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Autore: Vals Fanwriter    01/12/2013    5 recensioni
Alla luce del fuoco i suoi occhi non sono più verdi. Brillano della sua luce aranciata e i movimenti delle fiamme si specchiano distintamente nelle sue pupille. Per un momento, mi fermo a fissarli e probabilmente non mi ci sono mai soffermato più di tanto, dato che solo adesso mi rendo conto del luccichio coinvolgente che possiedono.
Huntbastian (a senso unico), con accenni Thadastian | OS | Introspettivo, Sentimentale, Commedia
Genere: Commedia, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Hunter Clarington, Sebastian Smythe
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Titolo: Di campeggi, debolezze e compagni impiccioni.
Prompt: "Perché dobbiamo dormire nella stessa tenda?" / "Perché il tuo gatto ha reso inutilizzabile la mia."
Pairing: pseudo-Huntbastian, con accenni Thadastian. #Ireallydontknow
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Commedia.
Avvertimenti: OS.
Rating: Verde.
Note di Vals: Cosa. Ho. Creato. Non lo so, ma facciamo così, fingete che non sia stata io a scriverla. Okay? Okay. Buona lettura e non mi odiate. xD ♥

 



 
Di campeggi, debolezze e compagni impiccioni.



 
A Nym, perché a quanto pare questo è
l’unico modo per farti stare buona. :P

 


Non ho idea di come sia successo, di come io mi sia ritrovato circondato da pozze di fango, insetti e profumi talmente intensi da costringermi a starnutire ogni poco e ad imbottirmi di farmaci contro l’allergia, pur di sopravvivere ad un weekend in mezzo ai boschi. So solo che il colpevole e l’ideatore di questa sorta di scampagnata da scolaretti di prima elementare non può che essere lui, quella sottospecie di nanerottolo che si è inaspettatamente appropriato del ruolo di leader dei Warblers: Trent Nixon. Mi sarei volentieri risparmiato tutta questa noia alla “figli dei fiori” che loro, da idioti quali sono, chiamano campeggio, ma a quanto pare, se voglio ottenere un minimo di considerazione in questo club da strapazzo, devo prestarmi anche a questa pagliacciata.

E così, eccomi qui, ad offrire la mia forza e la mia esperienza per montare tende, accendere il fuoco e distribuire compiti vari per l’allestimento di quest’ “accampamento”. Questi stupidi ragazzetti non fanno altro che ridere e battere la fiacca, se non ci fossi io a quest’ora saremmo ancora a fissare le libellule e i girini nel laghetto. Invece, la nostra sistemazione per la notte – grazie a me – sembra essere a buon punto.

Non mi è ancora ben chiaro il motivo per cui siamo finiti qui, ma ricordo vagamente che, mentre Nixon cercava di spiegare i suoi programmi – ed io non ascoltavo una sola parola di quello che diceva – mi è parso di afferrare un “legare tra di noi” e un “Warblers a scatafascio” quindi, in definitiva, ho dedotto che la pulce stesse pianificando una “cura di ricostituzione” per il gruppo. Perché sono certo al cento per cento che ce l’abbia ancora con me per quella questione e sta cercando di utilizzare questa gita a mo’ di “punizione”. Che gran rottura di scatole.

‹‹Quando hai finito lì, vieni a darci una mano con le provviste.››

‹‹Non sono la tua cuoca, Nixon. Aiutati da solo.››

Quindi adesso devo sopportare la bellezza di ventiquattro ore con questa banda di marmocchi pestiferi e fare anche la parte di quello che si diverte? Sarà un lungo weekend.
 



