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Autore: Allison Argent    06/12/2013    3 recensioni
«Aveva posato le sue labbra all’angolo di quelle di lui in un momento di debolezza, inaspettatamente per entrambi. Quel pomeriggio nel suo pickup non c’era nessuno che avrebbe potuto intravedere quel piccolo cambiamento, quindi la cosa sarebbe potuta rimanere segreta, avrebbero fatto finta entrambi che non fosse successo nulla e tutto sarebbe svanito come un uccello che vola alto nel cielo in un giorno di nebbia.»
{P/Q; songfic}
Genere: Malinconico, Romantico, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Noah Puckerman/Puck, Quinn Fabray | Coppie: Puck/Quinn
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Titolo: Hush Hush
Rating: giallo, minimi cenni al "the do"
Pairing: P/Q, Quinn/OC, Puck/OC
Disclaimer: i personaggi non mi appartengno, se mi appartenessero, non avrei rovinato le storyline e convivrebbero già da tempo. 
Nota dell'Autore: questa one shot è nata grazie alla bellissima (a mio parere) canzone di Avril Lavigne,
Hush Hush, tratta dal suo ultimo album, raccomando di ascoltarla durante la lettura. 

 





(I didn’t mean to kiss you)
 

Aveva posato le sue labbra all’angolo di quelle di lui in un momento di debolezza, inaspettatamente per entrambi.
Si erano sempre salutati con un bacio sulla guancia da parte di uno o dell’altra, era sempre stato qualcosa che non aveva mai destato alcun sospetto in chi li guardava perché tutti sapevano che Quinn Fabray e Noah Puckerman erano migliori amici da tanto tempo ed era stato grazie a lui se ora lei stava con Finn Hudson. E poi, quel pomeriggio nel suo pickup non c’era nessuno che avrebbe potuto intravedere quel piccolo cambiamento, quindi la cosa sarebbe potuta rimanere segreta, avrebbero fatto finta entrambi che non fosse successo nulla e tutto sarebbe svanito come un uccello che vola alto nel cielo in un giorno di nebbia. E sarebbe andato tutto bene, se non fosse stato per il fatto che dopo essersi guardati negli occhi, dopo aver realizzato che cosa era appena successo, erano entrambi consapevoli che non sarebbe stato mai abbastanza.
E la sera seguente erano chiusi a chiave in quella camera dalle pareti viola con un pacchetto di bibite leggermente alcoliche sul comodino e dei vestiti sparpagliati per terra.
 


 
΅΅΅΅
(You didn’t mean to fall in love)

 
Se n’era accorto di notte, quando osservava il suo petto alzarsi e abbassarsi regolarmente a ogni respiro che faceva.
Odiava come quella piccola ruga di preoccupazione disegnata tra le sopracciglia di quella perfezione bionda che quasi nessuno poteva vedere (ma lui si, lui la vedeva e si malediceva ogni notte perché in fondo lo sapeva, lo sapeva che era lui la causa di quella ruga) era sempre presente, come il fantasma di un ricordo che li perseguitava, anche quando era buio, lei dormiva supina e poteva dimenticarsi dei problemi che avrebbe dovuto affrontare la mattina seguente.
Se n’era accorto quando avrebbe voluto urlare a squarciagola e prendere a pugni il muro, la testata del letto, perché avrebbe fatto di tutto per farle dimenticare anche solo per un minuto, anche solo nei suoi sogni, che le cose non andavano bene, che non sarebbero mai stati in grado di tenere la bambina e che non sarebbero mai stati dei buoni genitori.
Se n’era accorto quando, pensando a quelle tre ragazze che alla lezione di educazione fisica quella mattina gli avevano proposto qualche cosa ma lui non era riuscito a ricordarsi effettivamente che cosa, perché troppo impegnato a osservare la sua meraviglia bionda camminare per i corridoi fuori dalla palestra, e allora aveva pensato che forse Quinn Fabray la amava per davvero.  



 
 ΅΅΅΅
(I never meant to hurt you)

 
Non l’aveva chiamato perché le faceva troppo male, se ne rendeva conto.
Diamine, faceva male anche a lui, ma non per questo non si sarebbero più potuti vedere, non per questo avrebbero dovuto buttare tutto al cesso come se nulla fosse mai accaduto.
Era incredibilmente arrabbiato con lei e allo stesso tempo doveva trattenersi per non chiamarla o presentarsi sotto casa sua (o, più probabilmente, in camera sua) per scuoterla e dirle che dovevano starsi vicini, sarebbe stato l’unico modo per superare quella perdita.
Quando però l’aveva provata a chiamare davvero e aveva scoperto che il suo vecchio numero era inesistente, era stato quello il momento in cui si era sentito davvero rotto, in mille pezzi. Come se l’unica parte positiva di quella sua vita di merda se ne fosse andata.
Come tutte le altre, del resto.



