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Autore: RainbowCar    26/11/2013    5 recensioni
"Ho passato a rimpiangere di essere viva gli ultimi sette anni. E ora mi ritrovo nuovamente a nascondermi, a desiderare di essere morta al posto di qualcun altro, a vedere morire qualcuno restando in disparte, impotente. Sola. "
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Comandante Shepard Donna
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Contenuti forti
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Era successo di nuovo. Ancora una volta tutti quelli a cui tenevo, tutti quelli che amavo, erano morti. Ho promesso a me stessa che, semmai riuscirò a sopravvivere, non amerò mai più.
La prima volta era successo su Mindoir.
Avevo solo sedici anni e ho visto morire un’intera colonia, ho visto morire la mia famiglia. Mio padre, mia madre. Mia sorella.
Nessie. La prendevo in giro, le dicevo che aveva quel nome perché era talmente brutta che mamma e papà l’ avevano chiamata come un mostro. E allora lei iniziava a lamentarsi, a dire che ero crudele, a chiamare la mamma per farmi spiegare tutte le volte che il suo nome era Nausicaa e che non apparteneva a un mostro, ma alla bellissima e gentile fanciulla che aveva aiutato Ulisse durante le sue avventure.
Era bellissima la mia Nessie, davvero. Aveva solo dodici anni quando la uccisero.
Tentai con tutte le mie forze di trattenerla, la strinsi forte, l’afferrai per un braccio ma lei non si arrese, si liberò dalla presa e abbandonò il nascondiglio per correre da papà.
Li vidi morire attraverso strette fessure. Un colpo secco al petto per papà. Uno alla spalla per Nessie. Ma non era ancora morta. L’afferrarono per i capelli e la sollevarono, la mia piccola Nessie. Vidi le lacrime rigare le sue guance, poi furono sostituite dal sangue, copioso, intenso. I lunghi riccioli dorati imbrattati di una poltiglia disgustosa. Un colpo alla testa, le spararono in faccia. La mia bellissima Nessie. Uccisa, sfigurata, violata.
Mamma fu la più fortunata. Non si accorse di nulla, non vide morire nessuno. Un colpo alla nuca, prima ancora che entrassero in casa. Cadde davanti a noi come una foglia secca cade da un ramo. Ricordo ancora il rumore dei piatti infranti a terra. Stava preparando la cena, portando a tavola il nostro piatto preferito. La sua faccia affondò nella salsa bollente che inondava il pavimento.
Papà ci disse di nasconderci e di non uscire per nulla al mondo. Noi obbedimmo, io obbedii.
Ero sempre stata una figlia diligente, fin troppo. Nessie invece era quella ribelle. In quell’occasione avrei voluto che avessimo l’una il carattere dell’altra. Avrei voluto prendere il suo posto, avrei voluto salvarle la vita. Ma non l’avevo fatto.
Ho passato a rimpiangere di essere viva gli ultimi dieci anni. E ora mi ritrovo nuovamente a nascondermi, a desiderare di essere morta al posto di qualcun altro, a vedere morire qualcuno restando in disparte, impotente. Sola.
Akuze. Un altro pianeta che ricorderò per il resto della mia vita.
Credevo di essere abituata alla morte ormai, di aver acquisito una sorta di immunizzazione.
Mi è già capitato di perdere degli uomini, dei compagni, ho anche ucciso, laddove si è trattato di scegliere tra la mia vita e quella del nemico, senza mai soffermarmi a riflettere su quanto dolore procuri.
Dopo Mindoir ero giunta alla conclusione che fossi sopravvissuta per un motivo, una ragione sconosciuta, e che dovessi continuare a farlo a tutti i costi per dimostrarlo. In fondo anche il mio nome è un oscuro presagio di qualcosa di ignoto.
Mia madre era un’appassionata di storia antica. In particolare amava la mitologia. Il suo lavoro nei campi non le aveva impedito di farci crescere ascoltando storie sugli Dei dell’Olimpo, l’Odissea, l’Eneide, i miti e le leggende dell’antica Grecia. E con una delle protagoniste di quelle storie condividevo la stessa sorte avversa e lo stesso nome.
Cassandra.
Condannata, impotente, ad assistere a tragedie senza poter fare nulla per impedirlo.
Credevo di esserci abituata, di aver già vissuto il peggio. Invece ora si aggiunge un dolore diverso, ma altrettanto straziante.
 