 
• ● •
 



 
‹‹Miaaaooo~››

Clarence è appollaiato sulle mie gambe e reclama cibo, così come sta facendo anche il mio stomaco, ma qualcuno – non si sa bene chi, dato che dubito esista una sola persona in grado di cucinare tra questi sempliciotti – ha deciso che era troppo presto per preparare qualcosa di commestibile e che, invece, era il caso di sedersi intorno ad un fuoco a cantare “The Queen of Lower Chelsea”, giusto per ammorbidire l’atmosfera e farci sembrare un po’ più barboni di quanto già non apparissimo. E per inciso, più che cantare sembrerebbe quasi che stiano mugolando e cercando di attirare un branco di lupi affamati – almeno loro si sazierebbero. Insomma, non si direbbe affatto che questi siano componenti di un club di canto coreografato, somigliano più a una setta religiosa, ecco.

‹‹Miaaaaaooooo~››

‹‹Non capisco perché hai portato anche la palla di pelo.››

È Smythe che ha parlato. Se ne sta mezzo sdraiato sul prato, poco distante da me, con i gomiti poggiati tra l’erba e il viso rivolto al cielo, ormai più viola che aranciato a causa del tramonto. Lascio una carezza leggera sulla  nuca di Clarence, in un riflesso automatico che quasi vuole giustificare, in parte, la sua presenza al campo.

‹‹E io non capisco perché abbiano portato anche te›› dico con sarcasmo, inarcando un sopracciglio e guardandolo a mala pena, con la coda dell’occhio.

‹‹Perché sono l’anima della festa, è ovvio.››

E no, non è affatto ovvio, dato che non ha fatto altro che starsene sdraiato per tutto il giorno a gettare sguardi al cellulare. È stato solo quando Nixon è passato tra di noi con una piccola borsa tra le mani, quello stesso pomeriggio, con l’intenzione di sequestrare tutti i telefoni che c’erano al campo, che Smythe ha alzato il culo per fare qualcosa – una minima cosa che consisteva nel sistemare i suoi bagagli in una delle tante tende che io avevo messo su. A quanto pare, le distrazioni sono bandite, e i telefoni sono una di quelle distrazioni, perciò l’unica cosa che ci è permessa fare, adesso, è cantare e parlare e condividere cose come una qualunque squadra dovrebbe fare. Cazzate, insomma.

‹‹La tua festa fa profondamente schifo allora, Smythe.››

‹‹Miaaaaaaaooooooo~››

Il coro di voci strozzate e lamentose si interrompe dopo la bellezza di venti minuti, durante i quali ormai ho rinunciato a voler ricevere qualcosa da mettere sotto i denti in cambio della mia disponibilità ad allestire l’accampamento. Qui sembra che io sia l’unico ad avere fame. Tutti gli altri ancora ridono e parlottano e perdono tempo inutilmente, e forse il problema è proprio questo: non mi va minimamente di unirmi a loro, o anche solo di fare come Smythe che se ne sta tranquillo a mimare il ritornello della canzone che gli è rimasta in testa – da lui lo posso anche accettare, lo fa sottovoce, non è poi tanto fastidioso – e continuo a pensare al tempo che non vuole passare, al cielo che non vuole farsi buio e a quegli spiedini a cui proprio non vogliono spuntare le gambe per andarsi a cuocere da soli. E più penso, più il nervosismo aumenta e raggiunge il suo apice nel momento in cui Duval scatta in piedi e guarda tutti con un sorriso inquietante che non preannuncia niente di buono. Ma chi me l’ha fatto fare?

‹‹Ho un’idea per passare la serata. Facciamo un gioco!››

‹‹Ci sto. Che gioco?››

‹‹“Indovina chi”. Io penso a uno del nostro gruppo e ognuno di voi prova a dare un indizio per indovinare a chi sto pensando, che ne dite?››

‹‹Sembra carino, provia-››

È in quel momento che la mia pazienza raggiunge il suo limite e che decido di mettere fine a quella pagliacciata il più in fretta possibile. Il problema è che anche qualcun altro raggiunge la mia stessa conclusione e, nell’esatto momento in cui lo faccio anch’io, esclama:

‹‹È biondo.››

‹‹È Sterling.››

Volto il capo in direzione di Smythe e mi accorgo che anche lui mi sta fissando. In men che non si dica, gli compare in volto un ghigno.

