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Autore: Soqquadro04    27/11/2013    5 recensioni
[AU!Futurverse (ventisette anni, quattro mesi e nove giorni dopo) | Malinconica | Sì, devo smetterla di girovagare fra le liste di prompt]
«Ti sei portato a letto mia figlia.» la osserva, senza sapere come rispondere. Dopo tutto, l'ha fatto. Non dovrebbe essere così tranquilla.
Infatti. [...]
La sua espressione infuriata è uguale eppure differente da come rimane, immutata, nei suoi ricordi. Osservandola ancora, capisce perché. [...]
[...] attorno agli occhi e alla bocca si notano piccole rughe che prima non c'erano e che – se ne rende conto solo in questo istante –, non aveva mai pensato potessero esserci, è ancor meno minacciosa di com'era in precedenza.
Gli verrebbe da ridere, se fosse qualcun altro. [...]

Elena ha scelto di vivere felicemente la sua vita, da umana e senza nessun Salvatore attorno.
Al momento ha quarantaquattro anni, e una figlia di ventuno che non le assomiglia quasi per niente. Ma ha i suoi stessi occhi, quello sì.
Occhi che, per puro caso, attirano inesorabilmente un certo qualcuno che fa parte del passato e non tornerà a far parte del presente, nonostante uno schiaffo in ricordo dei vecchi tempi e un sorriso incrinato come ultimo conforto.
Genere: Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Damon Salvatore, Elena Gilbert, Nuovo personaggio
Note: AU, What if? | Avvertimenti: nessuno
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N/A - Note dell'Autrice - Premessa

Buonsalve, lettrici.
Voi conoscete l'effetto che mi fa girovagare per le liste di prompt del TVG, vero?
Ecco, questo, lo sapete.
Sono triste, in generale. Quindi, di conseguenza, oggi vi beccate questa qui.
Appuntino veloce: nella mia testa, la figlia di Elena (che sia la Lizzie che descrivo io o una avuta da non-voglio.sapere-chi) si chiama Elizabeth. Perché, sempre nella mia testa, Damon le ha parlato di mamma Salvatore - che si chiama Elizabeth - e lei ha voluto renderle omaggio chiamando la bimba così - qualunque cosa sia successa nel mentre.
Prima o poi devo descrivere il momento in cui gliene avrebbe parlato, nella mia testa, perché se no non ci si capisce nulla...
Poooi: ho utilizzato una citazione da Harry Potter e i Doni della Morte, e chi ha letto il libro/visto il film (è da un po' che non lo guardo, ma quella scena deve esserci, perché è una di quelle più importanti...), saprà anche perché non appena la nota: è tratta da una conversazione fra Dumbledore/Silente e Snape/Piton (fra l'altro, quanto ho pianto, quanto ho pianto...), riguardo il Patronus di Severus. Il che è storia lunga e complicata ma, sintetizzando: l'Expecto Patronus è un incantesimo molto personale, il cui effetto è l'evocaizone di un Patronus, un essere argenteo creato da un ricordo felice che rispecchia tantissimo l'anima di una persona, prendendo la forma di un animale... nella fattispecie: il Patronus di Lily Evans-Potter, mamma di Harry, era una cerva, e in quel preciso momento del libro Silente scopriva che anche quello di Piton prendeva la stessa forma, anche dopo tanti anni passati dalla sua morte, svelando che ne era e ne era sempre stato innamorato.
E tutto ciò è così inesorabilmente triste.

Ah, un'altra cosa: per questa FF in particolare sono pronta a ricevere pomodorate in faccia per l'IC!

A presto,
la vostra Soqquadro

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H
er eyes are the same

 

“Dopo tutto questo tempo?”
“Sempre.”
J. K. Rowling
Harry Potter e i Doni della Morte

 

 

Damon Salvatore, quel mattino di primavera, sta cautamente cercando di richiudere dietro di sé la porta di un appartamento non suo, facendo meno rumore possibile. Fortunatamente, la ragazza ha continuato a dormire, rigirandosi di tanto in tanto fra le lenzuola sfatte, anche mentre si rivestiva e si preparava a sparire come un ladro. Routine, in fondo.

La notte prima, ancora una volta, non ha dormito a casa propria. Casa, poi.
Un monolocale con giusto lo spazio per un carrello dei liquori e un divano letto – scomodo.
Non la considera casa. Del resto, la sua vera casa l'ha lasciata molti anni fa e non ha intenzione di tornarci presto.