Io lo amavo. Mi ero innamorata. Non credevo sarebbe stato mai possibile. Ho avuto altre storie ma quello che provavo e provo ancora per Dante non l’ho mai provato prima.
Artigliere capo Dante Josè Costela. Era stato appena promosso.
Lo conoscevo da un paio d’anni. Ci eravamo visti parecchie volte, anche in situazioni non ufficiali. C’era sempre stata una sorta di alchimia tra noi, ma non eravamo mai andati oltre una semplice conversazione.
La sera prima di partire per Akuze invece è scattato qualcosa.
Eravamo felici di essere stati assegnati alla stessa unità, non importava che io fossi un suo superiore quella notte, lo sarei stata a partire dalla mattina dopo.
E’ stata una notte indimenticabile. Abbiamo fatto l’amore più volte, con passione, frenesia, liberandoci della rigida etichetta che ci obbligava a una certa distanza, delle regole che ci impedivano di “fraternizzare”, di legarci l’uno all’altra.
La seconda volta è stata anche l’ultima: appena accampati su Akuze, col rischio di essere scoperti, per quanto possibile prudenti.
Eravamo solo ragazzi.
Sotto i gradi sulla divisa, sono, anzi, ero, solo una giovane donna, innamorata dell’uomo più bello che avesse mai visto.
Dante era alto, aveva un fisico scolpito dall’ addestramento militare, era forte, ma allo stesso tempo delicato. Aveva origini brasiliane, sebbene fosse cresciuto in Europa. Un anno meno di me, la carnagione olivastra, gli occhi verde smeraldo, una piccola cicatrice sul labbro superiore che mi faceva impazzire… la trovavo tremendamente sexy.
Adoravo mordicchiare le sue labbra mentre passavo una mano tra i suoi folti capelli castani. Lui mi stringeva forte, insinuava le sue mani sotto la mia maglietta per accarezzare la mia pelle.
Era capitato un paio di volte che riuscissimo a stare da soli in quel modo per pochi minuti durante il viaggio. Non avevamo avuto tempo, in quelle occasioni, di concederci totalmente l’uno all’altra, ma baci e carezze infuocate erano il nostro modo per ricordarci che ci appartenevamo.
Avevo notato sorrisetti di troppo da parte di alcuni soldati, ma erano svaniti in fretta dopo occhiate risolutive da parte mia. Non ci avevo dato troppo peso, in fondo non avevano fatto nulla di male, così come ero convinta che non avessi fatto nulla di male anch’io. E poi dovevamo indagare sulla scomparsa della squadra di ricognizione, non avevamo tempo per simili sciocchezze.
Sembrava tutto così tranquillo. Un campo vuoto, ma tranquillo. Fin troppo. Era sicuramente successo qualcosa.
 
Non sapevamo cosa aspettarci, ma non volevamo passare quella notte separati.
“Credo di amarti” mi aveva detto poche ore prima, quando mi aveva raggiunta nel mio alloggio.
Avevo sorriso. Ero felice, come non lo ero mai stata. Talmente felice che non ero riuscita a rispondergli, non ero stata in grado di dirgli che lo amavo anch’io. Troppa felicità, non pensavo di meritarla, non pensavo che l’avrei mai provata.
Mi ero limitata a ringraziarlo mettendomi a cavalcioni sopra di lui, permettendogli di entrare ancora una volta -per l’ultima volta- dentro di me.
Ricordo le sue mani sui miei glutei, le labbra calde sul mio seno, la mia schiena inarcata, i movimenti accelerati in prossimità dell’orgasmo, il respiro affannato, l’odore della sua pelle, i nostri corpi avvinghiati.
Come Cassandra, la veggente, sapevo che non avrei mai dimenticato quegli istanti.
Avrei voluto prevedere anche quello che ci aspettava di lì a poco.
 