‹‹Mi sa che abbiamo indovinato›› dice e, per la prima volta da quando lo conosco, non provo la voglia innata di punzecchiarlo o mandarlo a quel paese.

‹‹Dalla faccia che ha fatto sembrerebbe di sì.››

Alla fine, Duval decide di squalificarci dal gioco perché, a detta sua, abbiamo infranto le regole incominciando a giocare prima che lui desse il via. Chiamatele pure “regole intelligenti”, ma io e Smythe intanto ci abbiamo azzeccato.
 



 
• ● •
 
 



‹‹Ne è rimasto ancora uno.››

‹‹Io sono pienissimo, non ce la faccio. E voi?››

‹‹Anche io. Ho mangiato troppo.››

‹‹Pure io.››

‹‹Io no.››

Lo penso e lo dico a voce alta nel momento in cui Wilson si sta sporgendo verso il piatto di plastica con lo spiedino avanzato. Lo fulmino con lo sguardo. Io ho lavorato tutto il giorno, io sono quello che ha bisogno di più energie ed io sono quello che si sta annoiando a morte, che ha la fame nervosa e che non vede l’ora di andarsene a dormire, affinché faccia di nuovo giorno e io venga riportato in Accademia, posto dal quale non avrei dovuto muovermi, ma che, invece, sono stato costretto ad abbandonare perché “vieni, Clarington, abbiamo trovato una cosa strana.” E dire che io sono quello intelligente, come ho fatto a cascarci?

‹‹Ho ancora fame anche io›› dice una voce al mio fianco, costringendomi a darmi una svegliata per conquistare ciò che è mio di diritto. Smythe, maledetto.

‹‹Frena, culo di velluto. Quello l’ho prenotato io.››

Smythe ha già acciuffato il piattino, mettendoselo in grembo, sulle gambe incrociate, e si è voltato a guardarmi con quella smorfia simile ad un sorrisino che cerca di comunicarmi “non sei proprio ferrato con i soprannomi, uh, Clarington?”, ma non molla ancora il bottino.

‹‹La tua avidità è disarmante. E se lo penso io, beh, allora è tutto dire.››

Alla luce del fuoco i suoi occhi non sono più verdi. Brillano della sua luce aranciata e i movimenti delle fiamme si specchiano distintamente nelle sue pupille. Per un momento, mi fermo a fissarli e probabilmente non mi ci sono mai soffermato più di tanto, dato che solo adesso mi rendo conto del luccichio coinvolgente che possiedono. Provo ad ignorarli, a guardare altrove, e tendo la mano verso di lui per farmi passare il piatto.

‹‹Poche smancerie, dammi quello spiedino.››

Smythe non proferisce parola e io continuo ad ignorare l’espressione che ha in viso e ad osservare le sue mani che, dapprima erano chiuse attorno al bordo del piattino, adesso si spostano, prendono lo spiedino e sfilano un paio di pezzetti di carne dal bastoncino. È in quel momento che torno a sollevare lo sguardo su di lui.

‹‹Non essere egoista, per una volta.›› Mi passa il piatto in cui ha posato quei pezzettini – più di metà spiedino, per la verità. ‹‹Nixon ha detto che dobbiamo condividere.››

Prendo il piattino quasi per inerzia e lo osservo mentre, ghignando, con lo sguardo nel mio, dà un morso allo spiedino mezzo vuoto.

Un brivido.

‹‹Temo che Harwood ti stia fottendo il cervello.››

‹‹E non solo quello, credimi.››

Quando alzo lo sguardo sugli altri Warblers, schiudo la bocca nel vederli tutti immobili e intenti a fissarci, come se fossimo un miracolo divino. Evidentemente è una cosa che accade piuttosto raramente, quella di vedere me e Smythe lontani dallo scannarci. Anche se questa è la seconda volta a distanza di un’ora.