 
 ΅΅΅΅
(We never meant for it to mean this much)

 
Cominciare da capo era difficile.
Si era ripromessa di lasciarsi il passato alle spalle, a scuola lo salutava a malapena, si era concentrata nello studio, nello sport, ma quando Santana le aveva ricordato che forse era tempo che anche lei ricominciasse a uscire con dei ragazzi una paura inaspettata l’aveva presa alla sprovvista e l’aveva fatta correre nello stanzino dei bidelli per chiudersi dentro a chiave e sedersi per terra, ginocchia al petto e braccia intorno alle gambe, respiri affannati e occhi che bruciavano perché le sentiva quelle lacrime infami che volevano rigarle le guancie ma no, oh no, questa volta non l’avrebbero avuta vinta loro.
Non sapeva quanto fosse rimasta lì dentro, si mosse per la prima volta solo quando sentì il rumore di pugni contro la porta e l’unico motivo per cui aprì era perché era convinta fosse il bidello che reclamava il carrello con l’occorrente per le pulizie.
Quando si trovò davanti lui, quando sentì la sua voce dire “fammi spazio” con una punta di irritazione che la caratterizzava, quando lo osservò con la coda dell’occhio serrare di nuovo la porta a chiave per poi lasciarsi cadere a terra con fare svogliato, copiò i suoi movimenti e si sedette dalla parte opposta di quel metro quadrato di sgabuzzino.
 
“Non posso avere attacchi di panico ogni volta che Santana mi dice di uscire con qualcuno.”
 
“Non mi incolpare, sei stata tu a voler tagliare i rapporti.”
 
Lo guardò, non abbassò il suo sguardo e non sospirò.
 
“Quinn, fai un favore a tutti e due ed esci con qualcuno.”
 
“E se-”
 
“Non capiterà di nuovo. E in ogni caso io ho smesso di aspettarti.”
 
Lei lo sapeva che quello che intendeva era ben altro, lo sapeva che non sarebbe più successo niente del genere ma aveva paura di rimanere bruciata di nuovo. E sapeva anche che ferirla era l’unico modo per farla arrabbiare e solo a testa calda poteva prendere decisioni avventate come chiedere a quel ragazzo biondo nuovo di uscire uno di quei giorni, di questo lui ne era perfettamente conscio.
 


 
 ΅΅΅΅
(I wanted to keep you forever next to me, you know that I still do and all I wanted was to believe)
 
 
Un giorno gliel’aveva detto: “lo so che ho sbagliato”.
Non che potessero fare più di tanto in ogni caso, era troppo tardi per cercare di cambiare mesi, anni, passati a far finta che si può fare a meno di una persona, anche se questa persona può essere considerata come il proprio ‘tutto’.
Erano nel suo maggiolino rosso ad aspettare che il semaforo tornasse verde, le aveva detto che l’avrebbe riaccompagnata a New Haven e poi da lì avrebbe preso l’aereo per chissà dove – ormai aveva smesso di cercare di ricordare in quale città o in quale Stato lui avrebbe provato a trovare un lavoro, o qualunque cosa stesse facendo al momento.
 
“Dovevi solo credere in noi un po’ di più.”, le aveva risposto.
 
Di solito non parlava così, di solito non le rispondeva, oppure sdrammatizzava facendo qualche battuta o sviando il discorso perché lei lo sapeva che lui ancora non gliel’aveva perdonato, lo sapeva che era solo colpa della sua testa dura se ora non stava dividendo il proprio appartamento al college con il ragazzo che, dopotutto, amava ancora.
 
“Mi dispiace.”
 
“Anche a me.”
 
Aveva continuato a guidare, senza più girarsi verso destra.   

 

 
 ΅΅΅΅
(So go on, live your life, so go on, say goodbye, so many questions but I don’t ask why)
 
 
“Vado in Europa.”
 
L’aveva guardato con gli occhi spalancati.
 
“Con che soldi vuoi andare in Europa?”, gli aveva poi risposto, incredula.
 
Lui aveva scosso le spalle, osservando con fare distratto uno dei fiori che Quinn aveva fatto seccare durante l’autunno.
 
“E’ importante? Non andrei se non avessi i mezzi per farlo.”
 
“Non puoi lasciarmi qui da sola.”, gli aveva detto, ma sapeva che così facendo gli avrebbe solo dato un motivo in più per fare le valige e prendere quell’aereo. Lei si rendeva conto del male che gli faceva, eppure era così fragilmente egoista che non ne poteva fare a meno.
 