Comunque, quel posto è davvero grazioso: arredato con un certo gusto, colori chiari e pareti dipinte a tinte vivaci.
La proprietaria di tale grazioso luogo, certo, non ha nulla da invidiare alla sua dimora.

Un lieve sorriso gli increspa la bocca, nel rammentare la sicurezza con la quale gli si è avvicinata, la sera prima: abbastanza alta, probabilmente a causa dei tacchi di dieci centimetri sui quali, gli aveva confessato lanciando le scarpe dall'altra parte del salotto mentre si spogliava, non era nemmeno in grado di camminare, capelli chiari. E... occhi grandi.

Profondi. Castani.

Occhi che gli avevano portato alla mente ricordi di un'altra vita, di un altro volto, di un altro sorriso.
E per un attimo gli si era fermato il respiro e uno sguardo vulnerabile era affiorato, insieme a quei ricordi. Un solo attimo.

Poi aveva sfoderato quel ghigno incrinato da anni di sofferenza, sorrisetto collaudato e funzionante per la caccia. Mezz'ora dopo, stava spalancando la portiera di un taxi con una donna impaziente praticamente appesa al braccio. Come una graziosa borsetta umana.

Quando aveva visto quegli occhi – familiari. Rassicuranti. E tanto, troppo uguali a quelli di lei – socchiudersi per il piacere, aveva voltato il capo. Non era riuscito a osservarla, perché sapeva che se l'avesse fatto i lineamenti che gli sarebbero comparsi davanti non sarebbero stati reali.

Dopo, si era limitato a scivolare fuori da lei, lasciandosi andare pesantemente contro i cuscini e continuando a ignorarla molto poco cavallerescamente. Ma non ce la faceva, non aveva la forza di guardarla, non mentre era ancora perso in una piccola cittadina della Virginia, intento a combattere contro momenti passati che alla fine non sono passati davvero.

E così si era addormentato, irrequieto, per poi risvegliarsi verso le sei e mezza, raccattare i vestiti, indossarli e sparire come se non fosse mai stato lì.
Tutto come programmato.

In effetti, l'unico dettaglio degno di nota è il qualcuno che gli arriva addosso, anche piuttosto violentemente, mentre si volta per iniziare a scendere le scale.

Istintivamente, allunga le braccia per sostenere l'altra persona, senza essere ancora riuscito a scorgerne il volto, per poi fare un passo indietro e permettere a entrambi di riprendere l'equilibrio.

E quando abbassa lo sguardo, delle cortesi scuse pre-registrate già pronte sulle labbra, il respiro si spezza e gli occhi si sgranano e le mani ricadono lungo i fianchi perché non è possibile, semplicemente.
E non sono quelle adorabili e graziose scuse per nulla newyorchesi che inquinano con un soffio di fiato la calma del condominio.

È un nome.

Un nome che non pronuncia da tempo e che credeva, fino a quel momento, non avrebbe chiamato mai più.

***

Elena lo guarda, confusa quanto e forse più di lui, come se non lo vedesse da un'eternità. In un certo senso, forse, è così: ventisette anni, quattro mesi e nove giorni – ha smesso di contare le ore circa dieci anni prima –, per un essere umano, sono parecchi. E sono tanti anche per un vampiro, se ha passato quel carico di notti a cercare di far marcire un fegato immortale in orribili bettole di periferia e a nutrirsi senza piacere da impersonali sacche di sangue – quell'odio verso il cibo in scatola non se n'è mai andato, eppure, chissà perché, non beve direttamente da una vena da così tanto che ormai non ricorda quasi più la sensazione di pulsazioni sotto le labbra –, e tutti quei giorni spesi a girovagare senza una meta particolare per le strade di città sempre diverse, sempre identiche.

E ora lei è lì. Davanti a lui.

I capelli scuri, decisamente più corti di com'erano l'ultima volta che l'ha vista, e con qualche filo grigio a far capolino fra le ciocche scurissime, incorniciano un volto che conserva ancora alcuni dei tratti che rammenta, molto più ingentiliti e meno appuntiti.
La studia, perfettamente immobile, confrontando l'immagine di lei che conserva gelosamente da quando ha lasciato Mystic Falls con quella della donna che lo scruta attentamente, sorpresa di vederlo lì, incredula, consapevole.