‹‹Che avete da guardare?››
 



 
• ● •
 
 



Una volta che le batterie dei miei compagni si sono esaurite, riesco finalmente a liberarmi di tutta quell’aria festosa e buonista che stava continuando ad aleggiare tra di loro. Un Nixon particolarmente esausto e dallo sbadiglio facile ha suggerito a tutta la compagnia di mettere la parola fine alla serata ed io, con estremo sollievo, non ho aspettato neanche che desse la buonanotte al gregge per defilarmi in direzione della mia tenda.

Quando mi chiudo nel piccolo spazio quieto e silenzioso, circondato dal tendaggio, sospiro di sollievo e mi lascio ricadere seduto sul cumulo di coperte che, in precedenza, ho accuratamente sistemato per farmi da giaciglio. Clarence non è più con me, ma non riesco a preoccuparmi per la sua assenza – visto che anche in Accademia capita che scompaia all’improvviso – piuttosto continuo a pensare alle risa dei miei compagni e alla loro spensieratezza, e mi chiedo perché continuino ad obbligarmi ad essere sempre presente alle loro gite fuori dal comune. Non voglio avere a che fare con loro e non do loro nessuna soddisfazione, in genere, perciò

Scosto leggermente le coperte e mi ci infilo sotto, giusto perché mi raffreddo a star fermo, e visto che ci sono, mi corico sulla schiena e chiudo gli occhi, mentre il mio cervello continua a macchinare velocemente e i rumori di voci, all’esterno, iniziano ad affievolirsi.

La cosa che mi dà da pensare, più di tutte le altre – rimugino mentre fisso il “soffitto” della tenda – è la costante presenza di Smythe. Anche stavolta, anche in assenza del suo cagnolino-Harwood, lui è qui. E sospetto che sia stato praticamente costretto anche lui a partecipare, tipo caricato in macchina di peso, o qualcosa del genere. Magari loro si sono accorti che lui mi coinvolge, che in maniera forse poco ortodossa e dannatamente fastidiosa, lui riesce a farmi diventare parte del gruppo. Forse è perché entrambi pretendiamo di avere l’ultima parola su tutto, forse perché entrambi vogliamo primeggiare, forse perché lui riesce a cavarmi qualche parola in più di bocca – parole scortesi, gran parte delle volte – fatto sta che di sicuro questo è uno dei motivi per cui-

Uno dei motivi per cui io-

Per cui lui-
 



 
• ● •
 
 



Un fruscio mi sveglia. Ma forse non è il fruscio, forse sono le coperte che si scostano, forse è il brivido di freddo che sguscia sotto di esse, forse il contatto con qualcosa di umano, qualcosa che mi sfiora il fianco, forse il borbottio che mi arriva alle orecchie. Apro gli occhi e sollevo una mano con l’intenzione di stropicciarmeli. Ho le palpebre talmente pesanti che non vogliono star su, ma la curiosità di capire se ho immaginato tutto oppure no è più forte del sonno e rimette in moto gli ingranaggi del mio cervello.

‹‹Rence…?››

‹‹Ti sembro un batuffolo bianco spelacchiato?››

E prima ancora di mettere a fuoco la figura al mio fianco, riconosco distintamente la voce di Smythe, odiosa come suo solito, e no, quella non l’ho immaginata. Sgrano gli occhi e mi metto a sedere.

‹‹Che diamine ci fai-?››

‹‹Rubo un po’ della tua ospitalità, ti spiace?››

Smythe si è praticamente impossessato di una buona metà del mio alloggio – e delle mie coperte, tra l’altro – ha portato con sé soltanto il suo cuscino, se l’è sistemato accanto al mio e adesso se ne sta disteso, tranquillo, con gli occhi semichiusi e i capelli scompigliati. Probabilmente stava dormendo prima di venire qui a-

A fare cosa?

‹‹Hai intenzione di restare?›› domando, tenendomi a distanza. Non sono abituato a condividere i miei spazi con qualcuno di- di così psicologicamente ingombrante.