Fu allora che si rese conto, ancora una volta che potevano passare anni, decenni, lui poteva andare dove voleva, lui poteva vivere i suoi sogni e andare avanti per davvero, ma era lei quella che sarebbe rimasta impassibilmente ancorata al passato senza la forza di prendere una vera decisione e dirgli addio.
 
“L’ho già fatto. Mi hai dato tu il permesso.”, le rispose lui con tranquillità.
 
Lei lo guardò, scosse la testa e andò in cucina.

Era vero.


 
 
 ΅΅΅΅
(So this time I won’t even try)
 
 
“Come sta Zara?”
 
“Bene, domani abbiamo una cena con suo fratello. Max?”
 
“Si laurea venerdì.”
 
Ormai si sentivano per telefonate tramite computer quando riuscivano a ritagliarsi una decina di minuti dal lavoro lui e dalle lezioni lei.
Sembrava che lentamente le cose stessero tornando alla normalità e lei era abbastanza sicura che la lontananza li stesse aiutando in questo. Non lo vedeva da mesi e solo quando lui le aveva confessato di vedersi (quella volta seriamente, non come al suo solito) con la ragazza che abitava nell’appartamento di fronte al suo lei aveva deciso che forse era arrivato il momento di prendere una pausa da quella promessa che aveva fatto a se stessa di aspettarlo (ora se ne rendeva conto, era davvero un’illusa) e provare a vivere di nuovo. Quella sera aveva incontrato un ragazzo nell’aula della biblioteca che di solito trovava libera dopo una certa ora e dopo un paio di mesi quel ragazzo era diventato il suo.
Lui aveva accolto la notizia come la può accogliere una persona che ormai mette la felicità di qualcun altro davanti alla propria. Le aveva sorriso tramite la videocamera del suo portatile e le aveva detto che era quello che le serviva e lei, per la prima volta dopo tanto tempo, aveva tirato un sospiro di sollievo.
 


 
 ΅΅΅΅
(When I try to forget you I just keep on remembering)
 
 
Qualche mattina si alzava dal letto, non prima di aver lasciato un bacio sulla guancia a Max, e andava in cucina a preparare il caffè, ma solo per se stessa, perché sapeva che lui non si sarebbe alzato ancora per tre quarti d’ora buoni.
Era solita portare una sedia vicino al davanzale della finestra e osservare la neve che si appoggiava con grazia sulla superficie di qualunque cosa trovasse nel suo cammino.
Si ricordava di come da piccoli lei e Puck erano soliti uscire di casa subito dopo pranzo, verso le due del pomeriggio, e correre fino alla collinetta a due isolati dal loro trainando gli slittini dietro di loro per poi salire fino alla cima e fare a gara a chi arrivava alla fine per primo. Di solito era Puck a vincere, ma solo perché era più veloce a salire, ma la maggior parte delle volte si inventava qualche scusa per far sì che Quinn diventasse la vincitrice. Con il passare degli anni le gare di velocità erano diventate gare a palle di neve con gli altri loro amici, gare a chi costruiva il pupazzo di neve più strano, gare a chi riusciva a buttare l’altro nella neve e un anno quelle erano diventate gare a chi riusciva a resistere al freddo e alla neve che si insinuava tra i loro vestiti prima delle loro mani durante un momento di debolezza reciproca.
Lei arrossiva ancora quando certi pensieri le attraversavano la mente e si sentiva così stupida e consapevole di comportarsi come una adolescente in calore.
La metà delle volte per sentirsi meno imbarazzata gli mandava un messaggio per fare ricordare anche a lui uno di quegli aneddoti, ma l’altra metà delle volte doveva fermarsi prima di inviare uno di quei pensieri perché si ricordava del fatto che ormai erano solo buoni amici, e certe cose era meglio tenerle per sé, anche quando si è a migliaia di chilometri di distanza, ma soprattutto quando si era impegnati con altre persone.  

 

 
 ΅΅΅΅
(What we had was so true, but somewhere we lost everything)
 
 
Ogni tanto si incontravano per un caffè o una chiacchierata sotto casa di lei quando entrambi tornavano a Lima per le festività a trovare le loro famiglie.
Si rendevano conto che non c’era più la semplicità di una volta, quando non avevano bisogno di una vera motivazione per chiamarsi o passare del tempo insieme.
Lei dava la colpa al fatto che erano cresciuti, o che avevano vissuto troppo lontani per troppo tempo. A volte dava la colpa anche al fatto che forse avevano trovato delle persone che erano più adatte a loro che lei per lui o lui per lei, ma di questo non era così sicura e comunque il pensiero la sfiorava solo le notti in cui si concedeva un drink di troppo.
Le conversazioni erano brevi e superficiali, ma se non altro sapeva che avrebbe potuto contare su di lui in un ipotetico momento del bisogno. Dopotutto era l’unico vero amico che le era rimasto dagli anni del liceo e insieme ne avevano passate tante.
Anche troppe, forse era proprio per quello che ora cercavano di prendere tutto così alla leggera tra di loro.
 


