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Autore: CaskaLangley    08/05/2008    5 recensioni
Raccolta di one-shots su coppie di personaggi (non necessariamente in senso romantico) tra i membri dell'Organizzazione XIII, Naminé e Repliriku.
[ Through looking glass : Axel/Roxas + Demyx ] "Axel non era suo amico, lo realizzai col tempo, né lo amava. Nessuna di queste definizioni era corretta. Axel lo adorava. Davanti a lui era come un cieco che vede per la prima volta il mare." [ Strangeness DSS(M) : Vexen/Repliriku]
"Non proviamo dolore, né pentimento per ciò che abbiamo fatto. Tuttavia abbiamo commesso un errore, e in quanto a scienziati non lo riteniamo giustificabile. [...] Ma poi ho compreso la reale gravità del problema. Senza un cuore, l’estrema fallibilità umana diventa cosa difficilmente sopportabile.”
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Naminè, Organizzazione XIII
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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Note che non c’entrano quasi un cazzo: oh mamma, da quanto non ci si vedeva XD Ma la storia colpevole della nascita di questa raccolta io e Selina avevamo deciso da moltissimo tempo che sarebbe stata qui, a fare coppia con la sua “A tangled tale”, e non posso tirarmi indietro davanti ad una promessa così solenne, quindi…u_u No, la verità è che pensavo proprio a questo e alle flasshine di Sweet the sting quando dicevo che forse avrei pubblicato sporadicamente qualcosina qui, quindi eccomi XD Non per un grande ritorno a pieno ritmo, purtroppo: per quanto il mio amore per Kingdom Hearts sia vivissimo ed il mio desiderio di finire alcune delle fics che stavo scrivendo (in primis Wasukara: il viaggio a Tokyo è decisamente servito d’ispirazione XD), sono occupata a riscrivere il mio progetto lungo e di altrettanto lunga data e lungo termine; ho a che fare con un’opportunità estremamente concreta, e purtroppo lavorando fino alle sei di sera e occupandomi del mio negozio dopo cena mi rimane davvero pochissimo tempo per scrivere. Sto finalmente uscendo da un periodo difficile per quanto riguarda la mia vita non-sociale su internet e ciò che lo scrivere in rete comporta (aka: teste di cazzo), ma insomma, semplicemente non è un momento in cui fisicamente le fanfics hanno molto da prolificare, dal momento che più la faccio aspettare inutilmente, più l’opportunità concreta diventa tanto per cambiare l’opportunità di tutta la vita buttata nel cesso “XD

Comunque, appena preso il ritmo e appena mi andrà, scriverò ancora fics, anche perché ho diverse idee (anche per flashfics, le più probabili – ne ho una quasi finita), prima fra tutte una già cominciata, per cui Selina mi tormenta *_*;;, gemella eterozigota di Little Earthquakes (anch’essa non presente su EFP, ma tanto so che l’avete letta tutti XD) nonché Riku/Sora <3

Però, in vista di una carestia probabilmente lunga, mi andava di dare una svecchiata generale, ecco.

Questa shottina l’ho scritta prima di partire per Tokyo, non ho mai avuto tempo per metterla su “XD quindi eccola qui e boh, che dire, io sono sempre sul mio blog di fanfics e sul mio archivio, per chi volesse leggere le mie fics non pubblicate qui.

Minchia quanto ho parlato, e dire che starei vedendo Play it again Sam.


Prima di cominciare: la storia fa parte della raccolta Carne e sangue, che sarà interamente dedicata a coppie dell’Organizzazione XIII + Naminé e Repliriku. Per coppie non intendo necessariamente in senso romantico, ma di mera interazione fra due personaggi. Sinceramente, le scrivo come vengono. Quindi non fate storie XD L’idea è quella di tenere i personaggi il più IC possibile, fino al tarpamento del mio animo ficwriter *_*; tuttavia, se voi non vedete quello che palesemente è possibile, non è un problema mio. Io faccio in modo di prenderla in modo che quello che mi va sembri plausibile, e questo è quanto. E non vedo cos’altro dovrebbe essere una fanfic, sinceramente.