‹‹Ho intenzione di dormire, in realtà.›› Smythe risponde con voce più strascicata del solito e, allo stesso tempo, assonnata e chiude definitivamente gli occhi, tirandosi la coperta fin sotto il mento. Ha le guance più rosse per il sonno – non riesco ad impedirmi di notarlo – e in quel contesto, capelli disordinati e tutto il resto, lo fanno sembrare proprio un bambino.

‹‹Perché- Perché qui?›› dico, cercando di schiarirmi la voce – una strana morsa allo stomaco me l’aveva portata via per un attimo. ‹‹Insomma, perché dobbiamo dormire nella stessa tenda? Tu hai la tua.››

‹‹Perché il tuo gatto ha reso inutilizzabile la mia›› mugugna lui e volta leggermente il viso verso di me, continuando a tenere gli occhi chiusi, come per stare più comodo, e senza avere la minima intenzione di alzare il culo e andarsene.

Non mi dà neanche il tempo materiale per cacciarlo via o per dire qualcosa di sensato, tenergli testa, o fargli una ramanzina coi fiocchi, perché quello inizia a respirare profondamente e in maniera rilassatissima, ed è in quel momento che capisco che a nulla serviranno imprecazioni e proteste. Smythe sta poltrendo come Dio comanda ed io non posso farci nulla. Neanche mi va di svegliarlo, a dirla tutta. Sarebbe un mucchio di fatica sprecata ed io sono già stanco. Perciò mi stendo nuovamente e mi stupisco della lentezza con cui lo faccio, quasi stando attento a non fare movimenti bruschi e a non svegliare quel moccioso di Smythe.

La mia schiena tocca terra e, automaticamente, i miei occhi vanno a cercare il suo viso. È una situazione nuova e non solo perché Smythe non ha mai dormito così vicino a me, ma piuttosto perché non l’ho mai visto così tranquillo e silenzioso e-

Bello.

Distolgo lo sguardo e mi do dell’idiota. Il sonno forse mi sta facendo brutti scherzi perché, nella mia testa, all’improvviso, Smythe non è bello come potrebbe essere qualsiasi ragazzo. Non è quel tipo di “bello” dove tu sei costretto a dare un giudizio e dici “oh, sì, è un bel ragazzo”. Smythe è naturalmente bello, te lo strappa dalla testa quel pensiero anche se non vuoi, anche se ti stai sforzando di non pensarlo. Non mi ha mai fatto quest’effetto. È come se avessi spento un interruttore per bloccarlo ed esaminarlo e per cercare qualità che ancora non avevo notato. Capita spesso che io lo guardi più del dovuto, ma mai-

Mai mi sono fermato ad osservare la sua bocca. Mai mi sono ritrovato a farmi domande come: “chissà se-?”, “chissà come-?”, “chissà cosa-?”

E forse quegli spiedini che ho mangiato a cena erano conditi con qualche ingrediente strano, o forse il buio mi sta dando coraggio e mi sta inducendo a fare cose stupide ma, intanto, succede che mi sono leggermente sollevato, puntellando un gomito a terra, e mi sono allungato verso di lui. E la sua bocca ora è vicino la mia, e il suo respiro è caldo, ed è Sebastian Smythe lui, ma in questo momento non mi importa.

Lo bacio. Spengo il cervello e lo bacio. E faccio attenzione a fare piano, a lasciare carezze delicate per non svegliarlo e farlo durare comunque il più a lungo possibile, perché nel momento in cui ho toccato le sue labbra, ho avvertito una sensazione strana. Un misto di batticuore e piacere e paura, e non sono sicuro di volerne fare a meno adesso.

Tuttavia, non posso rischiare che si svegli, non posso mostrarmi a lui così debole e dargli un’ulteriore motivo per cui farlo sentire il solito Dio sceso in Terra. Mi allontano e mi prendo un attimo per osservarlo ancora, la sensazione del bacio ancora vivida e il cuore che fa ancora baccano. E c’è questa parte di me che vorrebbe riprendere possesso delle sue labbra e baciarlo più forte, ma l’altra, quella più sensata, vince e mi costringe a rimettermi al mio posto e a dimenticare l’accaduto.

