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Autore: Mapi D Flourite    06/05/2008    3 recensioni
KaibaxJounouchi
Una giornata iniziata in modo terribile può finire in mille modi. A volte con una malattia e a volte ricevendo qualcosa che non ci si aspettava di ricevere...
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Joey Wheeler/Jounouchi Kazuya, Seto Kaiba
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Pairing: KaibaxJounouchi

Avvertenze: Shounen ai, nomi originali.

Spoiler: nessuno.

Note: Una volta mi è capitato di leggere, da qualche parte, che per i giapponesi rimanere sotto lo stesso ombrello con il ragazzo o la ragazza che piace è come dire di stare insieme, di essere innamorati. Capite anche voi che non potevo non scriverla…

Glossario (di eventuali parole straniere):
Bonkotsu: mediocre, comune, proletario (questo è il modo che ha Kaiba di chiamare Jounouchi nella versione originale dell’Anime)

Disclaimer: Yuugi-ou (Yu-Gi-Oh!) appartiene solo ed esclusivamente a Kazuki Takahashi, che detiene i diritti su vita e morte di ognuno di questi personaggi. Io li utilizzo solo per mostrare al pubblico quello che l’autore ha lasciato solo accennato.

Ringraziamenti: A Kazuki Takahashi, perché ha creato questa serie stupenda, a Karyon, donna meravigliosa che fa sempre di tutto per aiutarmi ad uscire dalle mie crisi di Blocco dello Scrittore e a mia sorella, che mi fa anche da Beta e senza la quale io non potrei mai nemmeno uscire di casa.

A Karyon che mi sopporta e mi supporta ogni volta che io ne ho bisogno.

-:-:-:-

Qualcuno mi aveva detto che il primo bacio non si scorda mai.
Io ci avevo creduto, come credo ad ogni cosa, ma non mi ero mai soffermato a pensare seriamente se la stessa cosa sarebbe capitata anche a me o no. Confidavo che sarebbe successo e non mi facevo domande in merito, crogiolandomi nell’illusione che anche questo ricordo si sarebbe sommato agli altri e sarebbe rimasto lì, in una scatolina nella mia testa, pronto ad essere richiamato alla memoria in qualsiasi momento, come tutti gli altri ricordi.
Fu solo quando lo ricevetti che capii in cosa ero andato a cacciarmi: il ricordo di quel bacio continua ad affacciarsi alla mia mente, e io ricordo esattamente com’è stato, me lo figuro nella testa, sento le stesse identiche sensazioni che ho provato allora. Quel bacio è il metro di paragone per tutti gli altri baci, è il punto di inizio di ogni cosa, una tappa fondamentale.
E, se devo proprio essere sincero, è stata una tappa piuttosto… particolare.
I baci di alcuni sono stati romantici, altri dolci, altri ancora passionali. Qualcuno dice di non aver sentito niente, mentre qualcun altro afferma che quella sia stata l’esperienza più coinvolgente della sua vita (naturalmente dopo il sesso).
Per quello che mi riguarda, il mio primo bacio è stato fradicio…