La raccolta è ispirata alle 11_reasons, la tabella sui vizi e le virtù. Le “coppie” designate fin’ora sono Marluxia/Larxene, Marluxia/Naminé, Axel/Demyx (già cominciata >_< ma chissà quando potrà mai essere finita XD), Repliriku/Naminé, Xigbar/Demyx, Lexaeus/Zexion e naturalmente Axel/Roxas <3




STRANGENESS DSS(m)

# envy

La sua espressione è seccata fin dalla prima volta che apre gli occhi.

Si rende conto del freddo nella stanza quando l’illuminazione che scarseggia non gli permette di metterla a fuoco come dovrebbe per sentirsi al sicuro. E’ fastidioso. Qualcosa gli solletica le palpebre. Ci sono il ronzio di una macchina, sbuffi meccanici, qualcosa che bolle. Tutte cose fastidiose. Essere svegli è fastidioso.

“Come ti senti?”

La voce gli arriva sotto forma più di dati che di suono. Gli fa eco nella testa. Il fatto stesso che i suoi occhi siano aperti anziché chiusi gli sembra una risposta sufficiente, per tanto non essendo sicuro di saper dire qualcosa non dice niente.

Delle dita gli passano sulla fronte alleviando l’irritazione alle palpebre che sbattono. Sono nere, ruvide. Sono anch’esse fastidiose, tuttavia utili.

“Ti sei svegliato prima del dovuto. Già non rispetti i miei programmi, ma in un certo senso lo apprezzo. Puoi dormire ancora un po’.”

Più di ogni altra cosa, più anche della contorsione nauseante che assumono le ombre di oggetti mescolandosi allo sfondo, l’idea di obbedire gli provoca un fastidio che lo spinge ad assecondare l’istinto di muoversi. Ma non si muove. Non c’è motivo per muoversi, in fondo. Fa come gli è stato detto e chiude gli occhi.


*

Quando apre di nuovo gli occhi ci vede meglio ma scopre di non essersi perso niente. L’impressione, quella che aveva avuto la prima volta e gli si era depositata sul fondo del cervello in quanto impossibilitata a tradursi in pensiero in modo soddisfacente, riemerge ed è la stessa: una discarica di metallo e plastica, dove gusci morti si sforzano di riprendere vita.

“Riesci a sentirmi?”

Annuisce leggermente. Un gesto involontario. Razionalmente, non sa che significato abbia.

Razionalmente. Ha un bel suono, questa parola.

“Prova a muoverti.”

Si è già mosso, non è abbastanza? Questo mondo gli dà sempre più fastidio.

Ha un pizzicore al braccio destro, un indolenzimento. Questo lo porta a stringere le mani. La sensazione dei nervi che si tendono è piacevole. E’ un atto volontario, e come tale sottolinea volontà.

Volontà. Anche questa è una bella parola.

“Benissimo. Adesso prova a sederti. Attento a non strapparti la flebo.”

Il suo sguardo rimane fisso sul soffitto scrostato, uno strato grigio cupo che cade a pezzi sopra bianco sporco. Ruota lentamente la testa in direzione della voce, in quanto l’utilizzo del termine attento lo mette in uno stato di seria preoccupazione ed, insieme, di eccitazione. Prova un impellente bisogno di trasgredire.

L’uomo al suo fianco è in piedi. La luce elettrica degli schermi accesi s’incastra traballante nella guancia scavata, sotto la quale sembra di vedere il rilievo della mascella anche se non è effettivamente così. Gli dice, parlandogli con pazienza: “E’ questa.” Stringe un’asta di metallo alla quale è attaccata una boccetta. Il liquido dentro sembra ribollire, non ha un bell’aspetto. “Il flacone rilascia gradualmente il liquido che viene trasportato dal deflussore nel tuo corpo, al quale è collegato tramite un ago inserito in una vena del tuo braccio. Serve a nutrirti.”