 
 ΅΅΅΅
(So go on, live your life, so go on, say goodbye, so many questions but I don’t ask why)
 

“Ho chiesto a Zara di sposarmi.”
 
Lo aveva guardato sorridendo, si era ripromessa di non rovinare tutto, aveva deciso di fare la scelta giusta e non mettergli i bastoni tra le ruote, almeno per questa volta.
Si era avvicinata a lui e lo aveva abbracciato stando attenta a non sembrare troppo nostalgica in quell’abbraccio e gli aveva detto che sarebbe stato un buon marito.
Avrebbe potuto giurare di aver percepito il minimo movimento delle labbra di lui che le lasciavano il fantasma di un bacio sui suoi capelli profumati di fragola.
 


 
 ΅΅΅΅
(Don’t, don’t, don’t you ever say a word of what you ever thought you heard, don’t you ever tell a soul)
 
 
Quella sera si era presentata alla sua camera di albergo con un pacchetto di alcolici in mano e le chiavi del suo maggiolino nell’altra.
Lui le aveva aperto la porta senza preoccuparsi di chiedere chi fosse prima di tutto.
Si erano guardati negli occhi per qualche secondo per trovare l’espressione di uno stampata sul volto dell’altra come da fotocopia. Lui aveva scosso la testa e lei aveva lasciato uscire dalla bocca il suono di una risata sarcastica e poi lui aveva fatto qualche passo avanti verso di lei, che aveva indietreggiato fino ad arrivare alla porta e rimanere intrappolata tra questa e lui.
Non fece in tempo a realizzare che cosa stava per succedere che le labbra di lui erano di nuovo – finalmente – sulle sue ed era come una danza che era stata proibita loro per troppo tempo. Era come se dovessero colmare il tempo perso negli anni e avessero a loro disposizione sono una manciata di minuti, che sarebbero diventate ore, prima dell’alba e dell’arrivo del futuro che incombeva su di lui.
Lei aveva provato un brivido quando lui si era spinto con più decisione contro il suo corpo già sfinito da un viaggio durato sei ore tra la sera e la notte e le bottiglie di qualche bevanda alcolica di cui non riusciva a ricordare il nome. E il contatto era elettrico e la mandava a fuoco, sentiva vibrare il sangue nelle vene e arrivarle alla testa e si sentiva girare e girare e l’unica cosa ferma, l’unica ancora che la teneva in piedi era lui, lui che la prendeva in braccio, lui che la portava sul letto già disfatto, lui che non dava importanza ai vestiti che erano ancora lì a creare una barriera perché non c’era tempo, non avevano più tempo da perdere in inutili convenevoli.
Era come tornare a casa, era come se lo ricordava. Era come aver ritrovato quel pezzo mancante, come sentirsi finalmente piena dopo anni di pretese e auto convincimenti che fare l’amore con Max era la stessa cosa che fare l’amore con Noah Puckerman, perché lei lo amava quindi non c’era differenza.
Ma la differenza c’era eccome ed era nella perfetta sincronia dei movimenti, in come lei sapeva come muoversi e lui come seguirla, lui come guardarla e lei come donarsi come se fossero tornati indietro nel tempo, come se fossero di nuovo due adolescenti che non sapevano niente di come era fatto il mondo.
La differenza era nel modo in cui lui la guardava quando rimanevano fermi per qualche secondo, in quell’espressione piena di colpe e dispiacere, in quegli occhi che sembravano spegnersi per dimenticare il male subito e inflitto con il passare del tempo.
La differenza era nel modo in cui lei gli prendeva la testa tra le mani e lo avvicinava a sé di nuovo perché la colpa era di entrambi e non aveva alcun senso rimuginare sul tempo perso perché non sarebbe mai tornato indietro.
Allora lui sorrideva, lei si mordeva il labbro e ricominciavano da dove si erano fermati, con lei che intrecciava le gambe al suo bacino e lui che spingeva.
Forse era l’alcool, forse era l’entusiasmo che aveva seguito il momento in cui avevano raggiunto entrambi l’apice del piacere, che le avevano fatto dire “Io ti amo ancora”.