Sa che lei sta facendo la stessa cosa, che con gli occhi ripassa di nuovo, e ancora una volta, i suoi lineamenti. Lui è identico al se stesso di ventisette anni, quattro mesi e nove giorni prima, proprio com'è identico al se stesso di centosettantadue anni prima.

Ma lei è diversa: non è più la diciottenne dallo sguardo stanco e l'anima divisa, non è più un'adolescente indecisa. È una donna.
Una bellissima donna che rimane in silenzio per attimi eterni,

«Sei tu.» mormora piano Elena, sollevando appena una mano come per sfiorarlo, per poi rinunciare.

Ma nel profondo, Damon sa che anche lei, in un certo senso, non è cambiata: i suoi occhi sono gli stessi di sempre, sono le iridi enormi e scure di cui si è innamorato, sono semplicemente identici a come li ha immaginati.

In quegli occhi, all'improvviso, Damon nota un lampo di quella che potrebbe essere gioia, o riconoscimento. Forse si è convinta che lui è veramente lì, e ancora non vuole domandarsene il motivo.

Riesce a stupirlo: gli si avvicina, cauta – quasi temesse un rifiuto, anche dopo tutto quello che le ha concesso –, e lo abbraccia.
Lo stringe a sé, affondando il naso nell'incavo del suo collo e alzandosi in punta di piedi per tenersi meglio alle sue spalle.

Lui quell'abbraccio non lo ricambia, troppo impegnato a inspirare il suo profumo.
Lei che sa di rose d'estate, di addii che non sottintendono un “arrivederci”, di amore doloroso.
Sente le sue dita fra i capelli, ascolta il suo cuore che batte, veloce e reale.

Rimangono così per un tempo che definire infinito non è esagerato, anche se la logica suggerisce che siano passati solamente pochi minuti.
E poi Elena si allontana, e il calore che ha avvertito scaldargli il petto svanisce per diventare solo un altro ricordo.

«Cosa ci fai qui?» è la prima domanda che gli rivolge, mentre continua a osservarlo senza riuscire a distogliere lo sguardo. Del resto, lui non è da meno.
Al suo interrogativo, il vampiro inarca le sopracciglia e non può impedirsi di sfoderare il suo miglior tono da “ma non è ovvio?”

«Ci ho passato la notte, qui. E prima che mi investissi in maniera molto poco delicata me ne stavo giusto andando, a dire il vero, perché non mi sembra il caso di dare false illusioni a una dolce donzella.» conclude, scrollando le spalle e notando con ansia crescente le sopracciglia corrugate e l'improvviso pallore di lei.

Pensa di avere osato troppo, nello svelare con quella noncuranza che lui non è solamente identico nell'aspetto, ma anche nei modi di fare.
Non la capisce, mentre pare vedere per la prima volta gli abiti leggermente stropicciati e vagamente odorosi di fumo – quello che gli rimane costantemente addosso quando esce da uno qualsiasi dei locali in cui passa buona parte delle sue serate – che ha indosso.

Poi parla di nuovo, con l'unico risultato di stranirlo ancora di più.

«Da dove sei uscito? Da che appartamento?» il suo tono è pericolosamente urgente, e gli occhi vagano agitati senza soffermarsi su nulla in particolare. Muove le mani, nervosamente.
Damon lancia un'occhiata da sopra la spalla, indicandoglielo con i gesti prima ancora che con le parole.

«Da questo. Cosa c'è, la gelosia si fa insopportabile?» la battuta gli scappa prima che possa evitarlo, e la sua prima reazione è uno sguardo ansioso: teme nuovamente di essersi preso troppa confidenza, dopo tutti quegli anni di lontananza.

Eppure, la donna sembra non farci neppure caso, come se non l'avesse udito. Sbianca ulteriormente, assumendo un colorito incredibilmente malsano, e fa un passo indietro, rischiando di ruzzolare per tutte e tre le rampe di scale.

Damon allunga il braccio, preoccupato, ma si trattiene dallo sfiorarla quando nota i suoi occhi sgranati e l'espressione di puro ribrezzo che le si è dipinta in volto.
Mormora qualcosa di indistinto, a voce tanto bassa che persino lui fatica a capire.
Certo, quando comprende, non è che la situazione sia molto più chiara.

«Elizabeth... oh, santo cielo, Elizabeth...» il vampiro aggrotta le sopracciglia, i pensieri che corrono ad una strana associazione di idee: che c'entra sua madre, adesso?