Lui continua a guardarlo, ma questa volta aggrotta le sopracciglia. L’uomo lo guarda a sua volta per un po’, senza capire il suo astio, finché dopo esserci finalmente arrivato dice: “Se muovi bruscamente il braccio ti farai male.”

Beh, non ci voleva poi molto.

Solleva la schiena stando attento al braccio. La mano ruvida dell’uomo - una mano coperta da un guanto bianco, sottile, freddo- lo sostiene. Il contatto lo lascia interdetto, ma non completamente disgustato. Non sembra il contatto con un essere umano. Non sembra diverso dal lettino se non nella forma. Anche quello non è nient’altro che un supporto, un mero mezzo di sostegno.

Si siede. L’uomo gli tiene le mani addosso per qualche secondo più del necessario, poi si allontana studiandone la stabilità come di un castello di carte.

Ha creato un essere umano, ma la cosa non sembra sconvolgerlo.

Tuttavia il suo sguardo suggerisce che –almeno dal punto di vista fisico- lui lo soddisfa appieno.

“Riesci a stare così?” domanda con impazienza. C’è un che di strascicato e lascivo nella sua voce, qualcosa di vagamente irritante ma tutto sommato tranquillizzante.

Lui si rende conto in quel momento di essere nudo. Si rende anche conto di sapere che la cosa dovrebbe turbarlo, ma non era così. Non gliene frega niente. La flebo nel braccio però gli dà fastidio e decide di toglierla. Ci prova, ma l’uomo glielo impedisce, fermandogli la mano.

Il contatto questa volta non era atto ad aiutarlo. E’ atto a limitare la sua libertà.

Non lo sopporta.

Si oppone, afferra ciò che sporge come un tappo bianco dal suo polso e lo strappa.

Sente chiaramente l’ago scorrergli fuori dalla vena, bruciandolo, il sangue che spruzza fori per un attimo inzuppando rapidamente le bende.

E’ disgustoso. L’esistenza che si manifesta per un secondo in tutta la sua oscenità.

Toglie le bende coi denti e porte il polso alla bocca per succhiarlo. Il tubicino riverso sul pavimento sputa liquido a vuoto.

L’uomo lo guarda con amaro rimprovero, come si può guardare un oggetto la cui caduta era prevedibile ma ha causato comunque troppo rumore, poi constata quasi con soddisfazione: “Sei indisponente. Un effetto che mi premeva ottenere. In fin dei conti, sei stato creato appositamente partendo da una matrice biologica umana, affinché la stessa simulazione di umanità risultasse nei fatti sufficientemente credibile.”

L’uomo si toglie i guanti con un orrendo rumore di plastica e li butta nel cestino, ma uno lo manca. Si siede su una sedia girevole che scricchiola come se fosse arrugginita e travolge il guanto con una rotella.

Lui si sente male, violato.

Le sue prime parole sono: “Come ti permetti di parlarmi così, credi forse di essere più reale di me?”

L’uomo, con estrema lentezza, fa ruotare la sedia in modo da tornare a guardarlo.

Il mezzo al metallo e alla plastica, sembra lui stesso metallo e plastica.

Una discarica. Gusci vuoti che si sforzano di sembrare ancora in vita.

“Cominci a somigliargli. E’ un ottimo inizio.”

Lui ha l’impulso di portare le ginocchia al petto e stringerle, ma lo contiene.

Rabbrividisce, quando si rende infine conto di essere vivo.


*

“Mi chiamo Vexen. Sono il quarto membro di un gruppo vittima di un madornale errore di calcolo che risiede nel suo stesso nome, Organizzazione XIII. Se ci fossimo chiamati Organizzazione VII quasi la metà esatta dei nostri problemi al momento non esisterebbe.”

L’uomo toglie finalmente il piatto rotondo dello stetoscopio dalla sua schiena.

Lui ha smesso di trasalire al gelido contatto dell’attrezzo, ma non significa che abbia smesso di detestarlo.