La pioggia risulta molto più irritante quando ci si trova per strada senza un ombrello e indossando solo un paio di jeans e una maglietta dalle maniche corte.
Il ragazzo camminava con le mani in tasca, le spalle rilassate, tenendo un’andatura blanda mentre tutto il mondo attorno a lui fuggiva dall’acqua come da una maledizione. È solo acqua, si asciuga…pensava, guardando con un misto di pietà e irritazione tutti i passanti.
Quando aveva iniziato a piovere, un’ora prima, aveva gridato, si era innervosito, aveva corso. Lo scroscio della pioggia aveva coperto le sue grida, l’acqua le sue lacrime. Lui non era fatto per litigare.
Non con i suoi amici, almeno. Non quando sentiva che tutta la sua vita stava andando a puttane. Non quando stava male. E loro lo sapevano; avrebbero dovuto saperlo.
Era colpa sua se suo padre voleva sbatterlo fuori di casa?
Era colpa sua se non riusciva a mantenere uno straccio di lavoro?
Era colpa sua se sentiva il bisogno di sfogarsi con le botte?
Era colpa sua se quel fottutissimo bastardo del suo ragazzo non si faceva vivo da un’intera settimana?
Lui sapeva benissimo che non era così, non completamente. Eppure tutti continuavano ad addossargliela, la colpa, rivolgendogli parole non pronunciate e frasi spezzate, guardandolo con quello sguardo gentile che vuol dire tutte le cose più brutte del mondo.
Ed ora era lì, a camminare per strada come se non avesse una meta, un posto dove andare. Le persone che incrociava per la strada correvano verso di lui e lo superavano spintonandolo e sballottandolo qua e là senza che lui facesse alcunché per impedirlo. Poi, com’era cominciato, tutto era finito. Le persone erano fuggite dalle strade, sparite, senza lasciare una minima traccia di sé e lui era rimasto ancora solo, in mezzo al nulla, davanti ad un vicolo che si diramava tortuoso dalla strada principale. Era piccolo, buio. Nascosto.
Sgusciò lentamente dietro l’angolo, lasciando che l’oscurità lo coprisse completamente alla vista. Strisciò contro il muro bagnato e, quando si rese conto che non sarebbe riuscito a fuggire dalla pioggia, si lasciò cadere a terra.
Rimase per un lungo momento seduto immobile nel silenzio; era stanco, arrabbiato e non riusciva più a smettere di piangere: si strofinò il naso con la mano, cercando col braccio di asciugarsi la faccia, mentre la pioggia gli inzuppava la frangia e le guance. Lasciò ricadere il gomito sul ginocchio, sconfitto, mentre l’acqua formava rigagnoli nelle pieghe della sua maglietta, sulla sua pelle, facendolo gelare fin nelle ossa.
Il cielo si oscurò ancora di più e la pioggia si fece più intensa, più tagliente; si schiantava a terra con uno schiocco e sul suo collo come una pugnalata. Era pesante. Incurvò maggiormente le spalle, abbracciandosi le gambe, mentre infilava la testa tra le ginocchia ossute.
Quasi non si accorse che passi lunghi e cadenzati si stavano muovendo nella sua direzione, fino a fermarsi proprio davanti a lui. Un momento dopo gli sembrò come se avesse smesso di piovere: l’acqua non gli batteva più sulla schiena e il rumore della pioggia gli giungeva lontano, come attutito, creando un suono morbido, ritmico, quasi rilassante.
Aprì per un attimo gli occhi e li richiuse subito dopo. Avrebbe voluto che il tempo si fermasse, che tutto rimanesse immobile, così com’era in quel momento.
Poi, tutto si ruppe: « Jounouchi. »
Era stato un sussurro; un sussurro che si sarebbe dovuto nascondere sotto il rumore della pioggia: al sentire quella voce il ragazzo sussultò. Indeciso su cosa fare, alla fine sollevò la testa, e quello che vide fu un’ombra, l’ombra di un altro essere umano.
La figura era alta, sottile e in quel momento si trovava sopra di lui, tenendo in mano un ombrello enorme che copriva entrambi. Jounouchi si passò un braccio umido sulla faccia per asciugarsi gli occhi e cercò di tirare indietro sulla fronte la frangia che continuava a sgocciolare.