Per più di un attimo non trova una logica alle guance bianche di lei, alle labbra che tremano incontrollate mentre pare non riuscire a muoversi.
Poi, un ricordo confuso lo gela sul posto.

«Ciao. Io sono Elizabeth.»
«Ciao a te, Elizabeth... io sono Damon.»

E quella somiglianza, la presenza di quegli occhi su un viso che non è quello di lei, acquista finalmente un senso.
Una pugnalata al cuore, quando nello sguardo spaventato che gli lancia, Damon nota un terrore antico e radicato che solo una madre – almeno su qualcosa ha avuto ragione – atterrita può provare.

Lei non fa nulla.

Rimane immobile, come svuotata da ogni emozione, per un tempo che si dilata pressoché all'infinito. Fissa senza particolari espressioni ora la porta dietro di lui, ora il viso dai tratti magnetici, senza mai incrociare i suoi occhi.

Ha paura.

Dopo aver ripreso un poco di colore, aggrotta la fronte, come arrivando solo in quel momento a un dettaglio che non aveva ancora preso in considerazione - per evitare di soffermarsi su qualcosa di molto, troppo più orribile.

«Ti sei portato a letto mia figlia.» Damon la osserva, senza sapere come rispondere. Dopo tutto, l'ha fatto. Non dovrebbe essere così tranquilla.

Infatti.

Il suono secco dello schiaffo echeggia fra le pareti deserte dei pianerottoli, perfettamente udibile nella silenziosa tranquillità delle sette.
Non si è nemmeno accorto del suo movimento.
L
a sua espressione infuriata è uguale eppure differente da come rimane, immutata, nei suoi ricordi.

Osservandola ancora, capisce perché.

Ora che il suo viso ha perso un poco della spigolosità di zigomi e mento, ammorbidendo gli angoli acuti fino a trasformarli in curve vellutate, e attorno agli occhi e alla bocca si notano piccole rughe che prima non c'erano e che – se ne rende conto solo in questo istante –, non aveva mai pensato potessero esserci, è ancor meno minacciosa di com'era in precedenza.

Gli verrebbe da ridere, se fosse qualcun altro.

«Ti sei portato a letto mia figlia!» il modo di farlo sentire in colpa in sette parole. Come se l'avesse obbligata a fare qualcosa, poi.
Una fitta al cuore, quando gli viene in mente che lei pensa sia esattamente così.

«Beh, non l'ho costretta io! Tecnicamente è lei che mi ha trascinato nel suo letto: le ho solo dato cor...» non riesce a concludere la sua – pessima – difesa che la vede lanciarsi contro di lui, intenzionata a gettarlo a terra pur di passare.

E in un attimo è il panico, un panico irrazionale e senza senso. Come ogni volta, quando si tratta di lei.
Sente che se va ora, sarà per sempre. Se la lascia andare, l'avrà persa – di nuovo, di nuovo, di nuovo.
Non può.

E la trattiene, la stretta decisa sulle sue spalle magre – abbastanza forte da farle capire che non ammorbidirà la presa, troppo poco per farle del male. Come sempre –, senza quasi rendersene conto.
Non è un gesto che aveva programmato di fare – non ha ancora deciso se vuole veramente trattenerla, se vuole affrontarla, se desidera riaprire una ferita che, alla fine, non ha mai neppure accennato a chiudersi.

È più qualcosa d'irragionevole, inutilmente speranzoso, che gli viene da un istinto che non è quello del vampiro. Che non potrebbe essere più lontano da quello, in effetti.

È uno di quei gesti che si fanno per riempire uno spazio vuoto – qualche secondo di indecisione, per esempio – perché, semplicemente, non si può rimanere fermi. O forse è solamente quel che voleva fare, senza perdersi in inutili chiacchiere filosofiche.

E ora si ritrova con una madre terrorizzata e, aspetto peggiore della faccenda, infuriata a morte con lui, trattenuta solo da quella che dovrebbe essere forza sovrannaturale accumulata in due secoli circa di vagabondaggi. Lanciando un'occhiata al volto di lei, improvvisamente, non gli pare assolutamente abbastanza.

Elena si dibatte nella sua stretta, tentando vanamente di indietreggiare, fissandolo con sguardo di fuoco. Gli sibila un'intimazione cui non avrebbe ubbidito nemmeno prima, figurarsi adesso che, perlomeno, ha ripreso ad assomigliare, almeno un poco, al se stesso che era prima di incontrarla.