L’uomo continua, mentre si porta con flemma davanti a lui: “Il quattro è un numero molto alto, in una gerarchia di tredici membri. Almeno tu, cerca di non dimenticarlo.” Ha un’espressione irritata, mentre lo dice, quasi ridicola, ma quando poggia lo stetoscopio sul suo petto qualcosa di simile ad un sorriso gli si scava nel volto.

“Bene, il tuo cuore è forte. Ha un suono sublime.”

“Lo dici come se fosse qualcosa di eccezionale.”

“Per quanto mi riguarda è in effetti esattamente così. Vedi, nessuno di noi ha un cuore proprio.”

“Perché no?”

“Perché ciascuno di noi ha voluto fare o provare qualcosa che non era giusto né fare né provare.”

“Tu che cos’hai fatto?”

“Quello che qualunque scienziato con uno straccio di talento si ritrova a fare a un certo punto, tentare di sostituirsi a Dio.”

“E che cos’è Dio?”

L’uomo si toglie lo stetoscopio dalle orecchie e lo butta in un cassetto, alzandosi velocemente dalla sedia, e risponde in modo da non farsi sentire da nessuno: “Forse è la cosa che ci ha puniti.”


*

Gli sta monitorando il battito cardiaco. Elettrodi attaccati al petto. Un suono costante, preciso, impossibile da ignorare – un suono d’accusa.

Gli occhi verdi puntati sul picco di luce verde. Un unico verde.

Lo trova odioso.

Quando si ritiene soddisfatto, Vexen si alza dalla sedia cigolante come sembrano le sue ossa e rimuove delicatamente gli elettrodi. Ha più cura di lui in quanto a soggetto che non ad essere umano, ma non c’è ragione di esserne turbato, in quanto lui stesso non sa se ritenersi l’una o l’altra cosa. Non si ritiene niente, se non in brevi momenti dettati come impulsi dal suo cervello - scariche elettriche da un filo scoperto dei macchinari di Vexen.

E’ passato del tempo, ma ancora non sa che cosa considerarsi.

Per tanto, non si considera affatto.

Non considerandosi, non deve preoccuparsi di quantificare il tempo che scorre.

Se avesse l’esatta percezione di quello che è, pensa, ne vorrebbe avere altrettanta del tempo. Lo farebbe diventare matto. Meglio lasciar perdere.

Lasciar perdere tutto.

Anche se c’é un vuoto, nel suo stomaco, che comincia a chiedere di essere riempito.


*

In un certo momento, Vexen lo guarda come se lo vedesse per la prima volta e gli dice: “Copriti.”

Lui ignaro sente la consistenza ruvida del camice di carta lanciatogli addosso e capisce di essere per qualche motivo diventato più vivo.


*

Inghiotte le pillole con l’acqua. Sono grosse e gli si conficcano in gola, ma non è questo il problema. E’ l’acqua a dargli la nausea, il suo sapore, come sembrava viscida, il senso di perdersi quando la guarda nel bicchiere e si sente risucchiare gli occhi come se l’acqua fosse il senso finale di ogni cosa ed il suo mondo fosse racchiuso lì. In un bicchiere di plastica.

“Che cosa significa che non avete un cuore?”

“Che non ci è dato di provare sentimenti. Ammesso che questo significhi qualcosa.”

“Ed è una cosa grave?”

“Forse no. Tuttavia, un problema resta comunque tale, e va posto un rimedio. Malgrado qualcuno se lo dimentichi, è per questo che esiste l’Organizzazione XIII.”

“Porre rimedio?”

“Ritrovando un cuore.”

“Se non è grave, perché farlo?”

“Perché i primi di noi sono scienziati.”

Si toglie i guanti di plastica e li sostituisce con quelli di palle. Lui muove curiosamente le gambe nel vuoto come se lo stupisse vederle reagire, ma non è così. Le scoperte si accumulano dentro di lui come l’immondizia nel cestino della spazzatura sotto la scrivania di Vexen. Niente conta. E’ soltanto una questione di colmarsi.