L’attacco ci ha colto di sorpresa nel bel mezzo del sonno.
Le urla ci hanno svegliato, immediatamente dopo il container è stato sbalzato a una decina di metri di distanza dalla sua posizione originale. All’inizio non abbiamo capito cosa fosse successo, poi abbiamo visto la morte venire verso di noi e non abbiamo potuto fare altro che tentare di sfuggire a un destino già segnato.
Il codice dell’Alleanza “invita” a darsela a gambe e a non tentare inutili eroismi di fronte a quei mostri: divoratori, vermi giganti che si fanno strada sottoterra, distruggendo qualunque cosa incontrino sul loro cammino, forse allertati dal rumore delle nostre sonde.
Impossibile abbatterli senza una potenza di fuoco consistente, che noi non avevamo. E a dire il vero non avremmo nemmeno avuto il tempo di armarla. Erano in troppi.
Tutto è durato solo pochi minuti, appena prima dell’alba. Non abbiamo potuto fare niente, solo scappare e chiamare aiuto.
Nave più vicina: circa cinque anni luce, mezza giornata di viaggio.
Spacciati.
Sarebbe stato inutile restare nascosti nei container, i divoratori mangiano metallo, roccia, carne.
Mi sono guardata intorno, mentre correvo, disperata, senza meta. Non ho visto nessuno, nessuno vivo, nessuno intero. A parte Dante.
Erano cessate anche le urla. Intorno a noi brandelli sparsi di parti umane. Cinquanta marine, solo due ancora vivi.
L’unico modo per avere una speranza era raggiungere un’altura e sperare che le vibrazioni dei nostri passi non arrivassero ad allertare quei mostri.
Il cielo si stava rischiarando all’orizzonte e una collina era davanti a noi.
“Dobbiamo raggiungerla” gli avevo detto. Dovevamo scalare quella montagna.
Dante non se l’era fatto ripetere due volte. Era davvero veloce, forse spinto dall’adrenalina. Ho fatto quasi fatica a stargli dietro eppure lui mi ha aspettato, non mi avrebbe mai lasciata.
Ci siamo arrampicati su per la ripida roccia usando come appiglio le poche sporgenze che offriva.
Eravamo quasi in cima quando a un tratto un masso si è staccato facendogli perdere il punto d’appoggio.
Dante è rimasto sospeso sull’abisso, aggrappato solo con una mano. Io mi sono protesa verso di lui, l’ho afferrato per il braccio ma non riuscivo a trattenerlo, era troppo pesante. Stavo per perdere l’equilibrio.
“Lasciami andare, o cadrai anche tu”
“Mai!” gli ho risposto “io non ti lascio!”
E così è stato lui a lasciare me.
Ancora una volta, qualcuno che amo si è liberato della mia presa e ha scelto di morire. Come Nessie, quell’orribile giorno di dieci anni fa, ha scelto di allontanarsi da me andando incontro a morte certa.
Ho visto Dante precipitare nel vuoto, ma con un’espressione serena. Lui ha voluto che io vivessi. Non ho avuto tempo di compiangerlo, ho dovuto raggiungere la cima.
E l’ho raggiunta, da sola, carica di un ulteriore peso che non so se riuscirò a sopportare ancora.
Per adesso me ne sto qui, rannicchiata, aspettando che atterrino i soccorsi. Sperando che mi trovino, e allo stesso tempo sperando che non lo facciano. Non ho più lacrime. Non riesco a piangere. Voglio solo annegare nel buio del mio cuore.

Addio Dante, spero che ovunque tu sia abbia incontrato Nessie. Dalle un bacio da parte mia.
  
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