La figura osservò Jounouchi dall’alto in basso in silenzio, prima di parlare nuovamente: « Se avevi intenzione di suicidarti ti saresti dovuto buttare da un ponte. In questo modo rischi al massimo una fastidiosa influenza. »
« Kaiba…? »
L’altro ragazzo rise tra i denti: « Sei conciato peggio di quello che credevo. »
I due rimasero immobili mentre Jounouchi faceva di tutto per mettere a fuoco la visuale. « Che ci fai qui? » chiese alla fine, senza smettere di stringere le ginocchia, ma protendendo la testa verso l’altro, desiderando da un lato di essere lasciato solo e, allo stesso tempo, chiedendogli di non andarsene.
« A quanto sembra, sono venuto a prenderti. »
Jounouchi ritrasse il collo, stringendosi nelle spalle: « A prendermi? »
L’altro sollevò l’ombrello di qualche centimetro, permettendo ad un filo impercettibile di luce di penetrare da sotto la stoffa scura per poter osservare meglio la scena. Jounouchi, in quel momento, gli sembrava un vecchio cane macilento, uno di quelli che vengono abbandonati in autostrada e che si trascinano da una parte all’altra delle città fino a crollare al suolo. Uno di quelli che, se non vengono salvati, muoiono sotto le ruote di un furgone.
Un immagine decisamente poco rassicurante. « Yugi e gli altri tuoi patetici amici saranno in giro per tutta la città a cercarti, » disse lui in tono sbrigativo, come se la cosa non avesse alcuna importanza.
« Yugi e gli altri… Aspetta un momento! » Jounouchi aveva alzato la testa e in un attimo sembrava aver ritrovato tutta la sua energia, tutta la sua grinta: « Tu come diamine fai a sapere di Yugi e degli altri? »
Kaiba rise. « Hai già smesso di rispondere a monosillabi? Perché la cosa cominciava a farsi interessante. » L’altro ragazzo lo fulminò con lo sguardo, ma lui si rifiutò di farsi trascinare ulteriormente in una battaglia verbale. « Comunque sia, mi ha telefonato perché credeva che tu fossi venuto a piagnucolare da me, e mi ha raccontato cos’era successo. »
Jounouchi si voltò a guardare alla sua sinistra senza un particolare motivo. Yugi e gli altri lo stavano cercando: probabilmente adesso erano tutti in giro per la città, fradici e infreddoliti, ad urlare il suo nome come matti nella speranza di ritrovarlo, senza immaginare lontanamente che lui si trovasse in un vicolo buio, nel bel mezzo del nulla assoluto.
Probabilmente si erano preoccupati a morte. Jounouchi abbassò gli occhi, fissando le sue Air Muscle. Come aveva potuto dubitare un solo secondo di Yugi? Come gli era passato per la testa? Lui era il suo migliore amico, no? Lui era una delle persone a cui voleva più bene sulla faccia della terra; con lui parlava di tutto, con lui stava bene. Yugi era uno dei pochi che sapeva tutto di lui: era stato il primo a sapere che a lui piacevano i ragazzi, era stato il primo a sapere che lui usciva con un ragazzo.
E Yugi aveva chiamato Kaiba.
E Kaiba era arrivato.
« Hai detto che sei venuto a prendermi? » gli chiese, sollevando il suo sguardo su di lui.
Kaiba sbuffò, spazientito. « Non costringermi a ripetermi. »
« Perché? »
« Perché sai che odio ripetermi. »
Fu il turno di Jounouchi di sbuffare: « Ma non questo, idiota! Volevo sapere perché sei venuto qui, adesso… a prendermi. »
Kaiba fece spallucce. « I tuoi amici credevano che tu avessi intenzione di ammazzarti da qualche parte, » disse, come se ciò dovesse bastare a spiegare tutto.
« Quindi spiegami bene… Tu sparisci dalla faccia della terra e poi pretendi di ricomparire all’improvviso fingendoti preoccupato? Cosa c’è che non va nella tua testa? »
I due rimasero a guardarsi con rancore per una manciata di secondi. Jounouchi aveva il viso arrossato e respirava velocemente, come se l’aver pronunciato quelle parole gli fosse costato una fatica immane.