“Non proviamo dolore, né pentimento per ciò che abbiamo fatto. Tuttavia abbiamo commesso un errore, e in quanto a scienziati non lo riteniamo giustificabile. Questo ci porta a provare un senso di disagio intraducibile però in specifiche sensazioni; gli stimoli si ingolfano, e questo conduce alla pazzia. E' a questo, che serve un cuore: a fare finta che tutto abbia un significato anche quando non ce l'ha affatto. Come scienziati, verrai a dirmi, dovremmo considerare la mancanza d’uno strumento che porta alla cecità e all’illusione come una fortuna. L’ho pensato, è vero. Ma poi ho compreso la reale gravità del problema. Senza un cuore, l’estrema fallibilità umana diventa cosa difficilmente sopportabile.”

E’ difficile che Vexen parli di sua iniziativa, se lo fa è per dargli indicazioni su come respirare o tenere le braccia mentre conficca nel suo corpo attrezzi per misurarne l’affidabilità. Tuttavia quando è il suo bisogno di riempirsi a dargliene la possibilità, parla a lungo, finché non ha detto tutto.

E’ meglio che tu non ce l’abbia un cuore pensa lui, ma dal momento che non sa che cosa significhi quel pensiero o perché l’abbia avuto, non dice niente. Non vede perché condividere tutti i suoi pensieri, in fin dei conti. Cominci ad esserne geloso. I suoi pensieri, seppur limitati che siano, sono suoi.

E’ già qualcosa.


*

Vexen ha cominciato a guardarlo in modo diverso quand’è nudo, come se l’averlo vestito una volta avesse conferito un diverso significato al non esserlo. Lui ha cominciato prima a notarlo e poi man mano a trovarlo sgradevole, fino al punto da chiedersi se non debba considerare la propria nudità come qualcosa di sconveniente. Sente qualcosa di simile a livello celebrale, la prima volta che Vexen lo chiama Riku.

“Riku?”

L’uomo è concentrato sui suoi strumenti, ha notato un problema nel suo sistema cardiovascolare e per tanto, dovendosi occupare di lui, non ha tempo da dedicargli. Lui sa che esistono i padri, ma anche se non sa come sono ha come la sensazione che debba trattarsi di un paradosso del genere. Lui sa anche che esistono i figli, e anche se non sa come sono, crede di comportarsi da figlio quando invece di lasciar perdere ripete la domanda a voce più alta – e non pensa neanche che è strano, una volta (quanto tempo fa?) non l’avrebbe fatto.

“E’ il tuo nome. Riku. Ricordatelo.”

Riku pensa che è sempre più evidente che qualcosa sta cambiando. Pensa che se adesso ha un nome e prima invece no, qualcosa deve essere cambiato in modo irreversibile.

Irreversibile. Che parola dolorosa.


*


Quanto tempo è passato?


Sta mettendo per la prima volta qualcosa di solito sotto i denti, mentre Vexen invece come al solito non mangia e si sente da lontano qualcosa che potrebbe essere il battito della pioggia. Lui lo guarda come in uno stato di profonda riflessione, e quando Riku ha finito gli chiede: “Hai mangiato bene?”

“Credo di sì.”

Vexen resta in silenzio per un tempo lunghissimo in confronto ad un momento così insignificante, e per un attimo sembra sia impegnato a svolgere un calcolo difficilissimo quando infine risponde: “Bene.”

I due si guardano per un attimo, poi Vexen distoglie lo sguardo e butta il piatto di plastica nell’immondizia, con un disprezzo che sembra voler dimostrare qualcosa.


*


Quanti anni ho?


“Percepisco dei cambiamenti.” Si decide a dire a un certo punto, dopo che questo pensiero da chissà quanto tempo lo tormenta. “Non sono piacevoli.”

“Ti sto gradualmente instillando i dati della personalità del Riku reale – quelli non presenti o non sufficientemente impressi nel suo codice genetico, dal quale ti ho creato.”

Le parole del Riku reale si disperdono pesantemente dentro di lui come i rintocchi di una campana in uno spazio vuoto, e quello che gli sembra più importante chiedergli questo momento è: “Perché gradualmente?”

