ad una prima analisi sembrano essere state inferte da un comune coltello da cucina a lama seghettata.”
“Lanie ha già visto il cadavere?”
“Si, ne saprà di più dopo l’autopsia”, Kate sorride a quelle parole, avendo visto Castle mimarle giusto qualche secondo prima che Esposito le pronunciasse, “ma apparentemente la coltellata centrale sembra essere stata quella fatale. La causa della morte è imputabile all’emorragia dovuta alla lesione di un organo vitale oppure...”
“Oppure?”
“Il coltello potrebbe aver colpito una costola scheggiandola e, durante l’impatto, questa avrebbe reciso i tessuti portando ad un più rapido dissanguamento.”
“Sapete già qualcosa su questo McDermot?”
“Ancora nulla, Ryan sta andando a finire di interrogare i testimoni. Un’ultima occhiata alla scena e poi torniamo al distretto a cercare notizie.”
“Va bene, chiamatemi appena avete qualcosa.”                                 
“D’accordo. Yo Castle, muoviti ad uscire, ti rivogliamo tra noi.”
“Dillo ai medici”, borbotta ricordandosi le parole dell’infermiera quando era arrivato più di un’ora prima, ‘non ci vorrà molto, vedrà’.
“Ci sentiamo dopo.” Chiude sbrigativa la chiamata, lasciando ricadere il telefonino nella tasca.
Quel silenzio, spesso risultato monotono e straziante con molte persone, torna ad essere protagonista tra loro, eppure è piacevole, quasi rilassante.
Concentrata riesce a sentire il battito del suo cuore. Abbassa lo sguardo osservando il suo petto gonfiarsi e sgonfiarsi ad ogni respiro.
“Qualcosa non va?”
“Castle io-”
“Eccoci di ritorno”, esulta l’attrice tenendo saldo tra le mani il bicchiere in plastica opacizzata dalla condensa del calore emanato dal tè al suo interno.
Dietro di lei fa capolino il medico. Tiene la cartella davanti al viso, nascondendolo. Le dita tamburellano sul retro cartonato lasciando scivolare nell’aria un ticchettio pesante.
Il camice, nonostante sembri essere più grande rispetto alla corporatura del proprietario, non riesce a coprire i polsi. Sul destro si riesce bene a distinguere la voglia con un’atipica forma a fragola.
Kate ha la visuale oscurata dalla giovane Castle per poterla notare, ed è solo quando sente la voce dell’uomo pronunciare con austerità nome e cognome dello scrittore che lo riconosce.
“Dottor Bolkowitz?”
“Katherine”, la voce tradisce un’evidente sorpresa.
“Non credevo lavorasse anche al pronto soccorso...”
“In effetti non ci lavoro, ma c’è stato un grosso incidente, la maggior parte dei medici è impegnata, così mi hanno chiesto di dare una mano.”
Richard non ha bisogno di domandarle come mai lo conosca, gli è bastato fare due più due per ottenere la risposta.
“Adesso la porteremo a fare una TAC.” Prosegue lasciando in sospeso quel discorso e rivolgendosi al suo nuovo paziente.
“Per quale motivo?”
Rick non crede di aver mai visto sua madre così preoccupata, lo capisce dal modo in cui si tortura le mani tentando di non farsi vedere. Tuttavia non riesce a capire cosa la turbi e la agiti. Lui si sente bene, è certo di star bene, se non fosse per quel mal di testa che non sembra volerne sapere di lasciarlo in pace.
“Tranquilla nonna, è una precauzione. Non è vero?” Anche lei è preoccupata, da che ha memoria non ricorda di aver mai visto suo padre in un letto di ospedale. La sola immagine che le torna alla mente è lui, sdraiato sul divano, con il gesso intorno al braccio. Stavano giocando in giardino, d’estate, nemmeno rammenta a cosa o come sia successo, sa solo che tutto era stato molto veloce. Lei si era ritrovata sopra il suo braccio e, nonostante il suo leggero peso, glielo aveva rotto. Sorride al ricordo e arrossisce quando se ne accorge.
“Vogliamo solo tenere tutto sotto controllo e scongiurare ogni possibile danno.”