« Cosa c’è che non va nella tua testa, cane randagio! »
Jounouchi premette la schiena contro il muro. Non era abituato a vedere Kaiba gridare, non contro di lui e, anche se da un lato ciò lo lusingava – portarlo fuori dai gangheri era un’impresa difficile, probabilmente ci era riuscito solo Yugi… o Ishizu – dall’altro era abbastanza convinto di non trovarsi in una condizione ideale per tentare giochetti: era stanco e infreddolito, e soprattutto era seduto a terra. Una posizione non proprio vantaggiosa per iniziare una rissa.
Kaiba, tuttavia, non sembrava incline a lasciar correre quello che ai suoi occhi appariva come un terribile affronto: « Prima di tutto, cosa diavolo vorrebbe dire che sono sparito dalla faccia della terra? »
Jounouchi deglutì. Dannazione a me e alla mia linguaccia! « Tu… è un’ intera settimana che non riesco a contattarti… » Improvvisamente quel pensiero gli sembrò incredibilmente stupido: infondo si trattava pur sempre di una settimana, no? Solo una pidocchiosa settimana.
« Se sei in grado di ridurti così perché non ci sentiamo per otto giorni, mi chiedo se per caso io non ti abbia sopravvalutato. »
Otto giorni? Li ha contati? « Non si tratta di questo! Non solo di questo. »
« E allora di cosa? » Era ancora nervoso, ma il suo tono si stava calmando.
« Non sono affari tuoi. »
Kaiba sbuffò, tentato di rispondergli, ma alla fine ci rinunciò. « Sentimi bene, Jounouchi, » disse, roteando gli occhi al cielo, « qui fuori dal vicolo c’è la mia macchina: ora ti alzi di lì, vieni con me e te ne ritorni a casa, siamo intesi? »
Jounouchi non rispose e a mala pena si mosse, ma qualcosa nel suo corpo lo stava implorando di alzarsi e di andare in qualche posto asciutto. Qualsiasi posto.
« Eri preoccupato anche tu, che io potessi farla finita? »
Kaiba fece un piccolo scatto indietro, come se si fosse scottato. Non rispose subito, indeciso su cosa dire: « Pensala un po’ come ti pare, » borbottò sbuffando.
Jounouchi sorrise e appoggiando una mano sull’asfalto bagnato si tirò in piedi, ma fu costretto immediatamente ad appoggiare una mano contro il muro. La testa gli girava vorticosamente e tutta la stanchezza che prima era rimasta a depositarsi sulle sue spalle colpì anche le gambe e la testa, facendolo quasi ricadere a terra.
Kaiba non si mosse in suo aiuto, ma attese fino a che l’altro non riacquistò completamente l’equilibrio e, quando gli sembrò che l’altro fosse in condizioni accettabili, si incamminarono.
Quando sbucarono dal vicolo sul viale Jounouchi si pentì di essersi mosso. La pioggia, non più bloccata dai tetti ravvicinati, scendeva obliqua con violenza selvaggia, mentre un vento irregolare spazzava la terra con raffiche potenti e gelate.
Kaiba, come se fosse del tutto incurante delle condizioni atmosferiche, riprese a camminare verso sinistra, probabilmente dove aveva lasciato la macchina ad aspettarlo.
I due percorsero forse dieci o undici metri in silenzio, camminando rapidamente, fino a che Kaiba si fermò, gli occhi fin troppo spalancati e un’espressione dubbiosa dipinta in viso.
La strada era deserta.
Jounouchi non parlò, ma si voltò alle sue spalle, cercando di vedere se, per caso, la macchina non si fosse trovata dall’altra parte della strada; ma non c’era. Non c’era una sola macchina in tutta la strada, non una.
Jounouchi si voltò proprio nell’istante in cui sentì Kaiba borbottare qualcosa su Mokuba e su scherzi in momenti poco opportuni: probabilmente aveva sentito anche qualche vocabolo particolarmente colorito, ma dato il rumore piuttosto forte della pioggia, non poteva esserne sicuro.
Il ragazzo riuscì a tenere la bocca chiusa per ben dieci secondi, ma non poté trattenersi oltre: « Dove sarebbe quindi la tua macchina? »
Non arrivò nessuna risposta: Kaiba torceva con crescente nervosismo il manico dell’ombrello, mentre sul suo viso era comparsa un’espressione di puro odio.