E Vexen lo guarda ancora una volta in quel modo, come se lo stesse mettendo in crisi. Ma sembra rassegnato. L’espressione che di solito segna a lungo il suo viso si dissolve e lui risponde a voce bassa, senza allontanarsi: “Per non farti male.”



*


Che aspetto ho?


Che cosa percepiscono gli altri della mia persona fisica?


Gli aveva chiesto quanti anni aveva, e Vexen aveva risposto non più di sedici.

Gli aveva chiesto, questo significa che sono giovane? Sì. Più giovane di te. Sì. Di quanto? Meno di quanto potresti supporre, ma comunque abbastanza.

Gli aveva chiesto, come sono? e Vexen gli aveva portato uno specchio rettangolare senza cornice e scrostato nei bordi, che sembrava staccato da un muro.

Lui si era guardato, ma quell’immagine non gli diceva niente, e non trovando risposta a nessuna delle sue domande in merito aveva chiesto di nuovo: come sono? Vexen gli aveva risposto che era affetto da un’anomalia genetica di tipo OCA1a nella pigmentazione melaninica, il che in una prima fase l’aveva fatto dubitare in merito alla facile riuscita del progetto, tuttavia contrariamente alle aspettative il suo fisico si era rivelato straordinariamente sano, ed aveva anche una muscolatura insolitamente sviluppata, per la sua età.

“Sì, ma come sono?” chiede infine, spazientito.

“Sei bello, è questo che volevi sapere?”

Riku è colto del tutto alla sprovvista, ma pur pensando che la risposta sia no risponde ammansito “credo di sì”.

“Bene. Allora ricordatelo.”

Riku volta lo specchio e lo appoggia con cautela sulle ginocchia, come se qualcosa, qualunque cosa, potesse rompersi.


Potrei, anche sforzandomi, apparire normale?


*


Parlami di Riku.


Vexen ha cominciato ad instillargli gradualmente i dati della personalità di Riku. Lui prova contemporaneamente una sensazione di grande sollievo ed incommensurabile disgusto, come essere riempiti di un cibo che ci ripugna dopo un lunghissimo digiuno. Quello che prova lo disgusta e gli calza come la sua stessa pelle. Crede di essere anormale, ma quando è pieno a sufficienza si chiede anche se non sia così che in realtà tutti gli esseri umani si sentono. Chiude gli occhi, perché non riesce a sopportare e non vorrebbe affatto farlo.




Mare. Solo mare a perdita d’occhio. Mare che si mescola con il cielo. Mare che delimita il cielo.

Una zolla di terra circolare in mezzo al tempo. Il tempo immobile. Il tempo come una barricata, una muraglia invisibile, una trincea. Il tempo cristallizzato sul loro viso. Le ragnatele della loro infanzia impossibili da staccare. Loro tre in un’ampolla in cui manca l’aria. Tempera diluita all’infinito, segni isterici trascinati sul foglio. Segni sulle rocce - segni sulle rocce che si incidono sul cuore e disegnano le pareti del suo sangue. E anche questa incrollabile, incontrastabile finzione si piegherà. Sarà sempre più piccola, più limitata, il cerchio di terra sempre più stretto, finché anche soltanto tre persone saranno troppe, la zattera avrà troppi buchi, il peso sarà troppo e la tempesta ormai implacabile, e la zavorra verrà gettata in mare.

E vissero per sempre felici e contenti. Loro due.

Soli.




“Riku voleva sfuggire da un mondo che per lui era diventato peggiore della morte, e per farlo si è volontariamente offerto all’oscurità, dalla quale si è allo stesso modo volontariamente sottratto. E’ una persona iraconda, facile all’adulazione ed altrettanto facilmente corruttibile, eppure tutto il potere che gli veniva offerto non è stato infine sufficiente a convincerlo a sacrificare il proprio cuore. E’ difficile stabilire se ci si trovi davanti ad una persona dalla natura in fin dei conti ottusamente buona, oppure sconsideratamente avida, che non ritiene nessun baratto alla sua altezza.