‹‹Hai già in mente qualcosa per farmi tenere la bocca chiusa, Clarington?››

Smythe apre gli occhi nell’esatto momento in cui proferisce parola e, se possibile, il mio cuore rischia di sgusciare fuori dal mio petto, dinanzi alla consapevolezza che quello stronzo stesse solo fingendo di dormire. Il peso del mio busto è ancora retto dal mio gomito e il mio sguardo è andato a cercare il suo immediatamente, quando ho sentito la sua voce.

‹‹Eri- eri sveglio?››

‹‹Non ho mica un interruttore per spegnermi?›› Ghigna e non sembra per nulla infastidito dal contatto appena avvenuto tra di noi. Pare lusingato, piuttosto. ‹‹Baci bene, comunque.››

Sbuffo e mi faccio scorrere una mano sul viso, come cercando di far sparire la sua faccia dalla mia vista, ma quando la scosto, lui è ancora lì, è la mia dignità che è andata a farsi una passeggiata.

‹‹Lo so perfettamente, grazie di avermelo ricordato›› borbotto, dopodiché mi stendo, voltandomi su un fianco, dal lato opposto rispetto a dove si trova lui, con la chiara intenzione di mettere fine a qualunque conversazione post-bacio. Ma Smythe è più sveglio di quanto non fosse poco prima e sembra non avere la minima intenzione di mettere da parte l’accaduto. Un piccolo fruscio mi fa capire che si sta avvicinando. A confermare le mie ipotesi vi è la sua mano che corre a sfiorarmi il fianco come se nulla fosse. Come se non fossi io quello che sta sfiorando. Quella carezza mi raggela e mi fa avvampare allo stesso tempo.

‹‹Non mi sembra un gesto carino, il tuo›› sibila e, nel farlo, la sua voce diventa sensuale di proposito, pur conservando quel pizzico di divertimento nel tono, ‹‹baciarmi e poi fingere che io non esista, intendo.››

Stringo i denti, come cercando di isolarmi mentalmente da lui, ma le sue dita continuano a solleticarmi e, anche attraverso la felpa che indosso, sembrano fatte di fuoco, maledizione.

‹‹Sei tu che ti sei infilato nella mia tenda›› sbotto, con voce non completamente sicura – quello che ho detto non c’entra niente col bacio, del resto – e fermo i suoi movimenti andando a stringere saldamente la sua mano con la mia ed immobilizzandola contro il mio fianco.

‹‹Baci tutti quelli che si infilano nella tua tenda senza permesso quindi?››

Sta ghignando, riesco a capirlo anche senza voltarmi a guardarlo in viso. Ghigna e si avvicina ancora fino a che il suo petto non sfiora la mia schiena, le sue gambe i miei polpacci, il suo mento la mia spalla. Quand’è che ha iniziato a fare così caldo?

‹‹E tu ti strusci contro tutti quelli che ti baciano, Smythe? La tua bambolina potrebbe non essere d’accordo, se per caso lo scoprisse.››

Smythe rimane in silenzio per un attimo, forse colpito in pieno dalle mie parole. Il mio tentativo di difendermi sembra aver funzionato. Sembra, appunto, perché poi lui riprende ad avvicinarsi e pressa il petto contro le mie scapole – facendomi stringere lo stomaco in una morsa, a causa di quella vicinanza – allunga leggermente il viso e raggiunge il mio orecchio, con le labbra, per sussurrare:

‹‹Io credo che convenga più a me che a te, che questa cosa si sappia in giro. Non trovi anche tu?››

Anche se quella suona come una minaccia, il mio corpo reagisce in maniera diversa. Viene scosso da un brivido caldo che mi costringe a sospirare nell’esatto momento in cui la mano di Smythe scivola via dalla mia presa e il suo corpo si stacca dal mio, allontanandosi. Chiudo gli occhi, come per far sparire quella sensazione.

‹‹Resta nella tua metà di tenda›› borbotto in risposta, tra i denti.