« Mokuba ci ha fatti piantare in asso? »
Kaiba ringhiò, e lui capì che per la propria incolumità sarebbe stato meglio tenere la bocca chiusa. Tenendo l’ombrello in perfetto equilibrio, Kaiba frugò per alcuni minuti nelle sue tasche e, infine scrollò le spalle riprendendo a camminare, questa volta verso destra, seguito a ruota da Jounouchi.
« Dove stiamo andando? » chiese questi, quando si rese conto che l’altro non avrebbe più richiamato indietro l’automobile.
« A casa » rispose lapidario, mentre un guizzo nervoso gli attraversava gli occhi.
Jounouchi deglutì, passandosi una mano tra i capelli biondi: « Tu ti rendi conto che casa mia è dall’altra parte della città, vero? »
Kaiba lo guardò con la coda dell’occhio. « Infatti è per questo che stiamo andando a casa mia, dove ti caricherò sull’auto e ti farò spedire a casa. »
Jounouchi sbatté le palpebre, dubbioso: « Non facevamo prima a richiamare l’auto? »
« Probabile. »
« E perché non l’hai fatto? » chiese sconcertato.
« Perché non ne avevo voglia. »
Jounouchi riuscì a stento a trattenersi dal tirargli un pugno: « E perché tu non ne hai voglia io devo stare qui sotto la pioggia a gelare?! »
Kaiba ridacchiò. « Non è stata mia l’idea di starmene sotto la pioggia vestito a quel modo, quindi piantala di lamentarti. »
Il ragazzo si accarezzò ancora i capelli biondi fradici con un gesto nervoso, come se ciò potesse bastare a farglieli asciugare. La giornata era iniziata un disastro, e di questo passo si sarebbe conclusa molto peggio: con una malattia, magari.
Ormai si stava facendo sera, e il vento aveva preso a soffiare con molta più violenza e Jounouchi camminava tutto rattrappito su se stesso nella vana speranza di tenersi un po’ caldo. L’altro ragazzo, invece, ben coperto dal suo cappotto, si limitava a socchiudere gli occhi e a stringere con più decisione l’ombrello ogni volta che una raffica di vento minacciava di strapparglielo di mano.
« Dannazione a te! » gridò Jounouchi mentre una raffica di vento particolarmente violenta gli fece svolazzare la maglietta. « Perché non richiami quella fottuta macchina? Sto congelando! »
Kaiba scrollò le spalle, come se la questione fosse del tutto ininfluente. « Se tieni chiusa la bocca e cammini, arriveremo molto prima. »
« In macchina ci saremo arrivati ancora prima! » ribatté sfidando l’altro ragazzo con lo sguardo.
« Ti ho già detto di smetterla di lamentarti, bonkotsu. » Jounouchi serrò i pugni, con evidente piacere da parte dell’altro, che sembrava divertirsi particolarmente a tormentarlo. « Casa mia è in fondo al viale. » Aggiunse per evitare altre insurrezioni inutili.
Jounouchi rilassò le spalle e riprese a guardare avanti a sé. « Be’ » disse, dopo un attimo di silenzio, « a te non va altrettanto bene: immagina se te ne saresti dovuto andare a casa a piedi e da solo… »
« Non sarebbe successo. »
Jounouchi ridacchiò: « E se io avessi deciso di non venire con te? »
« Semplice » rispose. « Avrei richiamato il mio autista e mi sarei fatto portare a casa. » Si voltò a guardare l’altro con un sorrisetto di scherno dipinto in volto: « Tu eri l’unico che ci avrebbe perso qualcosa: io avevo solo da guadagnarci. »
Jounouchi serrò nuovamente i pugni, imbestialito. « Mi chiedo cosa diavolo ci staresti guadagnando, standotene qui al gelo sotto la pioggia! » ringhiò tra i denti.
Kaiba sollevò gli occhi, incontrando con lo sguardo la stoffa scura nel suo ombrello: « Abbastanza, direi. »
« E cioè? »
Ma Kaiba non rispose, spostando nuovamente il suo sguardo sulla strada bagnata. Jounouchi rimase a fissarlo per un poco, chiedendosi cosa diavolo stesse passandogli per la testa: otto giorni senza vederlo, e già non capiva più niente.
Non che prima capissi di più, eh…
« Ehi Kaiba, » disse, come se gli fosse venuto in mente un qualcosa di particolarmente importante: « noi due stiamo insieme? »