L’infermiera toglie il fermo al letto, sospingendolo poi verso il corridoio principale.
Un accennato stato di nausea lo coglie alla sprovvista appena comincia a muoversi.
Martha gli poggia la mano sulla spalla. Lui le carezza le dita tentando poi un sorriso. La figlia gli schiocca un bacio sulla guancia, lasciando poi che la mano sfiori le lenzuola e successivamente cada nel vuoto. Beckett gli si accosta, picchiettando con le dita di entrambe le mani sul materasso sottile.
“Ci vediamo dopo allora”, sussurra.
“A tra poco detective.”
Con quel solito sorriso beffardo si allontana e il cuore di Kate torna a battere veloce.
Troppo veloce.
Eccola di nuovo, la paura. Stupida e ingiustificata paura.
E il lobo dell’orecchio sinistro torna a formicolare.
 
L’altoparlante gracchia una volta acceso.
Con l’indice il medico picchietta sul microfono già a pochi centimetri dalla sua bocca.
Il respiro si infrange sulle maglie metalliche che formano la piccola testa nera, provocando un fastidioso sibilo.
“Adesso stia immobile, ci vorrà un momento.”
Il tecnico preme il tasto d’avvio dopo un cenno del capo ricevuto da Bolkowitz.
“Come si sente?” Ancora quel perforante sibilare.
“Un po’ intorpidito a dire il vero. Credo... credo mi si sia addormentata la parte destra. È normale? Non la sento, io-”
L’irrigidimento arriva improvviso. I muscoli si contraggono contro la sua volontà.
Il contatto con la realtà è ormai lontano.
Gli occhi puntano fissi verso l’alto, le labbra vengono inumidite dalla saliva che esce senza controllo.
Il dottore lo raggiunge dopo aver chiesto aiuto.
Il codice rosso risuona per l’intero ospedale. Nessuno ha idea di cosa stia succedendo.
Alexis si guarda intorno smarrita, indicando solo con lo sguardo il letto mancante del padre. Martha non risponde, gli occhi traboccanti di lucido terrore della nipote la spronano maggiormente a fermare un’infermiera dopo l’altra. Nessuno sembra sapere nulla.
Mi spiace, non è il mio reparto.
Scusi, non lo so.
Ci lasci fare il nostro lavoro, al più presto le faremo sapere qualcosa.
Le stesse frasi che, alla pari di un disco rotto, si ripetono come una triste melodia degli anni ’40.
Finalmente qualcuno arriva da loro. Una giovane ragazza, coda di cavallo aggiustata qua e là con qualche forcina. Il camice di un azzurro acceso è macchiato sul lembo inferiore. Sembra essere sangue, ma forse si sbaglia, non riesce a capirlo. Gli occhi nocciola si muovono incessantemente scorrendo ancora una volta le parole scritte sulla cartella.
“I famigliari del signor Castle?” Chiede infine.
“La madre e la figlia.”
La ragazza lancia una rapida occhiata alla detective, rimasta in disparte qualche passo dietro le due rosse, rivolgendo poi uno sguardo interrogativo a Martha, quasi chiedendole se anche lei fosse autorizzata ad ascoltare. Consenso che le sopraggiunge con un immediato cenno del capo.
“La prego, ci dica qualcosa. Cos’è successo? Lo hanno portato via ormai più di mezz’ora fa. Hanno detto che sarebbe stata una cosa rapida. Qui i medici corrono come impazziti e non ci dicono nulla.”
“La TAC ha rivelato la presenza di un ematoma subdurale. C’è stato una complicazione e l’hanno dovuto portare d’urgenza in sala operatoria.”
“Un ematoma... di cosa si tratta, che genere di complicanza?”
“Il sangue si è espanso tra l’encefalo e la meninge più vicina al cervello, questo ha causato una crisi convulsiva. Ora stanno cercando di riparare il danno.”
“E come sta andando?” Interviene la detective.
“Ancora non lo so, ma vado ad informarmi e vi porterò notizie il prima possibile.”
Martha è visibilmente scossa. Abbraccia la piccola, tenendola stretta a sé come se bastasse quell’abbraccio a proteggerla dal mondo. Senza farsi notare, Kate raggiunge la dottoressa, avendo nella testa solo il silenzio dei pensieri non espressi da Alexis, esternati unicamente da quella lacrima che aveva brillato sul suo viso adamantino.