Attualmente il suo potere si sta volontariamente serbando, ma è innescabile, come un arma. Riuscendo a premere quel grilletto, nemmeno la forza di Sora, o persino quella del Re, sarebbero paragonabili alla sua.

Lo ritengo una creatura estremamente affascinante.”




Un paradiso sintetico.

Una prigione.

La loro pantomima.

La loro favola spaccata.


“Chi è Sora?”


Una fottuta prigione.


“Qualcuno che, come noi, è convinto che riportando le cose al loro stato originale potrà essere felice per sempre.” – Vexen fa una lunga pausa, poi sogghigna amaramente - “Essere felici per sempre. Riesci a immaginare qualcosa di più perverso?”

Riku si guarda intorno. Le pareti della stanza gli si stringono attorno e il suono implacabile delle onde gli riempie sempre più forte le orecchie. Dovrebbe essere il suono fragrante della libertà, della gioia, ma per lui quello è un grido di agonia.

Essere felici per sempre. Una fottuta prigione.


Sora.


*


Come di consueto Vexen si sta lamentando di quelli che lui chiama del piano di sopra, ma non solo; lui dà l’idea, a Riku, di essere stato un uomo che si è trascinato stancamente per tutta la vita in quella depressione che deriva dalla certezza di non essere mai stati apprezzati abbastanza, e in quanto a Nobody adesso non è altro che il lembo sdrucito di un insaziabile desiderio di popolarità.

Riku crede anche che Vexen odi quelli del piano di sopra perché dalle sue parole trapela siano giovani e belli – qualcosa che lui non è e che probabilmente non è mai stato. Chissà se odia anche lui? Gli dispiacerebbe, in fin dei conti.

“Non ho mai approvato la pratica del reclutamento ai fini d’inserimento. Quando il Superiore parlava di cercare quelli come noi inizialmente, pensavo parlasse di creare un esercito del quale saremmo stati i padroni. Invece ciascun Nobody in forma umana che abbiamo incontrato sulla nostra strada è stato portato al nostro stesso livello, quasi fosse eccezionale la scoperta che alcuni esseri umani possano essere sufficientemente testardi ed avari di vita da far sopravvivere i loro difetti anche alla morte. Mi stupisce il contrario, invece, che siamo in così pochi. Ma non credo che essere stati i peggiori esseri umani fra tutti i peggiori esseri umani dovrebbe essere una credenziale di merito, al contrario. Io avrei diffidato fin dal principio proprio dei nostri simili più che di tutti gli altri, e quei tre mi hanno dato ragione, e me ne daranno ancora; almeno tu, credimi, quando ti dico che saranno la nostra rovina.”

A Riku non importa molto, ma sembra che per lui sia importante che qualcuno gli dia retta, così annuisce per una sorta di rassegnata compassione. Vexen infatti cerca di sorridere. Sembra che gli costi uno sforzo disumano. Riku vorrebbe che smettesse.

“Non sei obbligato a prestare attenzione ai miei discorsi barbosi.”

“Parli come un vecchio. Comunque, non è che abbia nient’altro da fare.”

“Presto lo avrai.”

“E poi?”

Vexen aggrotta leggermente le sopracciglia, così rade che sembrano bruciate: “…che cosa intendi?”

“Che cosa farò, dopo?”

L’uomo si siede davanti a lui, come se si stesse preparando ad un lungo e difficile discorso, ma infine poggia semplicemente entrambe le mani sulle ginocchia e dice: “Non esistono risposte soddisfacenti a queste domande, Riku. Porgersele causa solo sofferenza e frustrazione. Non fartene mai, ricordatelo.”

Riku annuisce, ed essendo Vexen la persona che l’ha creato, pensa che nonostante l’ovvietà del contrario lui sia anche la sola persona che possa insegnargli correttamente a vivere.


*


Vexen sta da un po’ fissando monitor che proiettano immagini che Riku non è interessato a vedere. Sente dei suoni - tre voci, una gracchiante, un’altra particolarmente irritante. Ad un certo punto, mentre lui sta cercando di dormire, Vexen ride e Riku gli chiede infastidito: “Cosa c’è?”