‹‹E tu fa’ lo stesso›› mi rimbecca Smythe.

E poi lui si addormenta, stavolta per davvero, mentre io rimango sveglio, a lungo, cercando di rimettere insieme tutto quello che Smythe ha sconvolto. Invano.
 



 
• ● •
 
 



Quando mi sveglio, la tenda è vuota, ma il ricordo del bacio, risalente a poche ore prima, è così vivido che la mia mente proprio non ce la fa a farlo passare per un semplice sogno e a dimenticare quanto il sottoscritto si sia reso ridicolo. Baciare un uomo, ma come ha fatto a passarmi per la testa quell’idea?

Mi metto a sedere e osservo le coperte in disordine dal lato in cui Smythe ha dormito, e la risposta a quella domanda si presenta come una fitta piacevole dalle parti del basso ventre, accompagnata dal ricordo delle ciglia lunghe del mio compagno e delle sue labbra.

Emetto uno sbuffo e mi passo una mano tra i capelli, cercando di ridarmi un tono, dopodiché decido di uscire dalla tenda. Stare lì a rimuginare contribuirebbe soltanto a farmi impazzire più del dovuto.

Una volta fuori, respiro a pieni polmoni l’aria fresca del mattino. C’è silenzio, questo significa che è ancora presto e che gli altri stanno ancora dormendo. Ho la spalla sinistra un po’ indolenzita – dato che vi ho fatto gravare il peso per tutta la notte, pur di non voltarmi verso Smythe – così mentre avanzo verso il punto in cui fino a ieri sera vi era un fuoco scoppiettante, me la massaggio leggermente. Adocchio all’istante il profilo delle spalle di Smythe, seduto a terra con le gambe incrociate, i capelli lisci e più ribelli del solito e la postura dritta ed elegante. Vorrei tornare indietro, ma sarebbe da stupidi e da codardi, oltretutto Smythe sta parlando con qualcuno e la cosa mi incuriosisce stranamente. Forse è riuscito a recuperare il suo cellulare e a chiamare Harwood. Mi avvicino per sentire meglio, sia mai che io riesca ad ottenere informazioni utili per umiliarlo e vendicarmi di stanotte.

‹‹Sta’ buono, non è successo niente. Avanti, non fare così, micetto.››

Micetto… Potrei vomitare.

‹‹Smettila di fare l’odioso con me. Ti ho promesso che non ti faccio male di nuovo. Fidati, cazzo.››

Perfetto, gli ha raccontato tutto di stanotte. Ma sei un genio, Smythe.

‹‹Ecco, vedi? Non sei tanto male quando non mi ringhi contro. Ora lasciami fare, okay?››

Lasciarlo fare? Lasciargli fare cosa? Stanno architettando qualcosa contro di-?

‹‹Miaaaaa- ooooo~››

Clarence.

Il miagolio sofferente del mio gatto proviene esattamente dallo stesso punto in cui è seduto Smythe. Aumento il passo per raggiungerli, terrorizzato dall’idea che Smythe stia facendo chissà cosa a Rence. Il mio compagno si accorge del mio arrivo – i miei passi sono diventati pesanti e rumorosi sull’erba – e si volta verso di me, osservandomi da sopra una spalla.

‹‹Che diavolo stai facendo a Cla-?››

Il gatto entra finalmente nella mia visuale e mi ci vuole un attimo per rendermi conto che Smythe non gli sta facendo male, ma lo sta aiutando. Sulla zampetta anteriore, una delle due, vi è conficcato un riccio di castagna verdissimo e spinoso.

‹‹L’ho trovato qui che si lamentava. Sto cercando di toglierglielo, ma non vuole stare fermo›› dice e scuote leggermente la testa, tornando ad abbassare lo sguardo sul mio gatto. ‹‹Sei cocciuto proprio come il tuo padrone, uh?››

Clarence ha smesso di muoversi adesso, forse tranquillizzato dall’aver sentito la mia voce, o forse rilassato dalle carezze dietro le orecchie che gli sta lasciando Smythe. Quest’ultimo sorride sinceramente nel vederlo più calmo e solleva gli occhi verdissimi per puntarli nei miei. Quella scena, nel suo complesso, riesce a scaldarmi il cuore.