“Mi scusi, ancora una domanda, quali potrebbero essere le conseguenze se qualcosa dovesse andare storto?”
Osserva ciò che la circonda sospettosa, sa bene che non potrebbe dare questo genere di informazioni a lei, ma non riesce a tacere notando l’inquietudine nei suoi occhi.
Sospira lentamente, lasciando poi che un sorriso tirato le increspi le labbra rosee.
“Generalmente viene presa in tempo, l’intervento è stato tempestivo, non c’è motivo di pensare che-”
“Vorrei solo sapere quali potrebbero essere i rischi maggiori.” Specifica scandendo con cadenza marcata le ultime parole.
“I deficit neurologici possono essere vari. I più probabili sono la paresi totale di una parte del corpo e la memoria potrebbe risultare compromessa. Ma non credo che-”
“D’accordo, ehm... grazie.” La interrompe quasi bruscamente. Non vuole sentirle dire che tutto andrà bene, non se non può assicurarglielo al cento per cento.
La ragazza annuisce prima di sparire dietro le porte che la condurranno al lungo e buio corridoio, unica barriera rimasta tra lei e la sala operatoria.
 
I minuti scorrono lenti. Prima di quel momento Beckett aveva sempre pensato fosse un logoro modo di dire, ma purtroppo aveva scoperto quanto fosse vero, ogni minuto passava con lentezza innaturale, le lancette sembravano non spostarsi che di qualche millimetro.
Aveva chiamato Ryan ed Esposito. Il caso appariva più complicato di quanto sembrasse.
La prima pista aveva condotto all’ex compagno di cella di McDermot, uscito giusto un paio di giorni prima e con il quale aveva avuto un’accesa discussione nel cortile della prigione. La cosa era degenerata in fretta, sotto le incitazioni degli altri detenuti. Quando le guardie erano intervenute erano già volate parole pesanti e minacce. Tuttavia era risultata un fallimento totale.
Adesso erano diretti verso l’abitazione della fidanzata, nella speranza di scoprire qualcosa di utile. Non erano certi che sarebbero riusciti a concentrarsi al meglio dopo quello che gli aveva appena detto la collega.
L’avevano salutata una volta parcheggiata l’auto davanti alla villetta di proprietà dei genitori della ragazza, promettendole che l’avrebbero raggiunta appena possibile.
 
La sala d’attesa del pronto soccorso è sempre più gremita di gente. Pare non svuotarsi mai, per ogni persona che esce ne entrano il triplo.
Il dottor Bolkowitz appare come dal nulla davanti a loro. Solo Kate lo riconosce ancor prima che si tolga la mascherina quasi trasparente, ora accartocciata nel cestino vicino all’accettazione. Accanto a lui un altro medico che, nervosamente, fa passare la cuffietta blu a righe bianche da una mano all’altra. Non è difficile capire che non sia un buon segno.
Non si muovono, solo la detective si alza in piedi, come al cospetto di un’autorità superiore.
“Durante l’operazione ci siamo accorti che l’ematoma si è espanso più di quanto credessimo.” Comincia mandando in frantumi quel silenzio straziante. “Abbiamo tentato di riassorbirlo, ma l’afflusso di ossigeno al cervello si è interrotto per diversi minuti. ”
“Questo cosa significa?”
“La mancanza di ossigeno al cervello può causare dei danni a livello neurologico, ma anche fisiologico. Il corpo di suo figlio in questo momento non è in grado di reagire... è in coma, mi dispiace molto.”
Quella parola risuona nell’aria come un’eco, rimbombando tra le mura e nelle loro teste.
“Se volete vederlo, dovrebbero averlo già portato in camera.”
Come automi si alzano seguendo il giovane neurochirurgo, Matt Stramb. Kate trattiene il dottor Bolkowitz per un braccio, sente il camice sfuggirle tra le dita.
“È grave, non è così?”
“Ancora non lo sappiamo, ma sai bene che anche se fosse così non sarei autorizzato a dirtelo, Kate.”