“Credo di aver capito.”

“Che cosa?”

“Quello che innesca il grilletto del potere di Riku.”

“E che cosa sarebbe?”

Vexen torna a fissare i monitor le cui luci fredde rendono spettrali la sua faccia, poi sogghigna, estasiato: “E’ una chiave.”


*


Riku ha indossato un completo aderente nero e per la prima volta ha l’impressione che i suoi capelli siano troppo lunghi per essere quelli di un maschio. E’ strano, perché Vexen li ha molto più lunghi dei suoi. Si sente come se mettesse giù i piedi dal suo lettino per la prima volta, anche se non è così, e mentre guarda la porta del laboratorio all’improvviso non sa se la vuole varcare.

All’improvviso, pensa che forse dovrebbe rimanere lì dentro con quell’uomo per sempre.

“Quanto tempo è passato?”

“Tre giorni. Ormai sei diventato grande.”

“Io mi sento sempre uguale. Tre giorni non sono molto tempo, vero?”

“Abbastanza per abituarsi a qualcosa.”

“Ma non è comunque molto.”

“No, in effetti non lo è.”

“Ma in effetti mi sembrava molto.”

Vexen fa una specie di risata scuotendo la testa, ma non distoglie lo sguardo, e quando si avvicina al punto dove lui sta in piedi immobile - perché anche volendo muoversi, non saprebbe dove andare- gli afferra le spalle. Non c’è mai stata una tale forza nei suoi tocchi ospedalieri, e Riku constata con distacco che quando l’hanno preso le sue mani hanno tremato. Vexen lo guarda negli occhi a lungo, duramente, intensamente.

“Fai quello che ti dico, per favore.”

Lui accenna un sorriso tagliente: “Non puoi semplicemente ordinarmelo?”

Vexen gli risponde seriamente, in un modo che lo zittisce: “No, non voglio.”

Riku abbassa lo sguardo, piegato da qualcosa che gli sembra essere imbarazzo, poi bofonchia verso il pavimento: “Sì, lo so. Devo attenermi al piano, così riavrai la tua posizione e il tuo cuore.”

“E tu prenderai il posto del vero Riku.” aggiunge lui, come se questo avesse un importanza fondamentale, ma Riku non è sicuro che sia quello che vuole.

Lui vuole provare di essere migliore. Comporta quindi che voglia essere migliore di Riku, che a sua volta vuole essere migliore di tutti gli altri? Forse sì. Ma è un desiderio intraducibile, primitivo. Lui vuole tutto.

E quando lo avrà, il vuoto dentro di lui sarà riempito.

Quando lo avrà…

Il pensiero cade come un sasso nel mare. Non importa.

Vexen si piega e calca con forza le labbra sulle sue. Sono fredde, asciutte, dallo spessore appena percettibile. E’ come baciare il vetro di una cornice vuota. Riku rimane immobile perché non pensa di doversi muovere e quando Vexen si separa da lui lo sta guardando diritto negli occhi come, è strano, non si erano mai guardati all’inizio.

“Questo che cos’era?” gli chiede.

“Solitudine.”

“Devo ricordarmene?”

Vexen gli lascia andare le spalle, allontanandosi, e smettendo una volta per tutte di guardarlo risponde: “No. Per ora, va bene così.”

Non chiedendosi a che cosa alludano le sue parole Riku solleva le spalle e, per ora, decide che va bene così e lascia perdere.


***


Note dell’autrice: Strangeness DSS(m) è una citazione ad Evangelion. Era la scritta che c’era nel terminal dogma, dov’è stata cresciuta Rei bambina <3 Ci stava XD A parte questo, era tantissimo che volevo scrivere su questi personaggi °_° L’idea non era quella di farne un pairing in senso di protocollo, assolutamente, ma proprio per questo mi è piaciuto farla concludere con un gesto che ne fosse tipico. Mi sembrava adatto a due persone con un tale disagio verso la propria presunta umanità.

E:..basta. Ciao ciao XD

  
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