‹‹Uhm, faccio io. Tu continua ad accarezzarlo›› propongo, ma Smythe non proferisce parola. Mi segue con lo sguardo mentre mi sposto dinanzi a lui e mi abbasso sulle ginocchia. I miei occhi non lasciano i suoi mentre poso le dita sulla zampetta di Clarence. ‹‹Okay, adesso glielo tolgo. Tu distrailo.››

‹‹Oh, in quello sono bravo. Distrarre un Clarington è piuttosto facile per me.››

Grugnisco un’imprecazione tra i denti. Lo sapevo che non avrebbe aspettato ancora a lungo prima di rimettere in mezzo quella storia.

‹‹Tu fallo e sta’ zitto.››

‹‹Agli ordini, Generale.››

Pochi secondi dopo, Clarence emette un lamento simile a uno squittio mentre estraggo il riccio dalla zampetta con un movimento secco. Lo getto da qualche parte senza badarci, dopodiché gliela stringo con delicatezza tra le dita, accarezzandola lievemente col pollice.

‹‹Ecco, è passato›› mormoro con dolcezza, senza badare minimamente alla presenza di Smythe. Non mi importa che si prenda gioco di me, non in questo momento e non per questo motivo. Lo ignoro e allungo le braccia, facendole passare attorno al corpicino di Rence, per prenderlo in braccio e poi farlo adagiare contro il mio petto. Mi alzo in piedi e mi allontano da lui, e anche se so che mi sta ancora fissando, non ci bado, almeno fino a che non riprende a parlare a voce bassa.

‹‹Non ho intenzione di dirlo a nessuno›› dice senza giri di parole ed io stringo automaticamente più forte Clarence al petto, come per difendermi da lui.

‹‹Tanto lo sanno tutti che con Clarence mi comporto così.››

‹‹Lo sai che non sto parlando di quello, Hunter.››

Hunter. Mi ha chiamato per nome e qualcosa dentro il mio petto si è mossa, costringendo i battiti del mio cuore ad accelerare. E non è per la premura lieve e insolita che il suo tono di voce nasconde, è per il suono che il mio nome assume, se pronunciato dalla sua bocca.

Non lo guardo. Se lo guardassi adesso, probabilmente capirebbe tutto. Rimango voltato di spalle, muovendo ritmicamente le dita sul pelo di Clarence per dissimulare qualsiasi emozione.

‹‹Lo so›› sussurro e, dopo aver taciuto per un lungo momento, aggiungo: ‹‹Grazie.››

È in quel momento che finalmente incontro il suo sguardo e mi accorgo che sta sorridendo, non in maniera beffarda, bensì con sincerità e un accenno di dolcezza, come se stesse accettando silenziosamente quel mio ringraziamento. Solleva un braccio e va a sfiorare con le dita la superficie del tronco sul quale è seduto, in un chiaro invito ad accomodarmi al suo fianco. E contro ogni aspettativa e logica, io lo faccio. Mi siedo a pochi centimetri da lui, col gomito che sfiora il suo, facendo accoccolare Clarence sulle mie gambe. Continuo ad accarezzarlo dolcemente e guardo davanti a me, verso il cielo color indaco.

‹‹Che cazzo. Non si può nemmeno avere un caffè in questa giungla›› borbotta Smythe ed io mi ritrovo ridere sottovoce tra i denti e a scuotere la testa, a quella battuta.

‹‹Dubito che esista una fottuta macchinetta del caffè nascosta in un tronco cavo.››

‹‹Già. Non mi sveglierò mai, è ufficiale.››

E mentre parlare diventa più facile, c’è Clarence, che allunga una zampa per sfiorare la gamba di Smythe, probabilmente in segno di riconoscenza.
 





 
   
 
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