“Questa è già una risposta sufficiente.” E lasciandolo solo davanti a quelle sedie pieghevoli ora vuote, come incolpandolo dell’accaduto, raggiunge la porta chiusa ai lati della quale, su di un impersonale pannello quadrato, risalta il numero della stanza, 470.
Alexis siede a un lato del letto, stringe il braccio del padre. La sua voce è poco più di un sussurro.
Svegliati, svegliati, svegliati.
Ripete incessantemente, mentre Martha guarda fuori dalla finestra.
Piove.
Un tipico temporale primaverile. Scrosciante, come una cascata, eppure le gocce sembrano morbide, accarezzano dolcemente i ciottoli che segnano il vialetto nel giardino.
Non se la sente di entrare. Lascia andare la maniglia, accostando semplicemente la porta scura.
Gira per i corridoi smarrita. Non ha una meta precisa, almeno fino a che non individua la macchinetta del caffè.
Fruga nelle tasche alla ricerca di qualche spicciolo. Sembrano essere sufficienti, ma, una volta dentro, il distributore pare non volerne sapere di erogare la bevanda. Sbuffando, lascia un paio di pugni ben assestati sulla plastica rigida sfogando così parte della sua rabbia. Ringrazia di non aver permesso a quella giovane dottoressa di dirle che tutto sarebbe andato bene, altrimenti niente le avrebbe impedito di cercarla e appenderla come un quadro a una delle pareti vuote e impersonali dell’edificio.
Il gorgoglio del caffè rilasciato nel bicchiere le dona un momentaneo sollievo.
Lo beve con tranquillità, estraniandosi da tutto. Dovrebbe chiamare i ragazzi e avvisarli, ma in quel momento non riesce a muovere un muscolo e si lascia avvolgere dal tepore della bevanda.
Passano una ventina di minuti.
Ritorna davanti quella stanza e, non appena varcata la soglia, un’infermiera entra seguita da Stramb, di cui riconosce la cuffietta blu con motivi bianchi riposta nel taschino del camice.
La donna sistema la flebo, controlla il macchinario, tutto sotto lo sguardo assente di Martha e quello attento di Alexis.
“Può sentirmi?” Domanda con innocenza. L’infermiera la osserva per un istante senza proferire parola, riprendendo poi i suoi controlli. “Si risveglierà, non è vero? Voglio dire, magari non adesso, ma domani?” Un altro sguardo dell’infermiera. Sta per aprire bocca, ma il neurochirurgo la interrompe.
“No...”
Kate rimane basita dall’iniziale freddezza e dalla schiettezza di quella risposta.
“Mi spiace dovervi dire che nonostante le funzioni vitali siano buone il suo cervello è... clinicamente morto.”
“Cosa? No! Papà, papà svegliati, ti prego, svegliati!”
“Non può sentirti, lo vorrei, ma non può. Ormai tutto ciò che riguarda le sue emozioni e la sfera ricettiva non funziona più. Mi dispiace.”
“Lei cosa ne vuole sapere? Stia zitto, stia zitto!” Singhiozza fuori di sé.
“Avrei bisogno di farle una domanda.” Prosegue a voce bassa, con tono solenne e rispettoso, rivolgendosi direttamente a Martha. Non la conosce, non ne sa il nome, eppure, da come parla, è come se la conoscesse da sempre.
“Certo...” è sconnessa, la detective immagina quali possano essere i suoi pensieri. Un figlio perso. La stessa storia che si ripete.
“So che è un momento difficile, ma non ha lasciato nulla di scritto, non ha un documento che attesti se lui sia un donatore o meno.”
Lo guarda accigliata, non riuscendo a capire quale sia la reale domanda.
“Dovrebbe decidere lei cosa fare.”
“Oh”, guarda Kate per una frazione di secondo. “Io credo che lui... si, lui avrebbe voluto essere utile e d’aiuto quindi... quindi si, si fate quello che dovete fare.”
Stramb annuisce verso l’infermiera mormorando un semplice “portatele le carte da firmare, fate tutti gli esami e chiamate l’UNOS”, prima che le urla della piccola Castle irrompano prepotenti nella stanza.
“No! Nonna, no! Come puoi, come puoi fare questo a lui? Non toccatelo, non lo toccate, non potete toccarlo. No!”