 
 ΅΅΅΅
(But you know I tried to hide but I still believe that we were always meant to be and I can never let you go, no)
 
 
La mattina seguente non era andata come entrambi avrebbero pensato. Perché questa volta non avevano fatto finta che non fosse successo, non erano scappati, non si erano nascosti.
Quinn era rimasta sotto le coperte fino a che Puck non era arrivato con una piccola tazza di caffè fumante a letto, era seduto al bordo del matrimoniale e la guardava con il sorriso rotto. Vederlo così le aveva fatto capire che non avrebbe avuto senso non affrontare i problemi e per qualche motivo a lei sconosciuto, nonostante la quantità di alcool nel suo corpo la sera precedente, il ricordo di quello che gli aveva detto prima che decidessero di provare a dormire era vivido nella sua mente. Si era chiesta se lo fosse stato anche in quella di lui.
 
“Che cosa farai?”, gli aveva chiesto mettendosi seduta con la schiena contro la testata del letto, afferrando la tazza che lui le stava offrendo.
 
“Mi sposo alle due.”, le aveva risposto lui nel tono più semplice che avesse mai potuto usare.
 
Lei gli aveva mostrato un debole cenno di sorriso.
 
“Non c’è bisogno che tu lo dica.”, aveva poi aggiunto lui, ma lei era stata altrettanto pronta a rispondere: “Due persone rimarranno ferite in ogni caso.”
 
Lui non poteva che darle ragione, anche questa volta.   
 

 
΅΅΅΅
(So go on, live your life, so go on and say goodbye, so many questions but I don’t ask why. Maybe someday but not tonight, hush hush now)

 
Rompere con Max era stato difficile, le aveva ricordato come era così brava a fare del male alle persone; aveva visto il sorriso dell’uomo diventare una smorfia.
Non si era arrabbiato, l’aveva solo guardata con dispiacere e poi l’aveva abbracciata, dicendole che voleva solo il meglio per lei.
Il giorno dopo non aveva chiamato Puck, e Puck non aveva chiamato lei, neanche quello dopo ancora, e neanche dopo tre giorni. Erano dovuti passare tre mesi prima che si sentissero, e quando ciò accadde fu solo un messaggio: “sei a Lima?”, a cui lei aveva risposto affermativamente, senza fare ulteriori domande.
L’aveva trovato alla porta di casa sua mentre stava uscendo per andare a comprare le luci intermittenti per l’albero di Natale perché quelle che possedevano si erano per qualche motivo a lei sconosciuto rotte durante la notte. Fu sorpresa di vederlo, non lo immaginava così cambiato, anche se era passato solo qualche mese dall’ultima volta che si erano visti.
Aveva i capelli leggermente più lunghi e si era fatto crescere qualche millimetro di barba.
 
“La sai una cosa, Quinn? La dobbiamo smettere di rincorrerci e rovinarci la vita per poi andarcene di nuovo e lasciarci a pezzi.”, aveva iniziato a voce alta, evidentemente arrabbiato, ma Quinn non sapeva se lo fosse più con lei o con se stesso.
 
“Adesso me lo dici?”, gli aveva chiesto poi, le mani sui fianchi e un’espressione tranquilla in viso.
 
“Sì, perché se non lo faccio io tu rimarresti rinchiusa tra le quattro mura del tuo appartamento in California a guardare l’oceano e fare la vittima, pensando al tempo e alle persone perse. E ti considereresti così triste e fragile e aspetteresti che qualcuno un giorno ti incontri, che veda i tuoi occhi tristi e decida di aggiustarti, ma quello che non capisci è che questo non è un film, questa è la vita reale, tu non sei l’unica persona che è stata male negli anni: il mondo è pieno di uomini e donne che stanno peggio di te.”
 
Lei lo aveva guardato con aria interrogativa, il sopracciglio inevitabilmente inarcato e un piccolo tonfo al cuore mentre lo ascoltava parlare e si rendeva conto che aveva ragione.
 
“E sei venuto fino a qua da Chicago per dirmi di non fare la vittima?”, riuscì a domandargli con voce ferma, prima che la rabbia potesse prendere il sopravvento.
 
Lui fece un passo verso di lei, l’ombra del cenno di un sorriso dipinta sul volto. Quinn poteva giurare di non aver mai osservato in lui una luce del genere colorare i suoi occhi: era stata solo una vibrazione, un lampo, era scomparsa quasi subito. Lo osservò avvicinarsi a lei e prenderle la mano.
 
E poi fu tutto un po’ più chiaro.
 
“Oh, no. No. Io sono venuto qui per chiederti di sposarmi.”


 
΅΅΅΅
 
   
 
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