«Lasciami.» se non ci fosse lui a tenerla, strattonando in questo modo all'indietro, cadrebbe dalle scale ruzzolando per tre piani. Decide di non farglielo notare, limitandosi a stringere la presa e a voltare il corpo quasi impercettibilmente, facendo muovere anche lei – allontanandola un po' di più dal bordo del primo gradino, in definitiva.
«No.» nega, scuotendo la testa. Se la lascia andare, sarà per l'ultima volta – non può, davvero non può lasciarla andare.

Lei scatta in avanti, tentando di coglierlo di sorpresa. Non ci riesce, comunque – però ha un meraviglioso successo nel rischiare di farli cadere entrambi a terra.
Lo guarda ancora, esasperata, e per un attimo pare stanca. Molto stanca, come se avesse lottato troppo – forse contro di lui?

Forse l'ha fatto, realizza mentre gli risponde – una risposta che non è una preghiera anche se può sembrarlo, e che non è un ordine anche se ci somiglia.
È solo una constatazione. E fa male, fa veramente male – più di quanto ricordava, peggiore di come aveva pensato potesse essere.

Come sempre, alla fine.

«Lasciami, Damon. Non sono più quell'Elena – quella che si rassegna a entrare in macchina e fare la brava, quella che, alla fine, accetta che non la mollerai. Hai, in tutta probabilità, fatto del male a mia figlia. Quindi, ora, lasciami andare.» è la prima volta che lo chiama per nome, da quando gli è inciampata addosso. Ma non fa in tempo ad assaporare la sensazione, perché poi comprende.

Lui non è cambiato.

Lei crede che sia tutto uguale, pensa che in quasi trent'anni nulla si sia modificato, immagina che il mondo sia rimasto identico.

E gli fa rabbia.
Per un momento, per più di un momento, la rabbia è l'unica emozione che balugina in fondo alle iridi chiare.
Una rabbia bruciante, alimentata da troppi anni e troppi dolori e troppi, troppi ricordi.

Come fa, come fa quella donna a credere che sia rimasto tutto come ricorda, quando tutto stava già cambiando quando se n'è andata?

Ma, poi, capisce anche qualcos'altro.
Lei non sa nulla, non ha visto i sacrifici e la sofferenza e le notti infinite.
È solo una madre spaventata. E chi è lui per irrompere di nuovo, a forza, nella sua vita? Chi gliene darebbe il diritto?

Non ha nemmeno più senso, ormai.

E anche la rabbia scivola via – tanto vale che anche lei scivoli via. In fondo, se n'è già andata.

La lascia. Scostandosi di lato, liberando il pianerottolo. Senza nemmeno dirle che sua figlia sta bene – che non le ha fatto assolutamente nulla.
Ha i suoi occhi.

La lascia andare. In tutti i sensi.

Mentre la vede correre svelta verso la porta, bussando quasi febbrilmente – preparandosi già a chiamare un'ambulanza, forse –, sa già che non la rivedrà mai più.
Che dovrebbe imprimersi nella memoria quell'istante, perché sarà l'ultimo.

Elena si volta, uno sguardo fugace nella sua direzione, per controllare se è ancora lì, se sta scendendo, se si è volatilizzato – lo spera, magari.

Poi, nei suoi occhi, deve trovare qualcosa – forse un frammento di ricordo, forse una rassicurazione che è riuscita a scappare – che la calma. Che, forse – troppi forse, troppo poche sicurezze per riempire ventisette anni di silenzi –, le dice che, dopotutto, è cambiato.
E, forse, Damon Salvatore, in quegli occhi, riesce a vedere un barlume di gratitudine.

In ogni caso, prima di sparire – da quel palazzo, dalla sua vita – increspa la bocca in un mezzo sorriso – e le fa un altro regalo.

Un sorriso, prima di andarsene da Mystic Falls – un sorriso per ricordarlo. Un sorriso egoista, perché lei avrebbe dovuto dimenticare.
Un sorriso, prima di andarsene per l'ultima volta – un sorriso per farle dimenticare.

E anche se qualcuno gli ha insegnato che il dolore non sparisce – sparisce solo il ricordo, solo il ricordo –, sa che l'ha liberata da un ricordo abbastanza pesante da poter essere considerato un dolore.

   
 
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