“Alexis, tesoro, vieni fuori.”​
Sembra tornata in sé e ora la sua parte autoritaria torna alla ribalta.
No, no, no!
Continua a urlarlo mentre la nonna l’accompagna fuori.
Le osserva ancora da dentro la camera, le vede piangere. Stessi sentimenti, ma espressi in maniera differente. Chi urla e piange accasciandosi contro il corpo di lei che da ora dovrà essere il pilastro della famiglia. Chi geme, soffrendo quasi in silenzio, stringendo a sé quella ragazzina così fragile e devastata.
Lascia la stanza solo quando vede altre infermiere avvicinarsi e si sente improvvisamente di troppo.
Prende il cellulare dalla tasca, sfiora più volte il tasto di chiamata. Come può chiamarli e dargli per telefono una notizia del genere. Sospira, si passa una mano tra i capelli che le ricadono poi con pesantezza sulle spalle.
Non sa per quanto continui con quello strano rituale mentre passeggia avanti e indietro alzando solo occasionalmente lo sguardo verso di lui. A interromperlo però arriva una voce roca.
“Katherine, avrei bisogno di parlarti.”
“Non ora dottor Bolkowitz.”
“È importante invece.”
Lo guarda con cipiglio, tenendo le braccia incrociate al petto.
“D’accordo, mi dica.”
“Abbiamo un donatore.”
“Di cosa sta parlando?”​
“Di te. C’è un donatore, un donatore per te.”
“Non è il momento adatto. Lì, in quella stanza, c’è una persona a me cara che non si sveglierà più. Sua madre ha appena dovuto firmare il consenso per-”
Tutto si fa più chiaro e lei capisce.
John abbassa lo sguardo sui guanti in lattice che ancora gli coprono le mani. Lo stetoscopio al collo riflette la luce impersonale e fredda dei neon creando piccoli e sottili fasci di luce sul pavimento.
“Non rimane molto tempo. Devi decidere in fretta Kate.” Sa bene che il tempo che le resta per decidere non sarà mai abbastanza per assimilare la cosa. Che sarà costretto a metterle pressione, cosa che non gioverà affatto al suo stato psicologico pre e post operatorio, ma non può fare nient’altro. Del resto avrebbe fatto lo stesso per sua figlia, o almeno gli piace pensare che sia così. “Tornerò tra poco.” Ed ora si limita a guardarla camminare lenta, quasi inconsapevole del fatto che il suo corpo si stia muovendo.
Se ne va a capo chino, ripone il telefonino nella tasca anteriore dei jeans e, ancora una volta, prende la maniglia tra le mani e questa volta, senza timore o ripensamenti, entra.
La stanza è deserta. Solo lei e lui.
Li siede accanto, carezzando le lenzuola in cotone azzurro.
Gli stringe la mano cercando invano di far intrecciare le loro dita.
La sua pelle è morbida e ancora così calda.
Gli sfiora i capelli scostandoglieli dalla fronte. Con l’indice percorre il profilo delle labbra appena umide che si schiudono per un solo istante, ma non un respiro ne esce.
Parla, racconta una storia, la sua storia. Quella che lui era curioso di conoscere. Perché poliziotto, perché non avvocato? Cos’era successo ai suoi sogni?
Gli svela tutto.
A bassa voce, dolcemente, come se lui stesse dormendo e temesse di svegliarlo, ma non si sveglierà, neanche tra urla e boati.
Le parole lo raggiungono, lo circondano, riempiono quella stanza dai muri bianchi e asettici, e lui non riuscirà ad udirne alcuna.
Non può sentirla, non può guardarla, non può stringerle la mano che ha poggiato sulla sua.
Non potrà più donarle nulla se non il suo cuore e i ricordi e gli affetti in esso racchiusi.





Diletta's coroner:
Pensavate che si fosse salvato, eh? Scusate, ma l'animo angst ha avuto il sopravvento.
Un momento difficile adesso.
Per Martha, per Alexis e per Kate, soprattutto per Kate.
Nel prossimo, ed ultimo, capitolo vedremo cosa deciderà.
Grazie a chi con pazienza sta seguendo questa storia!
Baci
  
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