« Dicasi di due persone che si trovano nello stesso posto e nello stesso momento… »
« Non ti sto chiedendo se siamo insieme adesso – lo so anche io che siamo qui insieme – ti sto chiedendo se stiamo insieme! »
« E la differenza sarebbe? »
Jounouchi ringhiò spazientito. « Lascia perdere! » disse, incrociando le braccia al petto e mettendo il broncio.
I due camminarono in silenzio l’uno accanto all’altro, mentre le raffiche di vento si facevano più violente di minuto in minuto e la pioggia offuscava la visuale facendo sembrare gli alti alberi delle figure grigie che venivano sballottate da ogni parte, mentre la strada, dove non si erano formati rigagnoli e pozzanghere, sembrava bucherellata da migliaia di aghi. In lontananza, alle loro spalle, era scoppiato il temporale.
Kaiba si voltò a guardare il ragazzo accanto a lui e disse qualcosa, ma Jounouchi non riuscì a sentirlo. Un colpo di vento si era intrufolato in mezzo a loro e aveva portato via la voce del ragazzo. Era stato improvviso, violento, tanto da far svolazzare in aria la coda del suo cappotto, tanto da fargli perdere la presa sul manico. Entrambi i ragazzi si voltarono insieme.
L’ombrello volò per qualche metro, poi cadde a terra, roteando e riempiendosi immediatamente d’acqua. Kaiba era rimasto immobile, mentre la pioggia si abbatteva su di lui con ferocia inaudita, quasi come se volesse punirlo per la sua arroganza di essere rimasto tutto quel tempo al riparo dell’ombrello.
Jounouchi si voltò a guardarlo: la frangia, già fradicia, era appiccicata alla sua fronte, il viso bagnato, gli occhi persi nel vuoto e, sul suo viso, era apparsa un’espressione strana. Non esattamente irritata, non esattamente triste. Forse sorpresa. Jounouchi lo osservò ancora per un lungo istante, assorto, studiando con attenzione i lineamenti del suo viso.
Poi rise. Una risata esplosiva, intensa. Vera.
« A quanto pare non ci hai guadagnato granché nemmeno tu, uh? »
Kaiba si voltò finalmente a guardarlo, rimanendo sempre in silenzio. In una situazione normale non gli avrebbe permesso di prendersi gioco di lui e avrebbe trovato una frase cattiva con cui rispondergli. D’altra parte, quella non era una situazione normale.
Jounouchi se ne stava lì, e rideva sguaiatamente in modo sgraziato, con le mani premute sulla pancia, la testa gettata all’indietro e le lacrime – o era la pioggia? – che scendevano copiose sulle sue guance. Stava ridendo così forte da riuscire anche a coprire il rumore della pioggia con la sua voce.
Kaiba ebbe uno scatto. Lo afferrò per le spalle, con forza e lo trascinò vero di sé, costringendolo a rimanere in equilibrio sulle punte dei piedi.
Lo stava baciando.
Jounouchi sentiva le labbra sottili e fredde di Kaiba premute con forza sulle sue, come se lui desiderasse togliergli il respiro, come se con quel gesto volesse impadronirsi della sua risata.
Il bacio era irruente, passionale, violento. Le loro lingue si toccavano frenetiche, accarezzandosi e respingendosi senza sosta, mentre entrambi iniziarono ad essere pervasi da un calore piacevole che si sprigionava dal petto. Jounouchi fu presto costretto a chiudere gli occhi e ad aggrapparsi al cappotto dell’altro per non cadere, quando questi lo strinse maggiormente a sé.
Poi, com’era cominciato, finì.
Jounouchi tornò con i piedi a terra, lo sguardo perso, mentre una folata di vento gli strapppava via con forza tutto il calore. Kaiba era a pochi passi da lui, là dove era caduto l’ombrello, e con gesti prudenti cercava di svuotarlo di tutta l’acqua che aveva raccolto. Quando fu soddisfatto tornò indietro e coprì anche l’altro, che continuava a guardarlo con gli occhi lucidi, stralunati.
Kaiba sorrise: « Sì, » disse. « Direi proprio di sì. »
 

Fine
  
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